Santa Trinità: l’unità divina non può essere quella solitaria dell’autocrate, ma l’unità della comunione, nella quale la distinzione arricchisce, non indebolisce l’unità.
Il “mistero della Santissima Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo” sembra all’uomo occidentale una sorta di algebra divina: come l’uno può essere tre e il tre uno?
Tuttavia, dovrebbe interrogarci il fatto che proprio questa dottrina, e non il velo delle donne, ci divide dall’Islam.
Il deismo al quale siamo abituati, un Dio unico, giudice sovrano, legislatore, “grande orologiaio del mondo”, è debole non solo di fronte al monoteismo radicale del Corano, ma anche alle domande angosciose dell’uomo contemporaneo, all’uomo che vive dopo Auschwitz. ….
Per Gesù, Dio è amore, e l’amore, ci ricorderà S.Agostino, è per natura sua trinitario: in esso c’è l’Amante, l’Amato e l’Amore.
E l’unità divina non può essere quella solitaria dell’autocrate, ma l’unità della comunione, nella quale la distinzione arricchisce, non indebolisce l’unità. …
L’amore è di natura sua inclusivo: Dio vuole dunque che l’uomo partecipi alla Sua vita, vuole essere il Tu presente in ogni storia umana. Ma questa “eudokìa”, “buona volontà”divina non può non prendere, nel mondo segnato dal male e dalla morte, la forma della Croce: la croce di Gesù è l’atto supremo della comunione, ….
Senza comunione non c’è gioia: ma la comunione non può essere selettiva. Se la mia sicurezza, il mio benessere dipendono dall’esclusione dell’altro uomo, non avrò né gioia né sicurezza. Forse anche oggi la fede nella Trinità può avere conseguenze politiche. (Don Giuseppe Dossetti )
Dio non è un Dio pessimista, un Dio nauseato dall’umanità, ma un Dio innamorato dell’umanità.
Ed è talmente innamorato, ha talmente amato il mondo, “da dare il proprio figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. .. Chiunque vive mettendo nella sua vita un amore simile a quello che Dio ha per noi, cioè un amore totale, incondizionato e illimitato, ha già una vita di una qualità tale che si chiama eterna, non tanto per la durata, ma proprio per la qualità, che è indistruttibile: la morte non la potrà neanche scalfire. Dio non ha mandato il figlio per giudicare, ma perché “il mondo sia salvato per mezzo di lui”. …. L’idea di un giudizio è estranea al vangelo di Giovanni.
Chi crede non va incontro a nessun giudizio, ma è già nella pienezza della vita. Al contrario, chi non crede è già stato giudicato, “perché non ha creduto nel nome dell’unigenito”. E’ l’uomo che si giudica da solo, rifiutando questa pienezza di vita, questo amore. Il rifiuto della pienezza di vita, che è Gesù, comporta la pienezza della morte. Quanti, pur vedendo brillare la luce del Signore se ne ritraggono, rimangono sotto l’ambito della morte. Quanti, invece, vengono attratti da questo cono di luce, entrano nella pienezza di vita. (A. Maggi )
Ogni vero credente è un credente in crisi per il divario obiettivo tra la realtà della Parola di Dio e le forme in cui essa storicamente si è espressa, e con cui l’abbiamo assimilata. Questo divario è il divario oscuro della nube di Dio.
Ma dovremmo amarla – se posso dire così, paradossalmente – questa oscurità.
Essa non è un segno, necessariamente, del venir meno dalla fede: è un segno dell’appello di Dio ad avere una fede più radicale, più misurata sulla sua volontà e quindi più aperta a considerare la sua presenza nella storia al di fuori dei miti, delle leggi e delle consuetudini.
Chi ha questa fede è pronto a riconoscere i segni del tempo e non ha più la paura storica; scende dal Sinai irradiato di potenza, come Mosè; scende dalla contemplazione del mistero di Dio senza più temere nessuno, perché si ripeterà: «Non avrai altro Dio fuori di me”.
Non dipenderà più da nessuno, perché l’unica dipendenza che non ci fa schiavi ma ci costituisce signori del mondo, è la dipendenza dalla Parola che ci è stata data.
Questa Parola la riconosciamo nelle parole di Gesù Cristo.
Senza questa Parola anche le parole di Gesù Cristo sono parole umane, interne alla cultura umana, non hanno niente di speciale se non fosse una certa eminenza per bellezza e per ricchezza morale.
È la Parola che dà ricchezza alle parole. E questa Parola con cui Dio proclama i suo Nome (modo semitico per dire: rivela se stesso, la sua peculiarità), l’ascolta l’uomo di fede.
L’uomo di fede ha ascoltato la parola.
E non chiedetegli conto di che parola sia, perché egli non la può tradurre adeguatamente nelle parole; potrà anche dire che Dio è Uno in tre Persone; potrà spiegare il concetto di natura e il concetto di persona, ma a mezza strada si stancherà perché sentirà che queste parole l’imbrogliano, sono una cattura dell’intelligenza, rischiano di giocare con l’intelligenza debole per stupirla, ma non dello stupore del mistero, piuttosto dello stupore delle complicazioni intellettuali, che è alienante, avvilente, che rende infantili.
Ma la Parola che ha ascoltato il credente, la porta con sé, forte come la punta di un diamante che non si scalfisce, non si corrompe.
Questo bisogno di ritrovare il mistero del Signore oggi è potentissimo. Forse siamo vicini a un tempo – sono molti i segni che lo fanno pensare – in cui le nostre complicazioni, anche di cristiani progressisti, aperti, saranno bruciate da una richiesta di fede prorompente.
E allora non saranno più le nostre parole, le nostre tattiche a dare la risposta, ma semplicemente e soltanto la presenza in noi della fede nel Dio di Gesù Cristo, nel Dio dello Spirito Santo. Questo è il tempo che stiamo vivendo. ( Ernesto Balducci – da: “Il mandorlo e il fuoco” – vol 1 – Anno A )
Ma soffermiamoci sul brano evangelico.
Siamo nel contesto del colloquio notturno tra Gesù e Nicodemo (cf. Gv 3,1-21), un “maestro di Israele” (Gv 3,10) che rappresenta la sapienza giudaica in dialogo con Gesù. È questo un dialogo faticoso per Nicodemo, che ha fede in Gesù ma fatica ad accogliere la novità della rivelazione portata da questo rabbi “venuto da Dio”. Gesù risponde alle domande del suo interlocutore, ma l’ultima risposta, quella più lunga, sembra contenuta all’interno di una meditazione dell’autore del quarto vangelo. Dunque, nei versetti che oggi la chiesa ci offre è Gesù a parlare oppure si tratta di una meditazione dell’evangelista? In ogni caso sono parole di Gesù non certo riportate tali e quali, ma meditate, comprese e ridette nel tessuto di una comunità cristiana che ha cercato di crederle e di viverle. Così si apre il brano: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui … abbia la vita eterna”.
Subito prima sta scritto: “Bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14-15). Queste due affermazioni sono parallele e si spiegano a vicenda. Affinché ogni uomo possa credere, aderire al Figlio dell’uomo e mettere la propria fiducia in lui, occorre che conosca l’amore di Dio per ogni uomo, per tutta l’umanità, per questo mondo. Tale amore di Dio si è manifestato in un atto preciso, databile, localizzabile nella storia e sulla terra: il 7 aprile dell’anno 30 della nostra era un uomo, Gesù di Nazaret, nato da Maria ma Figlio di Dio, è stato innalzato sulla croce, dove è morto “avendo amato fino alla fine” (cf. Gv 13,1), e in quell’evento tutti hanno potuto vedere che Dio ha talmente amato il mondo da consegnargli il suo unico Figlio, da lui “inviato nel mondo”.
Ecco il dono dei doni di Dio: dono gratuito, dono di se stesso, dono irrevocabile e senza pentimento. Dono fatto solo per un amore folle di Dio, il quale ha voluto diventare uomo, carne fragile e mortale (cf. Gv 1,14), per essere in mezzo a noi, con noi, e così condividere la nostra vita, la nostra lotta, la nostra sete di vita eterna. Ecco ciò che è accaduto con la venuta nella carne del Figlio di Dio e con la discesa dello Spirito che sempre è il compagno inseparabile del Figlio; ecco il mistero dell’amore di Dio vissuto in comunione, comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito santo.
Quel mondo (kósmos) che a volte nel quarto vangelo è letto sotto il segno del male, del dominio di Satana, “il principe di questo mondo” (Gv 12,31; 16,11; cf. 14,30), qui è letto come umanità, come universo che Dio vide “cosa buona” (Gen 1,4.10.12.18.21.25) e “molto buona” (Gen 1,31), che egli ha amato fino alla follia, fino al dono di se stesso, dono che gli ha richiesto spogliazione, povertà, umiliazione. Questo dono folle di Dio al mondo non ha come scopo il giudizio del mondo ma la sua salvezza: Dio vuole che l’umanità conosca la vita per sempre, la vita piena, che soltanto lui può darle.
Ma di fronte al dono resta la libertà umana. Il dono è fatto senza condizioni, dunque può essere accolto o rifiutato. Chi lo accoglie sfugge al giudizio e vive la vita per sempre, ma chi non lo accoglie si giudica da se stesso. Certamente troviamo qui espressioni di Gesù molto dure, radicali, ma esse vanno decodificate e spiegate. Se Gesù dice che “chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio”, non lo dice manifestando una condanna per le moltitudini di uomini e donne che non hanno potuto incontrarlo nella storia, perché appartenenti ad altri tempi o ad altre culture.
Costoro, se avranno vissuto la loro esistenza in conformità all’esistenza umana di Gesù, contraddistinta dall’amore dei fratelli e delle sorelle, è come se avessero vissuto, pur con tutti i limiti umani, la vita di Gesù; e così, senza conoscerlo, senza professare il suo Nome nella fede cristiana, conosceranno la vita eterna in lui e con lui. Ma chi ha avuto una vita gravemente difforme dalla vita umana di Gesù, e anzi in contraddizione con essa, non conoscendo l’amore, costui è già giudicato e condannato: non c’è per lui vita eterna. ( E. Bianchi )
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