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IV Domenica del T.O. – Non si deve divinizzare Gesù troppo velocemente, perché incantati dai prodigi da lui compiuti, né si deve farlo perché ci si entusiasma di Lui…. Lo si potrà fare solo quando lo si vedrà appeso alla croce. .

Gesù guarisce indemoniatoVorrei subito utilizzare il brano del Deuteronomio e quello di Marco per trarne alcune illustrazioni sul retto modo di intendere la nostra obbedienza a Dio.
È singolare che il popolo ebraico abbia chiesto di non vedere Dio, perché vederlo equivale a morire.
E un linguaggio ridondante, iperbolico, che però ci mette subito dinanzi alla situazione di chi ha fatto di Dio l’oggetto di una ricerca e che soffre di non avere la certezza assoluta della sua esistenza.
Noi siamo figli di una cultura che ha avuto bisogno di prove, e che ha anche prodotto prove sull’esistenza di Dio.
Anche dentro la Chiesa, con un razionalismo di riporto, ci si è affaticati per sconfiggere l’ateismo adducendo prove inconfutabili che Dio c’è.
Questo conflitto non ha senso per l’uomo di fede.
È un conflitto culturale in cui l’oggetto della discettazione è nominalmente Dio, ma non è Dio.
Non basta chiamare in causa i concetti filosofici per definire Dio perché si sia sicuri che è di Lui che si discute.
Ogni oggetto della mente è prodotto dell’uomo.
Dio, noi lo conosciamo.
L’ateismo ci dà una grande lezione quando abbatte le nostre argomentazioni presuntuose.
In realtà l’atto di fede ci colloca oltre la linea di qua dalla quale si discute se Dio c’è o non c’è.
La fede è una constatazione smarrita o gioiosa, secondo i casi, della realtà di Dio, il Santo, Colui che non possiamo vedere perché ci sovrasta.
La presenza di Dio si fa avvertire attraverso un appello di cui solo la coscienza, se lo accoglie, sa la terribilità, la forza e la non dimostrabilità.
Nessun credente vero dimostra che Dio c’è.
Lo vede, ne parla, lo presenta, ma non ha la presunzione di dire a chi lo ascolta di avere a disposizione argomenti convincenti.
Solo una specie di ateismo latente all’interno del mondo cristiano ha portato all’affannosa ricerca di argomenti validi.
E il popolo ebraico capovolgendo in modo paradossale questa tendenza sembra quasi aver chiesto a Dio, per contrasto, di non farsi vedere perché la sua presenza non si confà alla nostra vita di tutti i giorni: vedere Dio è come morire.
La sua assolutezza brucia la relatività delle nostre cose.
Al suo cospetto la storia è in combustione, non han più senso i ritmi della nostra esistenza.
Dobbiamo difenderci dalla sua presenza.
E Dio allora decide di farsi presente suscitando i profeti.
 Nel popolo ebraico c’era l’istituzione sacerdotale, c’era la Legge, e c’era il Tempio: ma tutto questo sembrava vuoto di Dio.
Dio non si fa presente in modo inequivocabile attraverso le istituzioni che hanno una loro funzione, stabilita dalla fede, ma non sono affatto tramiti della manifestazione di Dio.
Solo la profezia lo manifesta.
 Dio passa attraverso l’uomo; Dio ha deciso di farsi visibile nei nostri fratelli.
 Questa è la via di Dio.
Dio passa attraverso la testimonianza dei fratelli, di coloro che non appartengono alle aree del potere.
Il profeta non ha compromissioni col potere, non scende dagli altipiani della cultura: è colui che parla per abbondanza interiore, quasi per un mandato, e dice le cose che Dio gli ha chiesto di dire.
La profezia è dunque, sul piano storico, la libertà con cui Dio mette in scacco le istituzioni, le leggi e la sapienza.
E sempre così è stato nell’antico popolo di Israele, ma, più di quanto non ce ne rendiamo conto, è vero così anche oggi.
….   Il profeta non annuncia – ci dice il Vecchio Testamento – cose sue come se fossero di Dio; non attribuisce al nome di Dio cose che Dio non ha comandato di dire.
 E noi sappiamo quanti ci hanno comandato in nome di Dio cose che Dio non ci ha comandato; …..
Quante malizie in nome di Dio!
Il profeta è colui che svela questa grande menzogna.
Egli può essere, nella contingenza storica, anche ateo, nel senso che si oppone al simulacro divino con cui abbiamo coperto le nostre presunzioni.
Abbiamo alle spalle generazioni intere il cui Dio era diventato il gendarme dell’ordine costituito, e perché scandalizzarsi che qualcuno sia ateo se prima non ci scandalizziamo di aver ridotto Dio a fare da sigillo sacro ai nostri egoismi collettivi, alle nostre presunzioni colonialistiche?
Occorre stare attenti perché Dio spesso passa fuori dei nostri spazi ufficiali, attraverso voci che non hanno sempre i segni della consacrazione. ( E. Balducci  )
 [ In questa IV Domenica del T.O ] L’evangelista ci presenta una “ giornata-tipo”  vissuta da Gesù e dai suoi discepoli: la “giornata di Cafarnao” (cf. Mc 1,21-34), una città situata a nord del mare di Galilea, luogo di passaggio tra Palestina, Libano e Assiria, città con gente composita, scelta da Gesù come “residenza”, come luogo in cui egli e la sua comunità avevano una casa (cf. Mc 1,29.35, ecc.) dove sostavano di tanto in tanto, nelle pause dei loro itinerari in Galilea e in Giudea. 
 … È un sabato, il giorno del Signore, in cui l’ebreo vive il comandamento di santificare il settimo giorno (cf. Es 20,8-11; Dt 5,12-15) e va alla sinagoga per il culto.
…  Gesù è un semplice credente del popolo di Israele, è un laico, non un sacerdote, ed esercita questo diritto. Va all’ambone e fa un’omelia, di cui però Marco non ci dice il contenuto, a differenza di quanto fa Luca riguardo all’omelia tenuta da Gesù nella sinagoga di Nazaret (cf. Lc 4,16-21). ( E. Bianchi )
 
L’evangelista non afferma che Gesù partecipa al culto della sinagoga, ma va nella sinagoga per insegnare e il suo insegnamento  [ che ] è l’esatto contrario di quello che lì veniva trasmesso.
 Gesù, nel suo insegnamento, vuole liberare le persone da quelle che lui denuncerà come “dottrine degli uomini”, “tradizioni degli antichi”, che nulla hanno a che fare con la volontà di Dio.
Marco scrive che la reazione della gente è singolare, erano stupiti del suo insegnamento. E sottolinea, egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità.
Avere autorità significa avere il mandato divino. E non come gli scribi.  Erano gli scribi quelli che avevano questo mandato divino per insegnare.
Gli scribi erano i teologi ufficiali del sinedrio, era il magistero infallibile, persone di straordinaria importanza; si credeva che le parole degli scribi fossero le stesse parole di Dio, quando c’era conflitto tra la parola scritta e l’insegnamento dello scriba bisognava dare retta allo scriba perché lui era l’unico vero interprete della sacra scrittura. ( A Maggi )
 
La sua non è una parola come quella dei professionisti religiosi, dei molti scribi incaricati di studiare e spiegare le sante Scritture.
Che cosa c’è di diverso nel suo predicare?
Possiamo almeno dire che c’è una parola che viene dalle sue profondità, una parola che sembra nascere da un silenzio vissuto, una parola detta con convinzione e passione, una parola detta da uno che non solo crede a quello che dice, ma lo vive.
È soprattutto la coerenza vissuta da Gesù tra pensare, dire e vivere a conferirgli questa autorevolezza che si impone ed è performativa.
Attenzione: Gesù non è uno che seduce con la sua parola elegante, erudita, letterariamente cesellata, ricca di citazioni culturali; non appartiene alla schiera dei predicatori che seducono tutti senza mai convertire nessuno. Egli invece sa andare al cuore di ciascuno dei suoi ascoltatori, i quali sono spinti a pensare che il suo è “un insegnamento nuovo”, sapienziale e profetico insieme, che scuote, “ferisce”, convince. ( E. Bianchi )
 … Appena Gesù insegna, ecco che la gente incomincia ad aprire gli occhi.  Questo Gesù ha il mandato divino per insegnare, non i nostri scribi.
Ed ecco che scoppia l’incidente.  … Nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da spirito impuro.
 La denuncia che fa l’evangelista è molto seria e drammatica: ecco il prodotto della sinagoga, un uomo posseduto da spirito impuro.
Frequentare questi luoghi di culto, frequentare questi luoghi religiosi, accogliere in maniera acritica l’insegnamento che lì viene dato, rende le persone impure.
Impure significa nell’impossibilità di comunicare con Dio.
L’insegnamento religioso non solo non avvicinava la gente a Dio, ma era quello che glielo impediva.  ( A Maggi )
 
Non soffermiamo la nostra attenzione sulla violenza e sul frastuono con cui quest’uomo si esprime, secondo la descrizione tipica dello stile orientale, immaginifico.  Andiamo alla sostanza: c’è un uomo in cui il demonio opera in modo particolare, in cui la forza che si oppone a quella di Dio ha preso un grande spazio; in questa persona c’è uno spirito impuro che si oppone allo Spirito santo di Dio.
 La presenza di Gesù nella sinagoga è una minaccia per questa forza demoniaca, ed ecco allora che la verità viene gridata: “Che c’è tra noi e te, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il Santo di Dio!”.
 Ma Gesù innanzitutto gli intima di tacere, poi libera l’uomo da quella presenza. Il segno della liberazione avvenuta è un grande urlo: “lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui”.
Si noti l’imposizione del silenzio da parte di Gesù: il grido dell’indemoniato è ortodosso, perché egli è il Santo di Dio, ma questa identità non può essere proclamata troppo facilmente.
Lungo tutto il vangelo secondo Marco è testimoniata questa preoccupazione di Gesù circa la manifestazione della propria identità: non si deve divinizzare Gesù troppo velocemente, non si deve farlo perché incantati dai prodigi da lui compiuti, né si deve farlo perché ci si entusiasma di lui. Lo si potrà fare solo quando lo si vedrà appeso alla croce. Solo allora – attesta il vangelo – la confessione del lettore può essere vera, fatta con intelligenza e conoscenza profonde, insieme al centurione che, vedendo Gesù appeso al legno, proclama: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39). Il miglior commento è una parola di un monaco del XII secolo, Guigo I il Certosino: “Nuda e appesa alla croce deve essere adorata la verità”. (Enzo Bianchi )
 

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