XIV Domenica del T. O. – la presenza di Dio è invisibile ai “falsi religiosi”, proprio per la sua visibilità e per la sua “normalità” quotidiana
Potremmo definire la Parola di oggi con un titolo emblematico, lo scandalo del profeta. Il messaggio profetico è imbarazzante, eccentrico rispetto alla “normalità” benpensante, è pietra d’inciampo come il Signore stesso.
L’esperienza è vissuta da Gesù nel suo villaggio, Nazaret.
Lo scandalo è proprio quello tipico della falsa religiosità che si rifiuta di riconoscere l’intervento di Dio all’interno di un evento e di una persona che risultano ordinari.
Ed invece la rivelazione di Dio passa proprio attraverso l’incarnazione, la presenza di Dio è invisibile ai “falsi religiosi”, proprio per la sua visibilità e per la sua “normalità” quotidiana.
“Per cogliere il mistero della persona di Gesù, bisogna aprirsi al Gesù reale e non ridurlo al ritratto che ci eravamo fatti di Lui. […]
Anche la seconda lettura traccia l’autoritratto di un apostolo contestato, incompreso e rifiutato. L’apostolo sente che
il suo ministero, proprio perché sia autentico, deve necessariamente attraversare queste prove perché “bisogna attraversare molte tribolazioni per entrare nel Regno”.
Ma, “schiaffeggiato” da Satana, egli sa che non è solo ed abbandonato in questa prova e nella sua testimonianza evangelica: “Ti basta la mia grazia; La mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza”. Nasce così una celebrazione della forza della parola dell’apostolo proprio nella debolezza che la riveste, proprio nell’aspetto di umiliazione che presenta, proprio nello scandalo che essa suscita. Infatti, “Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i potenti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e isprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono” (Gianfranco Ravasi).
La debolezza è luogo in cui discende la potenza stessa del Signore Risorto: “Quanto Dio vedrà che in tutta purità di cuore ti affidi a lui più che a te stesso, allora una forza a te sconosciuta verrà ad abitare in te. E sentirai in tutti i tuoi sensi la potenza di Colui che è in te” (Isacco di Ninive – Discorsi ascetici).
Più volte, … mi torna alla mente questa parola di Paolo: «quando sono debole, è allora che sono forte». […]Che non sia questo un modo astuto di consolarmi del fallimento delle speranze? In questo ripiegarsi sulla propria debolezza accettandola … mi chiedo se non ci sia un coefficiente di autoconsolazione.
Il discorso, però, è diverso se ci chiediamo quale sia la debolezza di cui si parla in questo brano e quali siano le ragioni del fallimento delle speranze, e di un fallimento tanto più inaccettabile quanto più le speranze avevano radici nella coscienza morale, non erano, cioè, riflessi del sentimento, ma proiezioni della coscienza.
Siamo in un tempo in cui queste speranze hanno nomi chiari e distinti e portano nel loro volto la stessa ragion d’essere dell’umanità.
Se spero nella pace, se voglio un mondo giusto, senza morti per fame, io enuncio speranze non facoltative, in quanto traducono la stessa mia ragion d’essere uomo.
In questo senso si può dire che il valore morale di una persona si misura dall’ampiezza e dalla quantità delle sue speranze.
La profezia consiste nel parlare in nome di queste speranze, costi quel che costi.
Come bene vien detto nel breve e denso passo di Ezechiele: «Non ti ascolteranno perché sono testardi, ma intanto sapranno che c’è un profeta». Nel paradosso biblico questa presenza di un profeta inerme e fallito non è che un rimando al futuro.
Difatti, se noi siamo qui a parlare e a sperare lo dobbiamo a coloro che nel passato sono falliti, ma sono falliti lasciando una fiaccola ad altre mani.
Con la memoria riconoscente potrei rievocare la lunga serie dei profeti che hanno gridato, in tempo opportuno e in tempo importuno – per lo più in tempo importuno – cose che ancora io ripeto e senza delle quali il mondo si farebbe buio sopra di me. Perché c’è questa universalità nel loro linguaggio? E perché queste parole «in casa» non si possono ascoltare?
L’universalità deriva dal fatto che la qualità del profeta, comunque egli sia, dovunque sia, sotto qualsiasi segno, sotto qualsiasi simbolo religioso – non ha nessuna importanza, visto che, come sto per dire, la differenza specifica è altrove – è di riprendere il bandolo della creazione dal suo inizio.
Il profeta prescinde dalla sapienza costituita, fatta di equilibri, di potature opportune, di ridimensionamenti. […] (Ernesto Balducci – da: “Il Vangelo della pace» – vol 2)
Il profeta, una figura centrale nella Bibbia, colui che parla a nome di Dio. Non per aspirazione personale o protagonismo, ma per vocazione. Dio stesso lo chiama di mezzo al popolo, lo “colma” della sua Parola e lo invia di nuovo tra la gente ad annunciare: «Dice il Signore Dio». Il vero profeta, in fondo, è un uomo “vuoto di sé”, che si è lasciato riempire dalla Parola di Dio cui ha saputo fare spazio nel suo cuore. La sua predicazione è autorevole perché trasparente della volontà stessa di Dio; ma non per questo trova facile accoglienza. ( N. Galantino )
“Il vero profeta non obbedisce ad altri che a Dio e si mette al servizio della verita’, pronto a pagare di persona”. ( Benedetto XVI )
[… Anche noi] pur di non essere scomodati dalle esigenze radicali del Vangelo, preferiamo “scandalizzarci” di Gesù e di chi parla in suo nome, proprio come i suoi concittadini di Nazaret.
Ma noi che spesso ascoltiamo la Parola di Dio, che incontriamo Gesù nella celebrazione eucaristica, ci lasciamo mettere in discussione da Lui nei nostri modi di fare o di pensare?
Abbiamo ridotto il nostro rapporto col Signore ad appuntamenti fissi e ripetitivi?
Ascoltiamo la sua Parola aperti a ogni possibile “sorpresa” interiore?
È vero, a volte la pastorale ordinaria non ci aiuta a superare questi atteggiamenti: difficilmente avvengono fatti nuovi nelle nostre parrocchie, difficilmente persone nuove si mettono in gioco, ancora più difficilmente si è disposti a fare diversamente ciò che “si è sempre fatto così”.
Ma, proprio per questo, serve una maggiore fiducia nella potenza rinnovatrice del Vangelo e una più piena disponibilità a lasciarsi trasformare da esso. (Monsignor Nunzio Galantino)
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