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XXVIII Domenica del T.O. – Il lebbroso guarito che ritorna è il simbolo della creatura che Gesù predilige perché appartiene alla grande schiera delle beatitudini..

Gesù incontra i lebbrosiNella sua salita a Gerusalemme Gesù attraversa la Samaria e la Galilea, e mentre passa in un villaggio gli vengono incontro dieci persone affette da lebbra. ( E. Bianchi )
Quando nei vangeli appare il termine “villaggio”, si intende sempre ostilità, incomprensione o rifiuto del messaggio di Gesù.  Perchè il villaggio è il luogo ancorato alla tradizione, il luogo sottomesso alla città. … il luogo della tradizione ad oltranza e l’incomprensione o il rifiuto del messaggio di Gesù.  …
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi
Non è possibile. I lebbrosi non potevano stare in un villaggio. I lebbrosi, in quanto infetti, causa di infezione, dovevano stare fuori dal villaggio.
Come mai qui l’evangelista ci dice che questi lebbrosi stanno dentro al villaggio?
L’evangelista, al di là del racconto storico, ci vuole dare indicazioni preziose: quanti vivono all’interno della tradizione, quanti vivono sottomessi alla religione tradizionale, sono come i lebbrosi, cioè sono impuri. Non hanno nessuna possibilità di contatto con Dio. Questi sono lebbrosi proprio perché stanno dentro al villaggio.
E qui l’atteggiamento di questi lebbrosi è abbastanza strano. Si fermarono a distanza.
Da una parte l’evangelista ha detto che gli vennero incontro, e dall’altra si fermano a distanza.
 Da una parte trasgrediscono alla legge che impediva ad un lebbroso di avvicinarsi alle persone, ma dall’altra la osservano.
Attraverso l’immagine di questi lebbrosi l’evangelista vuol far vedere il difficile cammino dei discepoli, che sono affascinati dalla parola di Gesù, dalla libertà che il suo messaggio comporta, ma sono ancora schiavi della tradizione religiosa che hanno nel sangue.
 Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti»
Gesù non li guarisce,… li invita ad uscire dal villaggio …ad abbandonare il luogo della tradizione, della tradizione religiosa, dove vige l’imperativo, questa sì che è l’autentica lebbra che impedisce agli uomini il rapporto con Dio. Si è sempre fatto così, perché cambiare? ( A Maggi )
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù
…Io penso che tutte le nostre tristezze sono dovute alla incapacità di percepire la novità, l’evento non previsto dalla legge e non sottoposto a nessuna garanzia se non a quella della coscienza.
Questo samaritano solitario, che si sottrae al gruppo e va per gratitudine verso chi lo aveva salvato, è il simbolo della creatura che Gesù predilige perché appartiene alla grande schiera delle beatitudini.
E’ povero di spirito, umile, è un puro di cuore, è pacifico; vive cioè in questo mondo come uno straniero.
La verità evangelica è sempre straniera a questo mondo in quanto essa non trova mai, in nessun posto, il suo luogo di adempimento.
L’adempimento è nel futuro.
La sua legge interna di gravitazione la porta ad uscir fuori dal cerchio di coloro che sono relativamente o pienamente soddisfatti di sé, verso gli altri, verso il mondo dei lebbrosi.
          Questo è il mistero della parola di Dio che dentro ci insegue.
  Per poter inseguire questa parola dobbiamo sdivezzarci da quell’autentica lebbra dell’anima che è l’abitudine, la meccanica dei gesti sacri, la soddisfazione dell’esser secondo la legge, l’accettazione degli schemi di condotta fissati dalla morale dominante nel nostro ambiente.
Questa parola che corre ci dà appuntamento nello sterminato mondo di coloro che sono diversi, un mondo che ci lambisce i piedi, che non va perseguito soltanto lungo la carta geografica perché è in casa nostra, lo abbiamo con noi.
Per una omogeneità con la vastità del mondo, ciò che è vicino e mi inquieta perché non riesco a comprenderlo mi rimanda al vasto mondo dove la parola di Dio va come in un deserto, in attesa di fruttificare.
Questa ampiezza non è utopistica, vaga e irrazionale, ha i suoi punti di verifica concreti in ciò che noi sperimentiamo e in ciò che noi viviamo.
La parola di Dio è riconoscibile non nelle assimilazioni codificate dei testi sacri, non nelle elaborazioni utili ma ambigue e pericolose dei grandi intelletti che ci forniscono la formulazione teologica, ma nella sua corsa esistenziale.
Allora, io penso che una qualità – non posso dire molto di più – che dovremmo tener viva nella nostra coscienza è la capacità di aver stupore, di sorprenderci in uno stato di stupore dinanzi a ciò che avviene.
La parola di Dio nasce la mattina, non è di ieri.
I libri che leggo son tutti antichi, anche la Bibbia è un antichissimo libro che fa numero con gli antichi libri, ma il vero luogo della Parola non è la carta o il papiro o la pergamena, è la carne vera dell’umanità, questa parola c’è, corre ed io devo stupirmi nel riconoscerla.
Quando uno non è capace di esser grato vuol dire che è perfettamente integrato. La gratitudine vera è quella che ci coglie nell’intimo, anche di fronte ad un’alba, ad un cielo stellato, al sorriso di un bambino, ad un povero felice, a villaggi lontani che vivono nell’estrema miseria e cantano con gioia, … Qualcosa che non rientra nei nostri schemi mentali.
Se noi non riusciamo a stupirci dell’inatteso, che è il volto di Dio nel mondo, noi abbiamo già incatenato la parola, l’abbiamo fatta prigioniera ed essa è putrida.
Come la manna custodita oltre il giusto diventava insopportabile per il maleodore, casi la parola di Dio che abbiamo incatenato puzza, non sa di nulla, non dice nulla a nessuno per colpa nostra.
Dobbiamo riaprire l’animo allo stupore del corso della parola di Dio che segue vie impensabili. Ciascuno di voi forse, mentre dico alla meglio queste cose, nel filo della sua memoria ha punti di riferimento.
 La parola che ho colto oggi nel Vangelo, l’esaltazione della gratitudine, mi ha fatto venire in mente anche questo aspetto che vorrei raccomandarvi soprattutto perché – non so se sbaglio – mi sembra di avvertire nei segni pubblici e privati, l’alta marea della tristezza, della stanchezza e l’abbandono alla ripetizione del già saputo, del già detto e la mancanza della creatività.
Siamo una steppa che non ha più germogli.
Occorre dunque ritrovare i rivoli lontani della gratitudine verso il creato, o verso la creazione, o verso le cose che ci vengono incontro con la freschezza del mattino e che non sono codificate in nessun erbario, in nessuna enciclopedia.
Usciamo dalla tristezza quando ci accorgiamo che non è affatto vero che la creazione si è chiusa, non è affatto vero che noi abbiamo definito per sempre che cosa è la verità.
La verità non è nei nostri concetti vecchi, è nel palpito dei cuori, è nell’ansia della liberazione, è nell’amore reciproco fra l’uomo e la donna, è nel bambino che cresce, … La verità cammina e noi dobbiamo avere occhi adatti per questa alba che c’è.

(Ernesto Balducci – da: “Il mandorlo e il fuoco” vol. 3)

 
 
 

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