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XV Domenica del T.O. – Non ci interessa che la Chiesa sia «per i poveri». Ci interessa che la Chiesa sia «povera» tra i poveri, in condizione estrema di povertà.

XV[…] Gesù invia gli apostoli a fare esperienza di evangelizzazione. Prima però li istruisce attentamente sullo “stile” da vivere in questa missione, per poter sperimentare la forza del Vangelo che annunciano.
Le modalità richieste da Gesù, infatti, sono “sostanza” e non “forma”, parte integrante dell’annuncio evangelico e non realtà accessoria. (Nunzio Galantino)
Il tema è ricco e complesso. Qui mi limito a dire che la Parola di Dio esprime in se stessa quel “farsi povero” di Dio che lo porta a comunicarsi e a consegnarsi all’uomo, sino al farsi povero del Figlio che si dona fino alla Croce.
Credo che questa sia la ragione prima di questo legame tra Parola e povertà.
E’ chiaro che questa indicazione è radicalmente opposta alle logiche del mondo per le quali l’affermazione di un pensiero o di un progetto è intimamente legato alla potenza della comunicazione. ( G. Nicolini )
 La miscredenza crescerà nel mondo a dismisura finché la Chiesa, come comunità, non sarà povera.
Non ci interessa che la Chiesa sia «per i poveri». Ci interessa che la Chiesa sia «povera» tra i poveri, in condizione estrema di povertà.
Chiunque rifletta sul Vangelo non può che essere d’accordo che è questa la condizione essenziale perché l’annuncio di salvezza passi nel mondo come una forza di uragano.
Se Amos avesse accettato la diffida del potente sacerdote, ecco che la sua parola libera, che ha scosso Israele, sarebbe diventata funzionale al mantenimento dell’ordine esistente. Se i profeti diventano cappellani di corte, il sistema cresce.
Solo nella povertà e nella libertà – di cui la povertà è garanzia – abbiamo il segno della potenza di Dio… (Ernesto Balduccì – ‘Il mandorla e il fuoco ‘ vol 2)
 Gesù prende a mandarli”, scrive Marco, “a due a due”, perché sono una comunità, non si presentano come leader o portatori di un messaggio, ma deve essere una comunità che vive questo messaggio. ( A Maggi )
… Essere in due significa affidarsi alla dimensione della condivisione di tutto ciò che si fa e si ha, perché si condivide tutto ciò che si è in riferimento all’unico mandante, il Signore Gesù Cristo.
 Ma se la regola della missione è la condivisione, la comunione visibile, da sperimentarsi e manifestare nel quotidiano, lo stile della missione è molto esigente. …. Quale autorevolezza avrebbe una parola detta e predicata, anche con abile arte oratoria, se non trovasse coerenza di vita in chi la proclama?
 L’autorevolezza di un profeta – riconosciuta a Gesù fin dagli inizi della sua vita pubblica (cf. Mc 1,22.27) – dipende dalla sua coerenza tra ciò che dice e ciò che vive ….
….. Per Gesù la testimonianza della vita è più decisiva della testimonianza della parola, anche se questo non l’abbiamo ancora capito.
In questi ultimi trent’anni, poi, abbiamo parlato e parlato di evangelizzazione, di nuova evangelizzazione, di missione – e non c’è convegno ecclesiale che non tratti di queste tematiche! –, mentre abbiamo dedicato poca attenzione al “come” si vive ciò che si predica. Sempre impegnati a cercare come si predica, fermandoci allo stile, al linguaggio, a elementi di comunicazione (quanti libri, articoli e riviste “pastorali” moltiplicati inutilmente!), sempre impegnati a cercare nuovi contenuti della parola, abbiamo trascurato la testimonianza della vita: e i risultati sono leggibili, sotto il segno della sterilità!
 Attenzione però: Gesù non dà delle direttive perché le riproduciamo tali e quali. Prova ne sia il fatto che nei vangeli sinottici queste direttive mutano a seconda del luogo geografico, del clima e della cultura in cui i missionari sono immersi. Nessun idealismo romantico, nessun pauperismo leggendario, già troppo applicato al “somigliantissimo a Cristo” Francesco d’Assisi, ma uno stile che permetta di guardare non tanto a se stessi come a modelli che devono sfilare e attirare l’attenzione, bensì che facciano segno all’unico Signore, Gesù.
È uno stile che deve esprimere innanzitutto decentramento: non dà testimonianza sul missionario, sulla sua vita, sul suo operare, sulla sua comunità, sul suo movimento, ma testimonia la gratuità del Vangelo, a gloria di Cristo.
Uno stile che non si fida dei mezzi che possiede, ma anzi li riduce al minimo, affinché questi, con la loro forza, non oscurino la forza della parola del “Vangelo, potenza di Dio” (Rm 1,16).
Uno stile che fa intravedere la volontà di spogliazione, di una missione alleggerita di troppi pesi e bagagli inutili, che vive di povertà come capacità di condivisione di ciò che si ha e di ciò che viene donato, in modo che non appaia come accumulo, riserva previdente, sicurezza. Uno stile che non confida nella propria parola seducente, che attrae e meraviglia ma non converte nessuno, perché soddisfa gli orecchi ma non penetra fino al cuore. Uno stile che accetta quella che forse è la prova più grande per il missionario: il fallimento. Tanta fatica, tanti sforzi, tanta dedizione, tanta convinzione,… e alla fine nulla: il fallimento. È ciò che Gesù ha provato nell’ora della passione: solo, abbandonato, senza più i discepoli e senza nessuno che si prendesse cura di lui. E se la Parola di Dio venuta nel mondo ha conosciuto rifiuto, opposizione e anche fallimento (cf. Gv 1,11), la parola del missionario predicatore potrebbe avere un esito diverso?
Proprio per questa consapevolezza, l’inviato sa che qua e là non sarà accettato ma respinto, così come altrove potrà avere successo. Non c’è da temere; rifiutati ci si rivolge ad altri, si va altrove e si scuote la polvere dai piedi per dire: “Ce ne andiamo, ma non vogliamo neanche portarci via la polvere che si è attaccata ai nostri piedi. Non vogliamo proprio nulla!”. E così si continua a predicare qua e là, fino ai confini del mondo, facendo sì che la chiesa nasca e rinasca sempre. E questo avviene se i cristiani sanno vivere, non se sanno predicare… Ciò che è determinante, oggi più che mai, non è un discorso, anche ben fatto, su Dio, che non interessa più a nessuno; non è la costruzione di una dottrina raffinata ed espressa ragionevolmente; non è uno sforzarsi di rendere cristiana la cultura, come molti si sono illusi.
No, ciò che è determinante è vivere, semplicemente vivere con lo stile di Gesù: semplicemente essere uomini come Gesù è stato uomo tra di noi, dando fiducia e mettendo speranza, aiutando gli uomini e le donne a camminare, a rialzarsi, a guarire dai loro mali, chiedendo a tutti di comprendere che solo l’amore salva. Così Gesù toglieva terreno al demonio (“cacciava i demoni”) e faceva regnare Dio su uomini e donne che grazie a lui conoscevano la straordinaria forza del ricominciare, del vivere e vivere ancora… Noi cristiani viviamo questo Vangelo oppure lo proclamiamo a parole senza renderci conto della nostra schizofrenia tra mente e vita? La vita cristiana è una vita umana conforme alla vita di Gesù, non una dottrina, non un’idea, non una spiritualità terapeutica, non una religione finalizzata alla cura del proprio io! (E. Banchi)
 
 
 

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