V Domenica del T.O. – Gesù, il Veniente, con il suo Regno, è in lotta contro il male e contro la morte il cui re è il demonio …
«La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba. I miei giorni scorrono più veloci d’una spola, svaniscono senza un filo di speranza. Ricordati che un soffio è la mia vita…» (Gb 7,4.6).
È difficile non rimanere profondamente colpiti da questi versetti di Giobbe, che la liturgia ci propone nella prima lettura di questa domenica.
Meditandoli, dietro le parole vi ho ritrovato il volto di tanti ammalati, nonché di persone conosciute nelle quali la stessa voglia di vivere viene meno sotto la durezza della prova.
Le parole drammatiche di Giobbe non possono essere archiviate troppo in fretta nemmeno da quanti hanno la grazia della salute.
Lasciamole risuonare nel cuore per poter cogliere un riflesso dell’abisso di disperazione che accanto a noi vive chi è nella sofferenza. Nella solitudine si allungano non soltanto le ombre, ma anche le domande e i dubbi: sulla vita, sugli altri e perfino su Dio. ( Mons. Nunzio Galantino )
Giobbe dice delle cose che non crede del tutto; spera che non sia così anche se non sa come non è così, non sa per quali vie Dio lo salverà.
Capisce che non può essere così, sarebbe troppo assurdo: non sa quale ma sa che Dio la soluzione ce là per dare un senso a tutto questo.
Ha ragione Giobbe o ha torto?
Oggi c’è tanta gente che dice che ha torto: l’uomo arriverà a dominare i mali della vita. …. La sofferenza non sarebbe legata al peccato, sarebbe solo uno stadio arretrato del genere umano.
Bisogna rispondere alla sofferenza operando perché il processo di sviluppo della umanità si acceleri e si possono eliminare le cause della sofferenza.
Il rapporto tra sofferenza e peccato sarebbe una dottrina primitiva eliminata dal Vangelo.
Ma questa gente non conosce in realtà la Bibbia; il Vangelo non fa che parlarci il rapporto fra sofferenza e peccato, anche se c’è un momento di ricerca nel V.T. sul problema della restituzione individuale a Cristo dice che è sbagliata una certa dottrina- per questo risponde (in Giovanni) “Non ha peccato né lui né sua madre, ma perché sia manifestata la gloria di Dio”.
Ma ciò non nega tutta la dottrina globale del rapporto tra sofferenza e peccato in tutta l’umanità. Sennò Cristo cosa sarebbe venuto a fare?
Redenzione è redenzione dal peccato e dalle sue conseguenze.
Eppure noi ricorrendo al mistero del peccato diamo in fondo una spiegazione più plausibile che non quella che si dà fuori delle sofferenze chiarendo solo alcuni nessi causali.
La soluzione poi cosa sarebbe?
Lo stoicismo o gli anestetici?
Io e la mia generazione siamo ancora vittime di una serie di dolori che non riusciamo ad eliminare.
Quindi la mia speranza è solo come quella delle api che muoiono dopo aver lasciato l’alveare. Visione in cui la persona non ha più posto, c’è solo la specie.
Questa dottrina anche se non lo si sa ha sotto una visione marxista, è l’essenza pura del marxismo.
Quando io sono colpito da un dolore totale che mi paralizza di fronte a ogni possibilità di vita di relazione di contributo sacrale ecc. cosa posso fare!
E’ pura negatività, perché sono nato nel 1970 e non del 2400.
Problema della morte: la morte è fine e buona notte, a meno che io non includa nelle prospettive del progresso anche il superamento della morte. Non posso porre solo il problema, per cui si può supporre al limite che il superamento delle cause biologiche e sociologiche mi portino al termine.
Ma resta il problema della morte, e allora non è più ammissibile che questo discorso non è fattibile nemmeno nell’ambito della Risurrezione.
Cristo è finito, il Cristo pasquale non c’è. Se i morti non risorgono, nemmeno Cristo è risorto.
La risurrezione presuppone distruzione e nuove creazioni, non sviluppo all’infinito di un germe.
Queste sono cose molto divulgate, ma un livello molto mediocre di scienza. Lo scienziato di punta si rende conto che l’intelletto umano perde sempre più il controllo delle stesse scoperte da lui fatte. (D. Giuseppe Dossetti: Oratorio di sant’Antonio, appunti di omelia.)
[ II Lettura ] …pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.
…. La decisione è un atto della mia libertà che compio non semplicemente per una rinuncia negativa, ma positiva perché libera questa rinuncia e mi immerge sempre più nel mistero di Cristo.
La mia scelta è perché ho capito questo grande principio generale che è la follia del Cristo e la partecipazione al suo mistero di gloria; perché ho capito questo, assoggetto la mia libertà e devo giungere allo svuotamento della mia libertà umana e accetto questa strada con tutti i suoi aspetti disumanizzanti a prima vista per giungere a questa libertà.
Così è del Cristo: Lui libero della libertà di Dio si è reso schiavo degli uomini, Lui immerso nella visione si è fatto condannare dagli altri e crocifiggere da chi era senza Dio e così via» (d. G. Dossetti, appunti di omelia; Eremo s. Salvatore, 10,6.1977).
C’è una possibilità nell’uomo che sorpassa davvero ogni ragione, quella di far propria la condizione degli altri, dimenticare se stesso per assumere in sé il destino dell’altro.
… È questa la speranza evangelica.
Al di là delle nostre vicende umane noi contiamo su questo Dio impossibile, improponibile che è amore e che è impotente in quanto non usa gli stessi metodi che noi usiamo all’interno della sapienza di questo mondo.
…L’amore ha delle sue leggi che sono leggi essenziali.
Ad esempio l’amore non costringe mai.
Nella Bibbia c’è piuttosto il Dio onnipotente che schiaccia gli uomini, ma tra le sue pagine passa sempre, come un’onda crescente che nel Cristo diventa trionfale, l’idea di un Dio che, essendo amore, rispetta la libertà degli uomini e vuole dall’uomo non il consenso dello schiavo sul cui collo poggia il suo tallone, ma l’entusiasmo del bambino che corre sulle ginocchia materne.
È la risposta d’amore quella che vale. ( E. Balducci )
[Nella prima parte del brano del vangelo di questa domenica la guargione della suocera di Pietro]
Gesù, informato [ della febbre ], si avvicina a questa donna allettata, la prende per mano e la fa alzare. Egli vuole incontrarla e, non appena le è vicino, compie gesti semplici, umanissimi, affettuosi: prende nella sua mano quella mano febbricitante, attua una relazione carica di affetto, e quindi con forza la aiuta ad alzarsi.
Questi sono i gesti di Gesù che guariscono: non gesti di un guaritore di professione, non gesti medici, né tantomeno gesti magici.
Se siamo attenti comprendiamo che, sull’esempio di Gesù, a un malato dobbiamo soltanto avvicinarci, renderci prossimi, toglierlo dal suo isolamento, prendendo la sua mano nella nostra, in un contatto fisico che gli dica la nostra presenza reale, e infine fare qualcosa perché l’altro si rialzi dal suo stato di prostrazione.
Questa azione con cui Gesù libera la donna dalla febbre può sembrare poca cosa (“un miracolo sprecato”, ha scritto un esegeta!), ma la febbre è il segno più comune che ci mostra la nostra fragilità e ci preannuncia la morte di cui ogni malattia è indizio.
Sì, Gesù è sempre all’opera verso i nostri corpi e le nostre vite e sempre discerne, anche dove c’è soltanto la febbre, che l’essere umano si ammala per morire, che qualunque malattia è una contraddizione alla vita piena voluta dal Signore per ciascuno di noi.
Non fermiamoci dunque alla cronaca dell’azione di Gesù, ma comprendiamo come egli, il Veniente con il suo Regno, è in lotta contro il male e contro la morte il cui re è il demonio, colui che vuole la morte e non la vita. Gesù appare così come colui che fa rialzare, fa risuscitare – verbo egheíro, usato per la resurrezione della figlia di Giairo (Mc 5,41) e per la stessa resurrezione di Gesù (Mc 14,28; 16,6) – ogni uomo, ogni donna dalla situazione di male in cui giace. Egli vuole far entrare tutti nel regno di Dio, dove “non ci sarà più la morte, né il lutto, né il lamento, né il dolore, quando Dio asciugherà le lacrime dai nostri occhi” (cf. Ap 21,4; Is 25,8).
Ciò che è messo in rilievo come frutto di quel “far rialzare” da parte di Gesù è l’immediato servizio, la pronta diakonía da parte della suocera di Pietro
…. Giunge la sera, la prima giornata missionaria di Gesù è quasi terminata, ma ecco che da tutta la città vengono portati malati e indemoniati davanti alla porta della casa in cui egli si trova.
Cosa cercava tutta quella gente?
Innanzitutto guarigione, ma certamente desiderava anche vedere miracoli: la medicina era troppo cara, spesso senza efficacia, e poi in quel tempo c’erano molti esorcisti, guaritori, maghi, da cui la gente si recava.
Quelli venuti da Gesù non trovano però né un mago né un operatore di miracoli. Trovano uno che guarisce chi incontra, parlando, entrando in relazione, ma soprattutto suscitando fede-fiducia: e quando Gesù trova questa fiducia, allora può manifestarsi la vita più forte della morte.
Gesù non guariva tutti ma – ci dicono i vangeli – curava tutti quelli che incontrava.
Come annota solo Matteo a margine di questo brano, egli si manifesta come il Servo del Signore che “ha preso le nostre debolezze e si è addossato le nostre malattie” (Mt 8,17; Is 53,4). Gesù combatte le malattie per far arretrare la potenza del male e del demonio, ma ciò avviene al prezzo di caricarsi lui stesso delle sofferenze che cerca di sconfiggere!
… Viene la notte, ma anche questa è fatta per operare: prima dell’alba Gesù esce di casa, va in un luogo solitario e là prega.
È la sua preghiera del mattino, preghiera che attende il sorgere del sole invocando il Signore e lodandolo per la luce che vince la notte.
Questa azione notturna non è secondaria, non è una semplice appendice al giorno. È la fonte del suo parlare e del suo agire, è l’inizio del suo “ritmo” giornaliero, è ciò che gli dà la postura per vivere tutta la giornata nella compagnia degli uomini: perché egli è sempre l’inviato di Dio, colui che deve sempre “raccontarlo” (cf. Gv 1,18) agli uomini, ovunque vada. ( E. Bianchi )
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