I poveri «poveri» sono quelli che non lasciano nome, sono gli anonimi; l'immensa schiera di coloro che non hanno nome e su cui l'Onnipotenza di Dio stende la sua mano.
Nella festività di tutti i Santi, riportiamo una piccola riflessione di P. Ernesto Balducci, tratta da ” il mandorlo e il fuoco”
(Ernesto Balducci è stato una delle personalità di maggior spicco nella cultura del mondo cattolico italiano nel periodo che accompagnò e seguì il Concilio Vaticano II. Fu legato a Giorgio La Pira, David Maria Turoldo, Lorenzo Milani, Danilo Cubattoli, Silvano Piovanelli, Mario Gozzini, Bruno Borghi, Raffaele Bensi e molti altri cattolici democratici e “di sinistra” vissuti a Firenze tra gli anni cinquanta e gli anni novanta.)
“Personalmente, quando io cerco di fare la mia, professione di fede, usando un sillabario che sia il più possibile conforme all’indole mia (mi permetto questa confidenza), non oso tanto alzare gli occhi verso una Maestà divina che non so nominare.
Ho sempre .paura, quando parlo di Dio (o quando si parla di Dio), che ci si guardi allo specchio, e si parli di Dio in realtà parlando di noi e dando dimensioni assolute ad atteggiamenti ed espressioni del nostro spirito.
In genere si nomina Dio senza sapere che quel nome non vale: è idolatria: il mistero del Vangelo sta tutto in una specie di rovesciamento che ci obbliga a verificare la nostra fede non già su un Dio che non vediamo e che può essere, perciò, un luogo di inganno, di auto-inganno, ma sull’uomo.
E allora la mia professione di fede la misuro sulla quantità di convinzione con cui riesco a dire: «Beati i poveri, i miti, i misericordiosi ecc. ».
Se io sono veramente convinto che beate sono le persone che nella società non contano, e che quindi la linea di Dio, questa linea luminosa che, sotto la coltre della storia, corre verso l’eternità, passa soprattutto tra costoro, se io son convinto di questo io sono nella convinzione morale che la mia fede nel Signore regge, è viva.
E per quanto mi riguarda io mi devo domandare in che misura io cammino nel tempo regolandomi su questa certezza: che la vera beatitudine, cioè la partecipazione anticipata alla gloria descritta dalla liturgia dell’ Apocalisse, io la vivo nell’esperienza diretta di questa convinzione.
Vorrei dire, senza nessuna intenzione malevola, che i veri santi non sono i santi nominati, sono quelli senza nome.
Perché, in fondo, chi è stato glorificato, chi è stato seguito, ha sempre avuto un po’ di potere: non è stato «un povero» del tutto.
I poveri «poveri» sono quelli che non lasciano nome, sono gli anonimi; l’immensa schiera di coloro che non hanno nome e su cui l’Onnipotenza di Dio stende la sua mano.
E questa simpatia organica per i reietti, i semplici, i senza peso specifico, quelli a cui nessun costruttore di società stenderebbe la mano, perché senza storia, questa predilezione scandalosa del Povero di Nazareth per gente del genere: ecco il pungolo che mi contesta.
Se io penso ai santi (come nel patriottismo di altri tempi si pensava agli eroi dei nostri Pantheon nazionali) come a una gloria della Chiesa io li penso con categorie di potere.
E in fondo mentisco, violo il mistero di un Dio che si fa beffa di queste nostre classificazioni spirituali.
La santità si estende come un continente invisibile nella società. E noi non abbiamo planimetrie adatte a stabilire dove è il Regno di Dio.
Questo è il mistero.
Non è solo il mistero che riguarda me o che io avverto quando mi interrogo su chi sono e in che senso sono figlio di Dio, ma è un mistero anche nel senso che non è dato discernere quali siano i santi di Dio tra di noi.
Non è detto che siano quelli che vanno in Chiesa, è probabile che no; non è detto che siano quelli che conoscono per filo e per segno i dogmi della nostra fede, può darsi che no.
Il Signore nella sua solenne risposta (come vedete) non fa questioni di dogmi, di pratiche.
La vera storia della fede non si racconta perché se si racconta non è più la vera storia.
La vera storia dei santi non è l’agiografia convenzionale, perché essa è scritta nel libro chiuso da sette sigilli che sarà aperto solo quando vedremo Dio.
Questo non è un modo per giocare col mistero, per annullare le determinazioni di cui la ragione ha bisogno per ragionare sulla società; è un modo di trascendere i nostri discorsi, pur necessari, sulla società, sui progetti dello Stato, sui progetti di giustizia sociale, di trascenderli in una considerazione ultima che ci r-guarda. Quando pensiamo ai nostri morti (come avviene in questi giorni), noi cogliamo la nostra grande tribolazione, la nostra estrema povertà, la fragilità di cui ci dimentichiamo ma che ci viene rigettata in faccia.
Siamo poveri, provvisori.
E questa condizione la dobbiamo accogliere, al cospetto di Dio, con fiducia filiale. In questo modo scendiamo, vivendo la fede, in profondità dove il sì e il no, la luce e le tenebre si incontrano, nei loro terribili estremi.
Attraverso questo discorso è lecito guardare la gloria dei cieli con autenticità.
È molto facile che il discorso sui poveri, sui miti … diventi un discorso di consolazione (anche legittima, in parte) estraneo, per così dire, dal resto delle verità.
Una volta che ci convinciamo che questa è la via, allora siamo tentati di guardare gli altri, cioè i prepotenti, i ricchi, i gaudenti … e così via con una specie di rifiuto, di distacco.
Si cadrebbe nell’orgoglio.
La fede ci fa certi – ecco un punto importante – che a questa beatitudine dei poveri, dei miti, dei pacifici … sono chiamati tutti gli uomini.
Per cui di fronte ad un prepotente, non mi basta resistere con mitezza alle sue angherie e alle sue malversazioni.
Io devo nello stesso momento essere convinto che questo prepotente è un infelice che aspira alla mitezza.
Se di fronte ad un ricco io mi limito ad inveire contro la sua ricchezza, non sono ancora nella pienezza del segreto di Dio. Devo essere convinto che questo ricco è un disgraziato che fa infelici gli altri e che non ha scoperto la beatitudine dell’essere povero.
Le qualità espresse dalle beatitudini, sono qualità necessarie alla pienezza del genere umano. Allora, mentre noi ci uniformiamo (nel senso ricco della parola) a questo modello venutoci dal di fuori (le beatitudini del Vangelo) noi rappresentiamo, per così dire, l’intera umanità, trasciniamo verso la gloria anche coloro a cui non è apparsa con evidenza e forza la luce della Rivelazione.”
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