Il fuoco del Concilio arde ancora
(La Stampa, 14 ottobre 2012)
Gli eventi strettamente legati al Concilio Vaticano II – e simbolicamente rappresentativi dell’insieme dei lavori, di tutto il travaglio precedente e della sua portata universale – occupano un periodo di tempo di sette anni, dall’annuncio ad opera di papa Giovanni il 25 gennaio 1959, alla solenne apertura l’11 ottobre 1962, fino alla conclusione presieduta da Paolo VI l’8 dicembre 1965.
Questo fa sì che gli anniversari significativi si moltiplichino e, con essi, le occasioni per fare memoria di quell’evento ecclesiale definito da Giovanni Paolo II «La più grande grazia del XX secolo», con ciascuna ricorrenza contrassegnata da una propria specificità.
Allora, nel 50° dell’apertura del concilio che ricordiamo in questi giorni, varrebbe la pena soffermarsi maggiormente sulle attese e le speranze suscitate da quell’assise, lasciando la riflessione sui documenti conciliari in sé e la loro interpretazione e ricezione ad altri anniversari più appropriati.
Come ha vissuto la Chiesa nei quasi quattro anni tra l’annuncio del Concilio e la sua apertura?
E come il mondo – la società, le nazioni, le culture, la altre confessioni cristiane, le diverse religioni… – ha percepito la gestazione di quell’evento?
Non si tratta di intraprendere qui una pur doverosa analisi storica di quel periodo, ma di cercare di discernere i “segni” di quei tempi, di una stagione ecclesiale e mondiale contrassegnata dalla speranza, dalla volontà di non ripiombare più nelle paure e negli orrori di due guerre mondiali, dal desiderio di uscire dalla stretta di un mondo bipolare impegnato nella guerra fredda.
Così parla di quegli anni papa Giovanni nella sua allocuzione Gaudet mater ecclesia: dopo l’annuncio del concilio «Si accese in tutto il mondo un enorme interesse, e tutti gli uomini cominciarono ad attendere con impazienza la celebrazione del Concilio. In questi tre anni è stato svolto un lavoro intenso per preparare il Concilio, con il programma di indagare più accuratamente ed ampiamente quale fosse in questa nostra epoca la condizione della fede, della pratica religiosa, dell’incidenza della comunità cristiana e soprattutto cattolica. Non a torto questo tempo speso nel preparare il Concilio Ci sembra sia stato quasi un primo segno e dono della grazia celeste».
È a partire da queste reazioni e dall’aver visto all’opera anche vescovi, teologi, pensatori fino ad allora tenuti ai margini se non osteggiati all’interno della Chiesa, che il papa poté rassicurare tutti sull’errata visione dei «profeti di sventura che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo».
Illusioni di un papa visionario?
Entusiasmo eccessivo verso i tempi moderni e le loro potenzialità?
Se, come dicevo, ci atteniamo a quegli anni, non si può negare che queste speranze, queste attese erano quelle di tantissimi uomini e donne di tutto il mondo e di molti cristiani e cattolici di ogni età: era come se il papa avesse dato voce a desideri inespressi, avesse rattizzato il fuoco del Vangelo che covava sotto la cenere, avesse fatto soffiare il vento dello Spirito capace di rimuovere nebbie e nuvole: come non ripensare a quella magica, emblematica notte dell’11 ottobre 1962, quando anche la luna si liberò della nuvola che la nascondeva e sorrise all’immensa folla che con le fiaccole accese ascoltava l’inattesa parola di una padre buono che si prende cura dei suoi figli fino ad accarezzarli nella loro infanzia?
Era convinzione di papa Giovanni che «illuminata dalla luce di questo Concilio, la Chiesa si accrescerà, come speriamo, di ricchezze spirituali e, attingendovi il vigore di nuove energie, guarderà con sicurezza ai tempi futuri. Infatti, introducendo opportuni emendamenti ed avviando saggiamente un impegno di reciproco aiuto, la Chiesa otterrà che gli uomini, le famiglie, le nazioni rivolgano davvero le menti alle realtà soprannaturali».
C’è in queste parole la costante attenzione per un annuncio rinvigorito e credibile della “buona novella”, custodita dalla Chiesa non come patrimonio geloso, ma come dono per l’umanità. E, accanto a questo, la particolare attenzione per i “fratelli separati” (come venivano chiamati allora i cristiani di altre confessioni) e per quel mondo ebraico di cui papa Roncalli aveva saputo ascoltare il grido e che aveva aiutato nell’ora della prova più tragica: l’istituzione di un apposito “Segretariato per l’unità dei cristiani”, l’apertura dell’assemblea sinodale a osservatori di altre confessioni, la cura assidua a non pensare mai senza gli altri o, peggio ancora, contro gli altri fecero sì che le attese del popolo cattolico si intrecciassero con quelle di credenti e non credenti di ogni latitudine, in un’epoca in cui della globalizzazione non esisteva nemmeno il termine.
Oggi, a cinquant’anni dall’apertura di quell’evento di Chiesa, si può constatare che restano ancora molti problemi urgenti, nuovi o antichi, e non è venuta meno la necessità di una parola ecclesiale fedele alla tradizione ma capace di essere compresa e vissuta oggi.
C’è e ci sarà sempre bisogno di dialogo, di confronto tra Chiese situate in contesti socio-politici differenti e tributarie di culture paradossalmente sempre più “meticce” e al contempo globalizzate. In questo senso, oggi come allora, è necessaria una Chiesa comunionale nella quale la sinodalità – cioè la capacità e la volontà di camminare insieme, di fare “syn-odos”, Sinodo – si riveli la modalità quotidiana per cui tutti sono soggetti responsabili, secondo l’antico principio ecclesiale: «Su ciò che riguarda tutti, tutti devono essere ascoltati». Si potrà dire che resta ancora molto da attuare del Concilio: è inevitabile, dato che quell’assise volle farsi eco del Vangelo e che il Vangelo è sempre ben lungi dall’essere attuato pienamente, ma ciò che cinquant’anni fa è stato acceso come fuoco nel cuore dei credenti per ora arde e non pare in procinto di spegnersi.
Enzo Bianchi
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