XXX Domenica del T.O. – Il nostro nulla è lo spazio libero in cui Dio può operare!
La PRIMA LETTURA ci svela che c’è un legame essenziale tra la preghiera e la povertà! .. Il vero orante è sempre un povero!
Ed è Dio stesso a chinarsi verso il povero, a prenderne la pienezza in Gesù obbediente al Padre fino alla Croce.
Per questo non si può corrompere Dio con doni perché in Lui “non c’è preferenza di persone. Al contrario, il povero e l’oppresso hanno ascolto privilegiato presso di Lui . La preghiera del povero è la sua vera potenza, che “attraversa le nubi né si quieta finchè non sia arrivata; non desiste finchè l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti.”
La SECONDA LETTURA ci invita a pensare la vita come una grande “offerta d’amore”. “ Il momento che io lasci questa vita” non deve intristirci , ma farci pensare che , come un barca a vela che affronta una lunga navigazione con tutte le burrasche che le si presentano, alla fine si entra nel porto e dolcemente ci si accosta alla riva.
L’esistenza è come una battaglia e una corsa; la vittoria e il premio sono l’aver “conservato a fede”, dove la “conservazione” è anche “osservanza”, e cioè appassionata dedizione!
La corona di giustizia non è un premio ma un riconoscimento per tutti coloro che non solo attendono ma amano la venuta del Signore. Nel corso di “questa traversata” il Signore cammina sempre con noi e, se tutti ci abbandonano, Lui resta accanto a noi, ci da forza per continuare ad annunciare a tutti l’Amore di Dio per l’uomo.
La parabola del VANGELO ci presenta due uomini che salgono al Tempio a pregare.
Stessa condizione iniziale, stesso luogo, stessa intenzione. ..
Ma questi due uomini, che appartengono alla stessa comunità, hanno due modi completamente diversi di intendere e vivere la loro religione: il fariseo vive la religione come legge, il pubblicano come grazia.
La vita religiosa del fariseo consiste nell’osservanza della legge, anzi: egli fa anche di più di quello che la legge esige : “Digiuna due volte alla settimana e paga le decime di tutto quello che possiedo”. Ma la sua preghiera è vuota di fede, fatta più di “io” che di “Dio” … Il suo monologo dichiara lontananza dagli altri uomini ma anche lontananza da Dio
L’altro “ protagonista” della Parabola è il Pubblicano.
Egli sta in fondo, con la sua preghiera povera di “io” ma piena di “Dio”.
Se il pubblicano rimane lontano è per umiltà, cioè perché si riconosce per quello che è, cioè un essere umano in debito davanti a Dio e agli altri uomini, mentre il fariseo ribadisce la sua distanza con quel giudizio deciso e convinto “non sono come gli altri uomini…”
… Sono così vicini ma così distanti questi due. Un abisso di giudizio e incomunicabilità che allontana anche Dio.
…. Dio però, con la sua misericordia che si è fatta carne (non è rimasta una parola rituale), sceglie il pubblicano, perché è lontano ed allontanato.
Il pubblicano … sale al tempio nella consapevolezza di essere un peccatore, mendicante del perdono di Dio. … “Si ferma a distanza”, …. “non osa nemmeno alzare gli occhi al cielo”… Le sue parole sono brevissime: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
È l’invocazione che ritorna più volte nei salmi (cf. Sal 25,11; 51,13, ecc.). …!
È “la preghiera dell’umile che penetra le nubi” (Sir 35,21), che non spreca parole …
Egli si presenta a Dio senza maschere … non ha nulla da vantare, ma sa che può solo implorare pietà da parte del Dio tre volte Santo.
.. L’umiltà di quest’uomo non consiste nel fare uno sforzo per umiliarsi: la sua posizione morale è esattamente quella che confessa e dalla quale è umiliato! Non ha nulla da pretendere, per questo conta su Dio, non su se stesso. .. E ciò vale anche per noi: il nostro nulla è lo spazio libero in cui Dio può operare, è il vuoto aperto alla sua azione; su chi è troppo “pieno di sé”, invece, Dio è impossibilitato ad agire. …
Terminata la parabola, ecco il giudizio di Gesù: “Io vi dico che il pubblicano, a differenza dell’altro, tornò a casa sua reso giusto (da Dio), perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”. … L’umiltà non è falsa modestia, non equivale a un “io minimo”: non chi si fa orgogliosamente umile è innalzato da Dio, perché questo equivarrebbe a replicare l’atteggiamento del fariseo…
È necessario che piantiamo in asso il fariseo e ci collochiamo a fianco del peccatore, inchiodato alla propria miseria.
Lui sa che le credenziali valide per presentarsi dinanzi a Dio non sono rappresentate dalla propria irreprensibilità, onestà, perbenismo, dal certificato di buona condotta, ma dalla miseria, dal riconoscimento della propria condizione di peccatori. Il pubblicano si sente piccolo. Per questo esce “innalzato” dal tempio. Si riconosce povero. Ecco perché esce arricchito.
Ha ragione S. Kierkegaard: “Il contrario del peccato non è la virtù. Ma la fede. Una fede che fa aprire gli occhi sul tuo nulla e sul tutto di Dio, sulla tua miseria e sulla sua misericordia.”
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