IV Domenica di Quaresima: alzarsi, andare vuol dire ricominciare a vivere di speranze, nella speranza.
Vi sono molti modi di rifiutare il Padre e il cammino verso di lui. Il più comune (e il più nascosto nell’inconscio) è di rifiutare la morte. Eppure tutti, senza distinzione, siamo incamminati in un viaggio, breve o lungo, che inesorabilmente ci porta verso di essa.
Vivere è anche convivere con l’idea che tutto prima o poi finirà.
V’è chi si consola pensando che quando ci sarà la morte noi non ci saremo più e che finché ci siamo essa non c’è. Ma si tratta di una consolazione fragile. In realtà la morte incombe su ogni istante della nostra vita, incombe nella forma della domanda: che sarà di me dopo la morte? che senso ha per me la vita? dove vado con tutto il bagaglio dei miei sforzi, delle mie pene, delle mie magre consolazioni?
In tali domande la morte appare come una sfida radicale al pensare umano, una sfida da cui nasce una riflessione seria. E’ come una sentinella che fa la guardia al mistero. ….
Sento che alcuni leggendo queste parole saranno tentati di rifiutarle: perché cominciare con un argomento così serio e troppo poco pervaso dalla speranza delle Scritture? Eppure non ho fatto altro che richiamare la vicenda narrata da Gesù nella parabola dei due figli. E’ quando il minore, che ha voluto andarsene da casa e ha sperperato i suoi beni, si trova a toccare il fondo ….. che, quasi per contraccolpo, si ricorda che c’è una casa del padre, dove anche i servi hanno vita, dignità …
L’esperienza della miseria gli consente di guardare in faccia la via della morte che sta percorrendo e di ribellarsi. Quando ci sentiamo soli, quando nessuno sembra volerci più e noi stessi abbiamo ragioni per disprezzarci o essere scontenti di noi, quando la prospettiva della morte o di una perdita grave ci spaventa e ci getta nella depressione, ecco che dal profondo del cuore riemerge il presentimento e la nostalgia di un Altro che possa accoglierci e farci sentire amati, al di là di tutto e nonostante tutto.
Il Padre è in questo senso …l’immagine di qualcuno a cui affidarci senza riserve. …. La sua figura ha al tempo stesso tratti paterni e materni: se ne può parlare come del Padre nelle cui braccia si è sicuri e come della Madre a cui ancorare la vita che da essa riconosciamo. E’ pertanto evocazione dell’origine, del grembo, della patria, della casa, del focolare, del cuore a cui rimettere tutto ciò che siamo, del volto a cui guardare senza timore. Il bisogno del Padre è quindi equiparabile al bisogno di un riferimento e di un rifugio paterno e materno e può essere espresso indifferentemente con metafore maschili e femminili.
In questa luce la parola del figlio prodigo “Mi alzerò e andrò da mio padre” esprime l’esigenza di un’origine in cui riconoscersi, di una compagnia da cui sentirsi amati e perdonati, di una meta verso cui tendere. ….
Se le cose stanno così, perché allora in tanti è presente un rifiuto perfino viscerale della figura paterna? Perché il Padre-Madre delle nostre origini è al tempo stesso per molti l’avversario da combattere, la controparte da cui emanciparsi e fuggire? Perché il figlio più giovane della parabola vuole “andarsene lontano” dalla casa paterna e dal padre?
Le ragioni del prodigo per andare via di casa sono le stesse per le quali è stata coniata l’espressione “uccisione del padre”. Essa denota l’impulso che c’è in noi di chiedere conto e ragione, a chi pensiamo che in qualche modo stia sopra di noi, di ciò che ci spetta, per essere finalmente padroni di noi stessi e del nostro destino, per fare di noi “ciò che ci piace”. Ma per questo occorre cancellare in qualche modo la figura del padre, fare come se non ci fosse mai stato, in qualche modo sopprimerlo. ….
Il rifiuto del padre di non pochi nostri contemporanei ci deve rendere guardinghi riguardo a un uso troppo facile dell’immagine paterna (e in certa misura anche di quella materna) per parlare di Dio. Quando parliamo di un “ritorno al Padre” non vogliamo intendere una sorta di regressione alla dipendenza infantile, né tanto meno rievocare conflittualità profonde che hanno segnato alcune personalità. Il Padre-Madre di cui parliamo qui è metafora dell’Altro misterioso e ultimo, a cui affidarci senza paura, nella certezza di essere accolti, purificati e perdonati. Questo riflesso del volto di un Padre-Madre capace di amarci senza riserve è stato vissuto da molti di noi in esperienze felici di relazioni paterne e materne. E pure chi ha avuto solo in parte queste esperienze, chi ha avuto addirittura esperienze negative, ha nel cuore, forse ancora più forte, la nostalgia del totalmente Altro a cui abbandonarsi.
Questo Altro che si offre a tutti come Padre-Madre nell’amore, come “Tu” di misericordia e di fedeltà, è quello che ci è stato rivelato in Gesù Cristo. Non è una pura aspirazione, un auspicio, un vano sospiro interiore: è una realtà che ci è stata manifestata, a cui possiamo appoggiarci come a roccia che non crolla, come a braccia che tengono stretti, come a cuore che palpita per noi.
…. Lì dove l’uomo si chiude in se stesso o pretende di abbracciare l’intero universo nel corto orizzonte dei suoi progetti, trionfano l’angoscia, il non senso, la solitudine.
Lì dove la persona accetta di mettersi in ricerca e di aprirsi a un orizzonte più grande, la figura di un Padre ci viene incontro e ci chiama. …..
Se la conoscenza di Dio come Padre non è una proiezione dell’esperienza che abbiamo di chiamare qualcuno sulla terra “padre” e “madre”, bensì una rivelazione dall’alto … nondimeno ogni cattiva prova fatta in questo campo nel seno della famiglia rischia di oscurare l’immagine paterna di Dio caricandola delle amarezze ed esperienze mancate che segnano l’infanzia e l’adolescenza di molti.
Lo stesso si potrebbe dire per ogni altra forma di rapporto che risponda in qualche modo al nome di “paternità”: quella pastorale, ad esempio, nella relazione pastore-fedeli, o quella spirituale nell’accompagnamento dei cammini di fede e di discernimento.
Sarebbe quindi possibile, a partire da quanto detto, delineare una tipologia di paternità e maternità distorte, come pure rilevare, nel mistero della paternità di Dio, le linee guida per il loro superamento.
Si tratta insomma di ripensare il rapporto genitoriale nella famiglia (e tutti i rapporti analoghi) alla luce del misterioso rapporto di paternità e di figliolanza tra Dio e l’uomo. Si pensi ad esempio a quanto nella società di oggi il “padre misericordioso” venga confuso con il padre dalle concessioni facili, che non sa insegnare ai figli a portare i pesi della vita. O al contrario come il richiamo all’autorità paterna venga bistrattato nella formula del padre-padrone. ….
“Mi alzerò e andrò da mio padre”: è su tale decisione di farci pellegrini e di andare incontro all’abbraccio dell’Altro accogliente che si gioca il cammino di liberazione della nostra vita e il superamento della crisi del secolarismo.
Alzarsi, andare vuol dire non lasciarsi prendere dalla nostalgia di un passato esistente solo nella nostra mente, né dalla seduzione di un presente in cui restar fermi nelle nostre piccole sicurezze o nel lamento sui nostri fallimenti.
Alzarsi, andare vuol dire accettare di essere sempre in ricerca, in ascolto dell’Altro, protesi verso l’incontro che ci sorprende e ci cambia, desiderosi finalmente di “obbedire” in maniera adulta (cfr. Mt 21,28-31 – la parabola dei due figli).
Alzarsi, andare vuol dire ricominciare a vivere di speranze, nella speranza. “Siamo dei poveri mendicanti, questa è la verità”: la frase – attribuita a Lutero morente – è non solo la confessione onesta del limite sperimentato, ma anche la dichiarazione di un progetto di vita che cerca fuori di sé, nell’Altro, nel Padre-Madre nell’amore il senso della vita e della storia. Andiamo insieme allora verso il Padre ad ascoltare la Parola in cui Lui stesso si è raccontato a noi.
( Tratto da: C.M. Martini: Ritorno al Padre di Tutti )
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