Possiamo sognare un Concilio Vaticano III ?
Monsignor Luigi Bettazzi è tra le figure più significative del cattolicesimo italiano.
Vescovo emerito di Ivrea, ha partecipato al Concilio Vaticano II in quanto ausiliare del Cardinale Lercaro (uno dei quattro moderatori dell’assise conciliare).
Per diversi anni è stato Presidente di Pax Christi. Nel 1976 scrisse una lettera a Enrico Berlinguer, allora segretario del Pci, che fece molto discutere l’opinione pubblica italiana.
Non rinuncia al gusto della battuta, nè alle barzellette. «Una mattina», racconta, «il cardinale Ottaviani si svegliò tardi. Chiamò un taxi: “Portami in fretta al Concilio”. Salito in auto, si riaddormentò.Quando finalmente si destò scoprì con suo grande stupore di trovarsi in aperta campagna. “Ma dove mi porti?”. Il taxista: “Al Concilio di Trento. Dove se no?”».
E Mons. Bettazzi al Concilio c’era
«Sì, io c’ero. Tra gli italiani lo possiamo dire in cinque: i cardinali Fiorenzo Angelini e Giovanni Canestri, monsignor Felice Leonardo di Cerreto Sannita-Telese-Sant’Agata de’ Goti e monsignor Salvatore Nicolosi di Noto. Anzi, siamo rimasti in sei. Non va infatti dimenticato don Giovanni Franzoni, allora abate di San Paolo fuori le Mura».
«Entrai in Concilio durante la seconda sessione, nell’autunno 1963, una settimana dopo esser stato consacrato vescovo ausiliare del cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna. Capii allora che cos’era l’universalità della Chiesa. Incontrai, infatti, confratelli nati e cresciuti in Africa, nell’America meridionale, in Asia. Con le loro storie, con le loro culture quei vescovi rendevano il Concilio antropologicamente “ecumenico”.
Mi colpì, poi, il dinamismo.
Emergevano idee, c’era dibattito, si maturava insieme, passo a passo. Papi compresi.
I documenti scritti dalle commissioni preparatorie, presiedute da cardinali di Curia, furono sostituiti da testi elaborati dalle nuove commissioni, in cui le Conferenze episcopali avevano nominato vescovi e teologi di loro fiducia».
«Compresi così l’intuizione di papa Giovanni che volle indire un Concilio non “dogmatico” (per definire, cioè, nuove verità di fede, scomunicando – anathema sit! –quanti non le avessero accolte), ma “pastorale”, nell’intento di presentare la verità di sempre in modo comprensibile e più facilmente accettabile».
Cos’è rimasto?
«La rivoluzione copernicana contenuta nella Gaudium et spes (non l’umanità per la Chiesa, ma la Chiesa per l’umanità) e quella della Lumen gentium (non i fedeli per la gerarchia, ma la gerarchia per i fedeli) stentano ad affermarsi.
Mentre le altre due (il primato della parola di Dio, esplicitato nella Dei Verbum, e la riforma liturgica, che, grazie alla Sacrosanctum concilium, è più partecipata di un tempo sono sostanzialmente riuscite.
Purtroppo le esagerazioni seguite al Sessantotto permisero a quelli che erano preoccupati dei cambiamenti di dire: “Vedete cos’è successocon il Concilio?”. C’era chi a Messa pretendeva di leggere Che Guevara al posto della Scrittura… Insieme all’acqua sporca, però, si è corso e si corre il rischio di buttare via anche il bambino».
Possiamo sognare un Concilio Vaticano III ?
Può sembrare strano che a una domanda del genere si risponda con esitazione. Eppure la fanno a me, che ho avuto la grande grazia di poter partecipare di persona al Concilio Vaticano II, dal secondo al quarto periodo, di averlo fatto come Vescovo Ausiliare del mio Arcivescovo, il Card. Giacomo Lercaro, allora divenuto uno dei quattro Moderatori chiamando a Roma don Giuseppe Dossetti, fra l’altro esperto – come il suo collaboratore, il prof. Giuseppe Alberigo – proprio dei Concili Ecumenici nella storia della Chiesa. A me, tanto entusiasta del Concilio da aver scritto su di esso – soprattutto sui Documenti fondamentali, le quattro Costituzioni – due opuscoli e di avere risposto su di esso a molte interviste, l’ultima delle quali, tradotta in un libro con il commento di un vaticanista della TV (A.M. Valli – L. Bettazzi “Difendere il Concilio” Ed S. Paolo), reca come commento al titolo una frase del giornalista: “Quando parla del Concilio, del suo Concilio, mons. Bettazzi è come un fiume in piena”. A me che nel libro in via di pubblicazione (“In dialogo con i lontani – Memorie e riflessioni di un vescovo un po’ laico”, Ed Aliberti) tratto a lungo del Concilio documentando molte vicende della vita di quell’Assemblea, così come ha fatto Dom Helder Camara nel suo eccezionale Diario del Concilio (“Roma, due del mattino”, Ed S. Paolo), di cui sono stato invitato a scrivere la prefazione. E allora?
Sembra anche che le mie esitazioni contrastino con l’auspicio di un nuovo Concilio, fatto nientemeno che dal Card. Carlo M. Martini. Se non fosse che proprio il Card. Martini, nella sua acutezza e saggezza, in realtà non ebbe a chiedere un nuovo Concilio, bensì assemblee generali di tutto l’episcopato su punti particolari della dottrina teologica o della vita morale (es. i problemi della bioetica o della sessuologia, o la situazione e la pastorale dei divorziati) sui quali tutto l’episcopato venga coinvolto, con l’autorevolezza quindi di un Concilio Ecumenico, ma senza la prospettiva di allargare la visuale a tutte le problematiche ecclesiali (come fece appunto il Concilio Vaticano II), nel timore – certo ingiustificato, data l’azione dello Spirito Santo, sempre sorprendente – di un ritorno all’indietro del cammino fatto dal Vaticano II, per le spinte – innegabili – a ricuperi e ridimensionamenti. Il Concilio Vaticano I infatti fu gestito completamente dal gruppo che non voleva cambiamenti (pare che Pio IX l’avesse convocato anche per avere suggerimenti “se” e “come” rinunciare allo Stato della Chiesa) fino all’anticipazione della definizione sul primato e l’infallibilità del Papa (ed è la gestione centralizzata che continua negli attuali Sinodi episcopali e li rende meno “collegiali” e forse meno efficaci).
In realtà l’efficacia del Vaticano II è derivata dall’essere giunto all’improvviso, deciso da Papa Giovanni XXIII senza aver consultato i suoi collaboratori (Pio XII, che aveva proposto l’idea di un Concilio, ne venne dissuaso proprio dai suoi collaboratori!), convinto dell’importanza di un Concilio ma forse senza avere ben chiaro quali avrebbero dovuto essere i suoi risultati (pare che fosse già soddisfatto della settantina di Documenti che le Commissioni preparatorie avevano approntato). Il secondo motivo di positività fu che Papa Giovanni lo indisse non come un Concilio “dogmatico”, che cioè definisse alcune verità (i dogmi) comminando “anatemi” su quanti non li accettassero (cioè scomunicandoli), bensì come un Concilio “pastorale”, che parte cioè dalle persone e dai popoli del nostro tempo, dalle loro culture, dalle loro storie, dalle loro mentalità per condurli verso il regno di Dio, il mondo come Dio lo vuole (che dà “gloria a Dio e pace in terra”), di cui la Chiesa è “sacramento”, cioè segno sensibile e strumento efficace. Ma la ragione più forte della sua positività fu che papa Giovanni fece capire fin dall’inizio che il Concilio era nelle mani dei Vescovi, concedendo ai vescovi il tempo di modificare totalmente la composizione delle Commissioni di studio preparate dalla Segreteria – espressione delle strutture centrali – e rimandando d’autorità a rielaborare il Documento su “le fonti della Rivelazione”, che la maggioranza aveva respinto, ma senza giungere ai due terzi dei Padri conciliari, come il Regolamento esigeva per riscrivere un Documento. E Paolo VI che nel primo periodo, come Arcivescovo di Milano, s’era reso conto del pericolo che il Concilio venisse…addormentato da chi, appellandosi alla tradizione, temeva troppi cambiamenti, accolse la proposta che il Concilio fosse guidato da Vescovi membri dell’Assemblea, e nominò quattro Cardinali Moderatori che furono in grado di assecondare l’esigenza di rinnovamento che emergeva con forza dall’insieme dei Vescovi.
Chi incolpa il Concilio di aver creato le premesse per le crisi di religiosità di cui sembra soffrire la cristianità (mentre forse ha anticipato la diagnosi della crisi salvando la possibilità di affrontarla e di superarla), accusa di faziosità quanti esaltano le novità del Concilio, in particolare la cosiddetta “Officina bolognese”, cioè l’Istituto di Scienze religiose fondato a Bologna da don Dossetti, che sotto la direzione del prof. Alberigo ha pubblicato la monumentale Storia del Concilio Vaticano II (cinque volumi, tradotti nelle principali lingue del mondo), contestata dagli ambienti più tradizionalisti. (il Card. Ruini l’ha praticamente paragonata alla “Storia del Concilio di Trento” del Sarpi, indicata abitualmente come un esempio di faziosità), forse proprio perché documenta il faticoso cammino del Concilio, tra le aperture della maggioranza ed i freni della minoranza. L’appellarsi – come è stato fatto – all’attenzione di Paolo VI nei confronti delle richieste della minoranza non comporta che “il Concilio vada interpretato secondo la mente riduttiva della minoranza”, bensì che così come è stato stabilito con il contributo di tutti e confermato dal Papa, praticamente con l’unanimità dei vescovi, va accolto e vissuto come un dono dello Spirito Santo. E’ nei testi stessi lo “spirito del Concilio”, solo che li si voglia leggere e interpretare con animo aperto.
Limitandoci appunto alle quattro Costituzioni penso al grande respiro aperto alla fede dall’aver richiamato l’importanza della Bibbia come tramite della Parola di Dio rivolta proprio oggi a tutta la Chiesa e ad ogni cristiano; penso ad una liturgia viva in cui ogni cristiano si unisca a Cristo, presente nella sua preghiera eterna; penso ad una Chiesa che si apra all’umanità già riscattata dalla Pasqua di Cristo, “primogenito di ogni creatura” (Col 1, 15), riconoscendovi tutti i “germi del Verbo” (come dice la “Gaudium et spes”), da alimentare e sviluppare innanzitutto con la propria testimonianza; e penso ad una Chiesa sempre meno arroccata passivamente intorno alla gerarchia, bensì “popolo di Dio”, con la responsabilità dei fedeli di far lievitare nel mondo il “regno di Dio”, regno di coscienza e di pace, con una gerarchia che si impegni sempre più ad essere “ministero”, cioè servizio.
Quando parlo di “arroccare”, alludo alla tendenza a chiuderci in difesa, finendo forse così coll’aggravare il clima di crisi provocato da una società sempre più superficiale e consumistica. Il fatto che ad oltre quarant’anni dal Concilio il Papa abbia sentito la necessità di convocare un Sinodo episcopale sulla Parola di Dio, oggetto della Costituzione del Concilio che più di tutte le altre sottolinea la vocazione della Chiesa a sentirsi aperta a Dio e quindi aperta all’umanità, può diventare anche il riconoscimento che forse ci andavamo nuovamente rinchiudendo nelle fortezze dei nostri dogmatismi, nella sicurezza dei nostri progetti culturali, timorosi forse che il dominio della Parola di Dio ed una liturgia troppo partecipata potessero sollecitare troppe speranze e troppi rinnovamenti.
Quando parlo del Concilio Vaticano II lo commento sempre con un “già e non ancora”: ha già dato molto, ma ha ancora molto da dare. Ed è per questo che anziché sognare un Concilio Vaticano III, io sto sognando che si attui pienamente il Concilio Vaticano II!
+ Luigi Bettazzi
Vescovo emerito di Ivrea
Padre conciliare del Concilio Vaticano II
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