XVII Domenica del T.O. – Pregare vuol dire denunciare implicitamente la nostra condizione di bisogno, la nostra fragilità creaturale.
Non c’è espressione umana più grande e insieme più ambigua della preghiera.
Per quanto l’atto del pregare susciti, chiunque lo esprima, anche il primitivo che si inchina dinanzi al suo totem, un profondo rispetto, tuttavia abbiamo l’obbligo di sottoporre anche questa espressione umana, così essenziale, al vaglio del nostro giudizio.
Paolo dice: “Quando eravamo bambini parlavamo da bambini, ora che siamo adulti dobbiamo parlare da adulti“.
Senza dare a questa qualifica di adulti nessun contenuto presuntuoso, essa implica quell’esercizio dello spirito critico senza del quale, in un mondo complesso, non riusciamo a vivere con autenticità.
C’erano tempi in cui la preghiera era inserita nei ritmi della vita collettiva, aveva le sue cadenze, i suoi simboli, le sue garanzie e anche le sue meschinità.
Proprio in questi giorni, occupandomi di una ricerca, mi sono trovato di fronte al costume medievale del Carroccio. In quel periodo storico i ‘Comuni’ italiani, tutti così fervorosi, nel momento della battaglia avevano un carro su cui si celebrava l’ eucaristia e poi ci si ammazzava.
Non dobbiamo lasciarci suggestionare dal richiamo fascinoso dei simboli sacri!
La preghiera porta a galla l’umanità cosi com’ è e non possiamo, sotto il pretesto che si. tratta pur sempre di preghiera, tutto giustificare e tutto far nostro.
Le parole di Gesù, quando ci offre il modello della preghiera, così semplice, sono anche, indirettamente, un metro di giudizio su ogni altra forma di preghiera.
Collocandomi dentro la consapevolezza critica che è un connotato obbligatorio della nostra esperienza umana in genere e cristiana in specie, vorrei dire che i presupposti ai quali dobbiamo sempre ricondurre questo momento essenziale della nostra esistenza sono quelli messi in luce dalle letture che abbiamo ascoltato.
Come presupposto preliminare diciamo che la preghiera ha anche una sua grande validità di liberazione nel nostro esistere quotidiano.
Costretti come siamo – è la logica del vivere – a rapportare i nostri pensieri, le nostre immagini, i nostri desideri allo stretto perimetro dell’esistenza di tutti i giorni, ne deriva nel nostro modo di vivere una certa angustia, una certa assuefazione ai luoghi comuni, ai desideri già confezionati che ci vengono somministrati da quelle impalpabili vie che sono le vie di comunicazione, per cui desideriamo quel che si deve desiderare e ogni mese e ogni stagione ha i desideri prestabiliti e guai a non averli.
Viviamo una vita di desiderio frustrata, artificialmente tonificata.
Poter allargare l’anima – a prescindere in questo momento da ogni riferimento al destinatario della preghiera, che è Dio – poter ampliare l’orizzonte, dare libero sfogo alle attese, alle speranze significa prendere un volo alto, scuotersi di dosso la polvere delle meschinità quotidiane.
E’ un respiro fisiologico necessario, senza del quale la nostra coscienza prigioniera della banalità, degli egoismi collettivi, magari sacralizzati – anch’essi prevedono la Pasqua, il Natale, il compleanno, le prime comunioni… queste scadenze terribili di cui l’organigramma dell’esistenza si riempie del tassello necessario – non trova modo di espandersi negli orizzonti in finiti.
È un modo di rimettersi in piedi, di riprendere una misura, con noi stessi, della nostra relatività.
Pregare vuol dire denunciare implicitamente la nostra condizione di bisogno, la nostra fragilità creaturale.
L’uomo sicuro non prega, si fa pregare.
La preghiera è una espressione della nostra umiltà creaturale. Questo è già un fatto e nel contempo è un aprire lo spirito agli spazi infiniti dove ]a cronaca non fa rumore, dove i punti di riferimento delle nostre meschine passioni si dissolvono.
Tra le linee direttive e imperative che emergono dalla Scrittura c’è innanzi tutto il sentimento di un amore che avvolge l’universo.
Mi rifaccio spesso a questo punto di riferimento che è cristiano, ma è umano, perché la rivelazione del Padre che è nei cieli non è una rivelazione per i cristiani, è l’espressione, attraverso una analogia potentissima che appartiene agli archetipi della psiche, di questo senso ultimo delle cose che, come voi capite, non è il messaggio di tutti i giorni.
Se ci muoviamo dentro le indicazioni dell’esperienza quotidiana ci è difficile pensare ad un Padre, perché tutto si svolge secondo un ritmo casuale e secondo una causalità che ci mette di fronte a cose terribili.
Bene si espresse quel grande scrittore quando disse: “Non posso credere in Dio in un mondo in cui si uccidono i bambini”.
Altro poi che uccidere i bambini! Ne avvengono di tutti i colori!
Come si fa a muoversi con leggerezza da un mondo si fatto per salire ad un Padre?
Il riferimento a questo amore universale è un riferimento che implica il sorpassamento dei confini della nostra ragione, la quale non è una funzione omnicomprensiva perché anche le cose terribili che vediamo, se le riconduciamo lungo la catena causale, forse ci riguardano.
Insomma, non merita piangere sui bambini che muoiono di fame se sappiamo che siamo costruttori di una macchina per la fame!
Ci sono in noi troppi scandali farisaici.
Comunque c’è un momento in cui noi facciamo appello a questo amore universale, che possiamo chiamare con mille nomi, che noi chiamiamo Padre.
Questo è un sentimento profondo ed è un sentimento che illumina le zone oscure della nostra esperienza, dove le cesure della morte sono aperte, dove più si è allargato il nostro reticolo di amore più abbiamo miserie da ricordare, assenze da sopportare.
Il riferimento all’amore universale è la condizione prima della preghiera.
Noi non siamo dei postulanti.
Certo possiamo anche chiedere la cosa più misera – anche un sorriso, anche il ritorno di un amico – ma possiamo trascendere ogni richiesta e semplicemente navigare in questo amore che è senso di tutte le cose, che ci traspare, ma appena per sprazzi, in questa o in quella persona, in questo o quello avvenimento, in questo o quello spettacolo di natura.
La preghiera implica però anche il superamento delle circostanze e dei segni provvisori. Questa è la prima condizione.
Ernesto Balducci – da: “Omelie inedite – 1989
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