Domenica delle Palme
Questa straordinaria narrazione della Passione di Gesù, per quanto la ascoltiamo e la leggiamo, ci trova sempre disposti a percepire la novità, a misurare la nostra impossibilità a relegarla fra le cose già sapute e scontate.
È come se ci fosse, in queste pagine, una permanente eccedenza sulla nostra capacità di intendere e una specie di rimando al futuro.
Il vero commento a queste pagine non è il discorso concettuale ma è la vita vissuta.
Con questo animo vorrei indicare semplicemente alcuni spunti di riflessione che potrebbero anche diventare la trama per una meditazione della settimana santa che comincia oggi.
Mi colloco nell’ottica di questo centurione – la figura che balza all’improvviso al termine della narrazione – che dinanzi alla morte di Gesù dice: «Veramente quest’uomo era figlio di Dio!».
E una confessione di fede di una purezza sconcertante.
I discepoli erano fuggiti.
Pietro, che aveva promesso di stare vicino al maestro a costo della morte, lui che aveva fatto la professione di fede che gli aveva meritato l’investitura – «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa».- non c’era.
C’era soltanto questo pagano, che vede morire un uomo e avendolo visto morire in quel modo non dice: «che disperato!». Dice: «Veramente costui era figlio di Dio».
C’è una contraddizione fra ciò che ha visto e ciò che ha confessato.
È proprio in questa contraddizione che si annida il segreto di Gesù, il segreto della universalità e della permanenza del messaggio della Passione.
Come tante e tante volte si è detto, la figura di Gesù non può essere posta nella serie dei fondatori di religioni o dei grandi pensatori, perché la sua singolarità è di aver fatto coincidere la via della conoscenza di Dio con la via della verità dell’uomo.
Nell’ordine del confronto ha la priorità la via dell’uomo.
La via crucis è la via dell’uomo.
Chi percorre quella via fino in fondo, può arrivare anche a confessare che Gesù è figlio di Dio. Ma se non la percorre e confessa che Gesù è figlio di Dio, ha già commesso un’ evasione in quanto parla di Lui attribuendo a Lui l’immagine di Dio che ci possiamo formare con le filosofie o con le superstizioni. Mentre dice che Gesù è Dio, uccide la verità della professione di fede.
Questa verità si manifesta in fondo alla verità della croce.
Perché si manifesta in fondo?
Immaginate un uomo che abbia come sua unica legge l’amore per gli altri, un amore disposto fino al totale dono di sé.
Fate camminare quest’uomo dove volete: in un mercato, in una banca, in un parlamento, in un ministero, in una curia ecclesiastica…
Fatelo parlare, mettetelo a confronto con le figure che rappresentano le istituzioni che vi ho elencato.
Che cosa avverrebbe?
Avverrebbe che quest’uomo sarebbe, con una solidarietà immancabile, espulso da tutti, cacciato via.
Uno direbbe, magari un suo amico: «Io quest’uomo non lo conosco nemmeno».
Un altro direbbe: «Questo è pazzo», come disse Erode, un altro direbbe – magari in una curia ecclesiastica -: «Quest’uomo ha bestemmiato».
Quest’uomo non potrebbe rientrare nei modi di vivere e di comprendere la vita che sono i nostri. Sarebbe un estraneo e troverebbe un’accoglienza solo tra i più disperati, che non essendo integrati nella società, hanno una sincera disponibilità al nuovo.
Forse quest’uomo troverebbe il suo luogo proprio nelle periferie, nelle baraccopoli dove vive la gentaglia, perché là tutto è possibile, mancano le strutture di giudizio e c’è disponibilità ad accogliere ogni forma di esistenza purché sia irregolare in rapporto a quella istituzionalizzata.
Quest’uomo ipotetico è Gesù Cristo.
Questa è stata la sua vita, sempre, perfino prima di nascere.
I suoi non furono accolti in un albergo perché non c’era posto per loro. In realtà non c’era posto per Lui.
Ma perché non c’è posto?
Non c’è posto perché il senso intimo di questa vita, la sua esemplarità che sorpassa ogni altro modello, è la coerenza con l’amore per gli altri fino al dono della propria vita. Dopo, è successo che la sua figura, consegnata alla memoria, è stata riadattata al tessuto convenzionale, al codice di esistenza vigente.
Quest’uomo che è stato l’amore stesso è anche l’uomo in nome del quale sono stati accesi i roghi, si sono sgozzati gli uomini… è diventato un idolo, un dio inzuppato dei nostri fanatismi ideologici.
No, il Gesù vigente non è il Gesù della Passione.
Noi crediamo che ripetendo un nome ci rifacciamo alla realtà significata dal nome. E invece il nome di Gesù è un passe-partout che serve per tutto, è servito per tutto e serve ancora oggi per tutto.
Ecco perché queste pagine o si leggono, stendendoci sopra, come si fa spesso, un velo devozionale e si ascoltano con uno spirito devoto e con buoni sentimenti in modo che esse non ci scalfiscano la coscienza, oppure ci apriamo alla forza del loro messaggio e sentiamo che i conti con la verità non li abbiamo ancora fatti.
Abbiamo dentro di noi un’aspirazione senza la quale veramente tutta la storia sarebbe già chiusa, l’aspirazione ad una forma di esistenza che sia proprio quella in cui l’amore è l’unica legge.
Non c’è uomo perverso, posto che si possano usare questi termini, che non abbia in un angolo di sé il sogno di una vita in cui l’unica legge sia l’amore.
Nella figura di Gesù noi abbiamo la rappresentazione reale – sia pure attraverso le testimonianze codificate dei Vangeli – di questo modello di esistenza verso cui il fondo della nostra coscienza va come una pietra verso il centro di gravitazione.
Come Giuseppe d’Arimatea era «uno che aspettava il regno», così noi tutti aspettiamo questo regno.
C’è in noi questa attesa. Certo, siamo disgraziati!
Lo attendiamo in questi anni perfino all’ombra dei missili!
Forse non ci arriveremo mai, forse fra qualche anno sulla terra ci sarà un palmo di cenere in più e tutto sarà finito.
Però esso è possibile.
E allora la mia fede è aperta a questa possibilità.
Io credo in questo e dico, vedendo consumarsi la vita di Gesù, dell’uomo giusto crocifisso fra due delinquenti: «costui è veramente il figlio di Dio».
Più che se dicessi ai venti: «fermatevi!» e dicessi ai tumulti delle acque: «placatevi!», questo è il miracolo dei miracoli, è l’eterno miracolo morale.
Il fatto che un’esistenza possa essere plasmata solo dall’amore è un miracolo.
Del resto, se vi succede di trovare qualche persona in cui questo avviene anche appena in modo incipiente, voi dite: «ma questo è un miracolo!».
Il miracolo che aspettiamo tutti è il mondo spoglio di violenza, è il mondo animato dall’amore.
Lo chiamiamo col nome biblico?
Chiamiamolo regno di Dio.
La passione ha due epicentri.
Uno è il Golgota dove si consuma tutto, dove anche la religione si chiude «si spaccò il velo del tempio» -, dove è finita per sempre la mediazione religiosa, perché il rapporto con Dio è ormai quello dell’amore che si dona.
Anche il buon ladrone – lo chiamiamo così – entrò nel regno in un attimo solo perché si inserì nella logica di Gesù.
L’altro è il momento in cui Gesù. anticipando quell’evento, prese del pane e del vino, raccolse i suoi e disse: «questo è il mio corpo e questo è il mio sangue».
È il legame del rito, del gesto simbolico che inserisce nel tempo che va, nei secoli che corrono, quell’evento del Golgota.
E un racconto sacramentale tra la nostra esperienza dispersa nel tempo e nello spazio e quel centra da cui tutto è stato annunciato in quanto è stata annunciata la verità che stiamo cercando, che il senso della vita è l’amore.
Non dite che è la conoscenza di Dio.
Certo sapere chi è Dio è tutto, ma purché si passi per questa porta stretta!
Il Dio di Gesù non è il Dio dei filosofi, dei teologi… ma è questo Dio che il centurione vide mentre un uomo insanguinato, agitato, perfino con l’ombra della disperazione – «Dio mio perché mi hai abbandonato?» – spirò.
Oggi mi sento fratello di questo centurione, l’unico che ha visto bene.
Con tanti sacerdoti e uomini politici e discepoli di Gesù e future pietre della chiesa l’unico che ha visto giusto è stato questo pagano, uno che era dalla parte dei crocifissori. ha visto bene, ha intuito che il figlio di Dio è l’Amore e che l’alternativa del regno che Egli annuncia è vivere e morire per amore degli altri.
Ernesto Balducci – “Il Vangelo della pace” anno B – vol. 2
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