XIII Domenica del T.O. – Sequela: consegnare la propria vita a un altro.
“Il brano della vocazione di Eliseo va visto nel suo contesto: Elia ha fatto una semplice preghiera al Signore; ha detto: «Tutto è distrutto, sono rimasto solo»,-ma il Signore gli dice va e gli dà la forza di conferire la regalità e la potenza profetica (ad Eliseo); e pronuncia una parola che è giudizio: la condanna dei reprobi (che si manifesta nella strage) e la salvezza degli eletti …
Questo spiega la forza di Elia, nonostante la povertà dei gesti e le adesioni della gente: così un sol gesto basta per strappare Eliseo dalla sua vita abituale: non rimane più spazio per nessun altro interesse e rapporto.
Certo quello che Eliseo fa non è “simpatico”: lascia la sue cose e se stesso: ubbidisce come aveva obbedito Elia; è un gesto difficile la obbedienza dell’uno e dell’altro, l’obbedienza di Elia è la rinuncia al suo potere profetico, è il dono della maturità piena nello Spirito; Eliseo è solo agli inizi e lascia le sue cose; obbedisce con una certa libertà ancora, fa festa, brucia l’aratro e via!
Poi il Signore ne chiamerà altri: la storia è fatta così: di chiamate di Dio. Basta che teniamo le orecchie aperte e sentiamo bene le prime parole. «Fora il mio orecchio, Signore, perché io ti ascolti».” (d. G. Dossetti, appunti di omelia, 1971).
Eliseo abbandona subito il campo e i buoi, ma chiede al profeta il permesso di congedarsi dai suoi restando con loro un po’ di tempo e quindi lo seguirà. Qui sta la differenza con le chiamate evangeliche.
L’essere chiamati ci fa essere quello che non eravamo: eravamo schiavi, ci ha fatti liberi.
Questa libertà non è solo libertà da un tiranno esterno, ma da quanto interiormente ci tiranneggia e che fuori di Cristo è chiamato libertà.
Nell’atto in cui Dio ci ha chiamati, ci ha posto nella libertà, quella che Lui stesso possiede, ci ha fatti partecipi della sua natura divina.
Essere nella libertà equivale essere nello Spirito, cioè esser mossi non più dal principio della carne con le sue passioni corruttrici, ma dal principio dello Spirito, che ci fa essere in Cristo Gesù.
«Dal testo ai Galati, mi sembra importante cogliere nei versetti precedenti (v. 11-12) la parola che non si può tornare indietro – se si torna indietro si distrugge lo scandalo della Croce !
La croce non può non essere scandalosa: la croce è il perdere la faccia, è scandalo.
È per questo che Gesù «indurì la sua faccia»: è un atteggiamento interiore che si traduce anche all’esterno perchè la croce gli appare per quello che è: di fronte a questo scandalo Gesù indurisce la sua faccia.
È solo a patto di perdere la faccia che si diviene liberi: la libertà del cristiano non può essere vagliata se non attraverso la vergogna che la croce comporta» (d. G. Dossetti, appunti di omelia, 1971).
Seguire significa innanzi tutto consegnare la propria vita ad un altro.
… Seguire Gesù è rinunciare ad aprire il cammino, a decidere strategie e rotte, a prendere iniziative: è fidarsi e seguire le orme, fissare le sue spalle, il segno dell’amore che ci ha chiamati caricando la Croce.
Seguire Gesù è affidargli la vita sul concreto legno della Croce che ci accompagna ogni giorno, rinunciare a se stessi per vivere la sua vita.
Ma questo è possibile solo se si ama.
Non si è discepoli in virtù di una propria scelta, neanche di un desiderio, sublime che sia. … E’ un’elezione gratuita
La sequela di Gesù è un esodo d’amore alla ricerca della libertà, come fu per il Popolo d’Israele.
Nessun merito, nessun requisito se non quello di essere il più insignificante e testardo della terra, e, per questo, amato gratuitamente.
Il discepolo è l’uomo della Pasqua, non può che nutrirsi del pane della fretta, non ha luogo dove riposare; è attratto in un esodo che lo strappa alla schiavitù con un popolo che mostrerà al mondo il destino di libertà preparato per ogni uomo.
Per questo si lascia alle spalle gli Egiziani, non ha tempo per guardarsi indietro e salutare e seppellire il passato di catene e schiavitù, i legami di carne destinati a corrompersi.
Non perde tempo cercando di ricomporre le relazioni morbose, idolatriche, carnali: le seppellirà Dio affogandole nel mare per non rivederle mai più…
Gesù infatti lo ha raggiunto e, come Elia con Eliseo, ha steso il lembo del suo mantello di misericordia che dissolve le opere morte e lo riveste di se stesso. Come pecore ogni giorno smarrite e ogni giorno ritrovate, i discepoli, forse senza neanche rendersene conto, seguono Gesù solo perché caricati e stretti sulle sue spalle.
“La tana è il luogo dove uno si rannicchia e trova la sua sicurezza, perché ci si ta bene e si sente difeso. Il nido è il calore che nutre e protegge.
Oggi il linguaggio psicoanalitico usa simboli diversi: tana e nido diventano il voler restare nel seno materno e in tutto ciò che esso rappresenta, quindi l’essere coccolati, l’essere al riparo, nel guscio della propria sensibilità, nel caldo degli affetti, al sicuro dell’aggressività.
L’uomo infatti fa fatica ad accettare l’espulsione dall’utero, si traumatizza e rimane perciò sempre tentato di riformarsi un altro nido. Un altro ambiente protetto.
Gesù afferma però che il Regno è una nascita violenta, esige di uscire “ come un gigante dalla tenda, per correre la propria strada ( salmo 19) . Chi vuol restare nella propria tenda non potrà mai capire appieno il Regno” ( Card. C.M. Martini )
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