XXV Domenica del T.O. – Essere scaltri e risoluti nell’assicurarsi nel tempo presente il regno di Dio.
In tutto il cap. 16 — a eccezione di un cenno sulla legge (16,16-17) e sul divorzio (16,18) — Luca sviluppa il tema dell’uso cristiano della ricchezza. Si tratta evidentemente di un argomento di grande importanza per la sua comunità.
La parabola dell’amministratore scaltro ha sempre suscitato perplessità nei lettori: com’è possibile che il vangelo presenti un uomo disonesto quale modello da cui imparare? Perciò alcuni commentatori — nello sforzo di attenuarne il disagio — attirano l’attenzione sull’ambiente palestinese e sui suoi costumi.
I grandi proprietari terrieri, per lo più stranieri, avevano alle proprie dipendenze degli amministratori locali, ai quali lasciavano grande libertà e piena responsabilità: loro compito era di realizzare per il padrone il profitto pattuito, ma, una volta assicurato questo profitto, avevano anche la possibilità — maggiorando il prezzo — di realizzare guadagni personali. Questo era consentito. Si può dunque pensare che il fattore — nell’intento di procurarsi amici che lo avrebbero aiutato nei momenti di difficoltà — abbia semplicemente rinunciato alla propria parte di profitto, senza danneggiare il padrone. Ciò renderebbe più credibile l’elogio di quest’ultimo (16,8). Ma è un’ipotesi inutile.
La parabola, infatti, non attira l’attenzione sui mezzi a cui il fattore ricorre per farsi degli amici. Il vero centro della parabola è racchiuso nella constatazione che “i figli di questo mondo sono più scaltri dei figli della luce” (16,8). La parabola non dovrebbe essere intitolata «Il fattore infedele», come spesso avviene, bensì «Il fattore astuto».
Il parabolista vuole che ci si lasci impressionare dalla prontezza e dalla furbizia con cui il fattore cerca — senza un attimo di esitazione — di mettere al sicuro il proprio avvenire. Appena si accorge che il suo futuro è in pericolo, il fattore si mostra astuto, voltando a proprio vantaggio la difficile situazione in cui è venuto a trovarsi.
Ebbene, il cristiano non dovrebbe essere altrettanto pronto, scaltro e risoluto nell’assicurarsi nel tempo presente il regno di Dio? L’aggettivo phronimos — che definisce le qualità del fattore e che comunemente viene tradotto con «prudente» — allude a diverse caratteristiche: la lucidità di avvertire la gravità della situazione, la prontezza nel cercare una soluzione perché non ci saranno altre opportunità, il coraggio di prendere decisioni.
Sin qui l’insegnamento della parabola resta a livello generale (afferma il valore della risolutezza, ma non dice in quale situazione applicarla), aperto a un ampio ventaglio di possibili attuazioni. Si limita a dire: imparate per i vostri scopi a essere furbi e determinati come i figli di questo mondo lo sono per i loro. Non sappiamo se Gesù abbia pronunciato la parabola per dare ai discepoli questo insegnamento, o se l’abbia invece applicata a qualche caso più preciso.
Comunque, Luca non vuole che l’istruzione rimanga vaga e la indirizza verso un caso concreto e per lui importante: l’uso della ricchezza. A tale scopo fa seguire alla parabola tre detti del Signore — in origine probabilmente indipendenti — che sono accomunati dal termine «denaro»: 16, 9.11.13.
Il primo detto sembra riprendere il ragionamento del fattore («so che cosa fare, perché, quando sarà stato allontanato dalla amministrazione, mi accolgano in casa loro») e si presenta come una diretta e solenne applicazione della parabola: «Io vi dico: fatevi amici con la disonesta ricchezza, perché quando essa verrà a mancare vi accolgano nelle dimore eterne» (16,9). Per la maggioranza dei commentatori «farsi amici con la disonesta ricchezza» significa aiutare i poveri: gli amici sono i poveri, amici di Dio che devono diventare amici nostri. Per altri gli amici sono i meriti presso Dio, o anche Dio stesso. Comunque, la sostanza dell’insegnamento non cambia. C’è un solo modo per essere astuti come il fattore della parabola: utilizzare le proprie ricchezze per aiutare i bisognosi. Concretamente Luca pensa all’elemosina, tema che gli è particolarmente caro: 11,41; 12,33; 19,8; At 9,36; 10,2.4.31; 11,29; 24,17.
Il secondo detto del Signore (16,10-12) sposta l’attenzione dal dovere della carità al dovere della fedeltà nell’amministrazione dei beni del padrone. Qui il fattore della parabola assume una valenza negativa: la sua disonestà non va imitata. Forse si tratta di un avvertimento rivolto in particolare ai membri della comunità, che avevano l’incarico di amministrare i beni comuni.
Il terzo detto del Signore avverte che non si può contemporaneamente servire Dio e il denaro (16,13). L’ammonimento sottende che il denaro vuole sempre fare da padrone, e spesso ci riesce.
Il fattore della parabola è definito «disonesto» (16,8), ma poi – nelle parole applicative – è la ricchezza a essere definita disonesta. Perché? Certo perché spesso è frutto di ingiustizia e anche, più spesso ancora, perché diventa facilmente strumento di ingiustizia. Inoltre, la ricchezza rende ciechi, come insegnerà più avanti la parabola del povero e del ricco… Nella parabola del seminatore… la seduzione della ricchezza soffoca la Parola. Questa diffidenza nei confronti della ricchezza non è una novità. Si legge nel libro del Siracide (27,2): «Fra la compra e la vendita si insinua il peccato». E in un altro passo del medesimo libro si dice:
«Non porre la tua fiducia nella disonesta ricchezza, perché non ti gioverà nel giorno della sventura» (5,8). Quest’ultima affermazione sembra suggerire un’ulteriore ragione per cui la ricchezza può definirsi disonesta: la ricchezza è ingannevole. Infatti, promette e non mantiene. Conquista la fiducia dell’uomo per poi deluderlo. La connotazione della disonestà della ricchezza ben si adatta al senso della parola «mammona» che è più della semplice ricchezza: è quell’accumulo esagerato, mai sazio, che fa da padrone, riempiendo tutto l’orizzonte della vita.
Bruno Maggioni
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