XVII DOMENICA del T.O. – Beati i poveri, cioè coloro che tutto vendono per quel tesoro, senza del quale la terra non sarebbe che una inconsistente illusione
Più che un commento puntuale ai detti del Signore, vorrei fare una breve riflessione sull’indicazione complessiva che ne traspare.
È evidente che agli occhi di Gesù la vita deve essere vissuta come un rischio, come un’avventura alla ricerca di un tesoro nascosto.
Le analogie col cercatore di perle o col pescatore che getta la rete, tendono a trascrivere, in un registro di esperienze alla portata di tutti (specie degli ascoltatori di quel tempo), uno stile di esistenza che invece non può essere compreso senza un particolare dono di sapienza.
Non a caso la PRIMA LETTURA riguarda Salomone, il prototipo della sapienza. E non a caso, nella SECONDA LETTURA, per bocca di Paolo, ci si parla della gloria futura alla quale siamo stati predestinati. È questo infatti il tesoro nascosto, la perla preziosa: la gloria futura.
Che Gesù esprima la scoperta del tesoro nascosto con linguaggio mercantile ha un senso. Difatti la gloria del Cristo risorto in cui crediamo è anche ciò che dal profondo noi attendiamo, è la misura perfetta delle aspirazioni che sorgono dal fondo della nostra natura, attraversata misteriosamente da una divina predestinazione.
E come potremmo esprimere il senso di gioia, di interiore pienezza, di sorpresa quasi fiabesca con cui, a volte, ci avviene di vivere la nostra fede?
A volte sono portato a riflettere sul contrasto fra il modo con cui un mio amico non credente prende atto della mia fede quasi si trattasse di una curiosa ingenuità, di una inesplicabile detrazione alle esigenze della ragione, di un residuo d’infanzia in un uomo per il resto (bontà sua!) molto maturo e il modo del tutto naturale, spontaneo, con cui per mio conto vivo certezze davvero sproporzionate alla ragione.
È come se – tanto per restare all’immagine evangelica – due guardassero un campo e uno lo giudicasse per quel che vale sul metro delle comuni valutazioni e l’altro, sapendo che dentro c’è un tesoro nascosto, lo valutasse in cuor suo molto di più. Le due valutazioni sono tra loro incomunicabili: le separa un segreto. Appunto: la vita cristiana è radicata in un segreto, per rivelare il quale le parole consuete valgono poco. E, d’altra parte, finché il tesoro non è estratto alla luce del sole, chi potrebbe assicurare che non si tratti di un’illusione?
È così. La vita di fede è, in radice, come imprigionata nell’ineffabilità. Anche per chi la vive essa è un rischio.
Pascal aveva detto: è una scommessa. Se si perde, che si perde? Nulla. Ma se si vince?
A noi non piace questo linguaggio da totocalcio. L’ho richiamato solo per sottolineare quel quoziente di rischio che un credente sa di correre. Solo che chi ha fede non userebbe mai la parola rischio.
L’esperienza vissuta supera la linea del rischio e ci introduce nella zona delle certezze vitali.
Le certezze vitali non sono mai plateali, non si gridano nei comizi, non si ostentano nei giornali. Sono pudiche, silenziose e, se cercano la parola la cercano in modo che essa lasci trasparire ciò che vi è dietro.
E che vi è dietro? Vi è il sentimento della suprema naturalezza del soprannaturale!
Il tesoro nascosto è correlativo a ciò che nell’uomo vi è di più nascosto. Il razionalista più lucido porta in sé un emisfero di umanità che non ha mai potuto essere filtrato dalle sue geometrie.
Ognuno muore con una parte di sé mai venuta alla luce.
La fede, facendoci aderire al tesoro nascosto (1a gloria di Dio, apparsa nel Risorto, ma seppe1lita. sotto la superficie della storia) dà appagamento alla nostra umanità nascosta. E si ha così il sentimento (niente di più che il sentimento) di una interezza nuziale.
Si tratta delle nozze tra ciò che ci è stato preparato fin dalla fondazione del mondo e ciò che in noi è presente, ma ineffabile, fin dalla nostra nascita.
Viviamo così in una diversa dimensione, che, però, non fa incrinature con la dimensione quotidiana, si compenetra con essa e ne fa il proprio spazio di crescita e di trasparenze.
La saggezza, di cui parlano il primo e il terzo brano della Scrittura, ha qualcosa a che fare con questa consapevolezza arcana.
In controluce con questo segreto splendore, le cose vecchie e nuove acquistano profili diversi e diversi significati.
Quello che uno vende, noi non lo venderemmo mai; quel che uno compra, non lo compreremmo mai.
Francesco d’Assisi riponeva la perfetta letizia in situazioni che, per la generalità degli uomini sarebbero di estrema disperazione. Tutti corrono verso tesori di cui conosciamo l’entità e il listino dei prezzi.
Il tesoro nascosto non è tra le poste della gara, non è tra le voci del fisco, non è negli imprevisti delle avventure puramente umane. È come sottoterra, è come sotto le acque. Ma chi lo ha scoperto, vende tutto, si fa povero ma cammina nel mondo come un re delle fiabe. Beati i poveri, cioè coloro che tutto vendono per quel tesoro, senza del quale la terra non sarebbe che una inconsistente illusione. ( Ernesto Balducci – da: “Il mandorlo e il fuoco” – vol. 1 )
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