La religione cattolica a scuola
Dalla rilevazione degli studenti di tutte le scuole statali del territorio diocesano che si sono avvalsi dell’insegnamento della religione cattolica nell’anno scolastico 2013-2014 emerge il seguente prospetto( Vedi Tabella e grafico >> click per ingrandire )
Sono dati importanti, che indicano senza ombra di dubbio la valenza culturale e formativa che le famiglie e gli stessi studenti della Secondaria Superiore attribuiscono all’insegnamento della Religione Cattolica al momento dell’iscrizione scolastica.
Gli alunni che non si avvalgono dell’insegnamento della Religione Cattolica sono appena l’1,9% (122/11.117), il cui 18,03 % (22/122) a sua volta è costituito da stranieri nella maggior parte d’altra religione.
Nei primi tre livelli di scuola, la scelta di avvalersi o non avvalersi di tale insegnamento viene fatta dai genitori, ma bisogna giungere alla scuola media per superare l’1% di non avvalentesi; nella Secondaria superiore, ove tale scelta viene controfirmata dallo studente, i non avvalentesi non superano l’1,50%.
Da altra indagine, condotta negli ultimi due anni scolastici su una fascia specifica d’età degli studenti dell’ultimo livello, risulta che solo per il 12,07% (pari a 74/612) hanno deciso i genitori.
Con buona pace degli scettici, si tratta di una scelta libera che trova conferma tra gli stessi studenti che la frequentano e tra i genitori per altro molto attenti, per non dire esigenti, alla valutazione che nella disciplina viene attribuita dall’insegnante di Religione a ciascun alunno, esattamente come in tutte le altre discipline.
Succede anche il fenomeno inverso: si chiede all’insegnante di Religione di non essere esigente e di largheggiare nella valutazione proprio per consentire a tutti di godere di un maggior punteggio di credito. Tali richieste offendono l’insegnante e sviliscono la disciplina.
Ad onor del vero non poche sono state e sono le difficoltà perché all’insegnamento della Religione nelle singole Istituzioni scolastiche venga riconosciuta la pari dignità e funzione formativa con la altre discipline, soprattutto se nella Scuola Secondaria Superiore si chiede che la sua frequenza concorra alla definizione del Credito scolastico, dal momento che il voto di Religione non fa media e quindi non concorre alla determinazione del Credito formativo.
I Collegi dei docenti non sempre hanno chiari i termini della questione e a volte sconoscono le proprie prerogative lasciando ogni decisione ai dirigenti scolastici che a loro volta si lasciano guidare dalla loro ‘ideologia’ (o finta tale!) anziché dalla normativa vigente. Nel merito si è giunti persino a strumentalizzare il Consiglio d’Istituto facendogli deliberare l’annullamento di una decisione del Collegio dei docenti, che ammetteva la valutazione di Religione a concorrere alla definizione del credito scolastico, commettendo un illecito amministrativo. Un dirigente scolastico non può sconoscere le competenze dei singoli Organi Collegiali di cui egli stesso è presidente o componente di diritto.
Appaiono poi infruttuosa retorica le prese di posizione ‘pseudo-culturali’ di chi vorrebbe addirittura abolire tale insegnamento per sostituirlo con una generica Storia delle Religioni che nella comparazione offrirebbe maggiori spunti culturali e garantirebbe piena libertà di scelta religiosa.
Si tratta di affermazioni ‘pseudo-laiche’ che tradiscono una mentalità più clericale di quella che ai chierici d’altri tempi consentiva la violenza morale e fisica nei confronti del pensiero libero e della libertà di coscienza individuale. Avviene infatti esattamente il contrario: in nome di una laicità per sua natura rispettosa e promotrice di libertà individuale, si scivola facilmente nel laicismo che nega ogni sacralità e non riconosce, come nel nostro caso, il diritto di istruirsi e formarsi nella propria Religione.
Forse, però, il motivo dell’opposizione è molto più banale di quel che appare e mette a nudo la povertà culturale dei contesti in cui maturano tali convincimenti. Per un discutibile senso di giustizia scolastica, si dovrebbe privare di un diritto costituzionalmente accertato (Costituzione della Repubblica, art. 7 per la Religione Cattolica e art. 8 per le Confessioni Religiose non cattoliche) e regolamentato da Intese (l’ultima del 28 giugno 2012 tra MIUR e CEI) perché la Scuola non è in grado di offrire attività alternative all’insegnamento della RC agli studenti che non se ne avvalgono (ne godono soltanto 6/59).
E’ contro ogni principio giuridico che si possa negare un diritto a qualcuno (che poi questo qualcuno potenzialmente è il 98,90% della popolazione scolastica) solo perché non si riesce ad offrire una pari opportunità ad un altro!
E’ opportuno tuttavia precisare che la scuola non riesce ad offrire attività alternative per difficoltà oggettive quali l’esiguo numero degli studenti non avvalentesi, la dispersione di questi nelle varie classi in orari diversi, la mancanza di insegnanti da utilizzare allo scopo.
E non è un lampo di genio programmare un corso di Lingua straniera o di altra disciplina, quindi qualcosa di strutturato che nell’organigramma ordinamentale delle discipline si può pensare venga istituzionalizzato, in alternativa all’insegnamento della Religione. Lo studente non ha facoltà di scegliere tra due discipline, ma sceglie di avvalersi o non avvalersi dell’IRC. Più che un lampo di genio sarebbe l’espressione della leggerezza con cui a volte si affrontano i problemi e anziché risolverli o accettarli come insolubili si crea disorientamento e incertezza nella interpretazione e applicazione delle norme.
Prof. G. Riggio – Direttore dell’Ufficio per l’IRC
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