XII Domenica del T.O. – Prendere la croce: assumersi il peso di un'esclusione per amore dell'umanità liberata da tutte le divisioni.
Il brano evangelico odierno è composto di due parti strettamente collegate tra loro, che possono essere sintetizzate da due domande: chi è Gesù? Chi è il suo discepolo?
Nella prima parte Pietro, in risposta a un interrogativo posto da Gesù, lo acclama quale «Cristo di Dio», quale Messia.
E Gesù, dopo aver imposto ai Dodici il silenzio su questa identità, precisa immediatamente quale sia la sua messianicità: quella del «Figlio dell’uomo che deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno».
Ma il brano odierno ci consente anche di sostare più approfonditamente sulle richieste fatte da Gesù a chi vuole seguirlo, ovvero sulle esigenze che dalla sua particolarissima messianicità discendono per i suoi discepoli.
Gesù – annota Luca – non indirizza il suo sguardo solo alla sua piccola comunità, ma lo estende a «tutti»; rivolge delle precise richieste a tutti coloro che vogliono andare dietro a lui, mettendoli in guardia con chiarezza, anche a costo di scoraggiarli: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua».
Sono parole a prima vista dure, che richiedono a noi una comprensione intelligente: non vanno intese in senso fondamentalista, alla stregua di «un programma di morte» o di una chiamata all’auto-annientamento, né d’altra parte vanno edulcorate, come se fossero una semplice metafora… ( E. Bianchi )
Per Gesù prendere la croce non vuol dire fare le mortificazioni. La croce è un emblema di supplizio pubblico, non uno strumento di tortura privata. La croce era il destino dei condannati politici. Gesù prese la croce, cioè assunse su di sé l’obbrobrio della condanna pubblica e andò avanti fino alla sua morte.
Prendere la croce vuol dire accettare questo destino, farsene carico.
Non vuol dire far penitenza, non mangiar carne il venerdì, fare i fioretti; vuol dire assumersi, quando fosse necessario, il peso di un’esclusione per amore dell’umanità liberata da tutte le divisioni.
“Chi non perde la propria, vita non la salva”. Perdere la vita vuol dire abbandonare tutte le nostre sicurezze, le nostre garanzie a cui siamo così attaccati, anche quando non sembra, e quindi vuol dire morire, e non necessariamente nel senso fisico ma in senso quotidiano. ( E. Balducci – Omelie sparse )
Se noi invece vogliamo salvare la nostra vita (la nostra identità) la perdiamo.
Rinnegare se stessi significa smettere di voler affermare se stessi, lottare contro l’egoismo che sempre ci minaccia, contro quella terribile malattia che la tradizione cristiana ha definito philautía, «amore di sé»: una brama perseguita a ogni costo, anche contro e senza gli altri; una preoccupazione esclusiva per sé che induce a considerare il proprio io come misura della realtà.
Chi vince questo egoismo mortifero cessa di essere ripiegato sui propri interessi e diventa libero di vivere per gli altri, di generare pensieri, parole e azioni finalizzate alla comunione fraterna. Allora può anche farsi carico della propria croce ogni giorno – precisazione solo lucana –, con faticosa perseveranza. (E.Bianchi)
La croce fa ostacolo per chi non ha il coraggio di distaccarsi da se stesso per mettersi nelle mani del Padre.
Essa rimane un puro simbolo muto di dolore, per chi non è disposto a vivere la solidarietà con Cristo e con i fratelli, per chi esige la soluzione automatica di tutti i problemi, per chi vede nel dolore degli altri un fastidio da lasciare sulle spalle degli altri e non una provocazione alla vicinanza e alla comunicazione fraterna.
Incontriamo, allora la croce nelle nostre chiese, la mettiamo nelle nostre case, la portiamo su di noi senza avere il coraggio di prendere la nostra croce insieme a quella di Gesù. (Card. Carlo Maria Martini)
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