I Domenica di Avvento: restiamo svegli in attesa del Veniente.
Inizia un nuovo anno liturgico, inizia dunque il tempo dell’Avvento, tempo della Venuta (Adventus) del Signore nostro Gesù Cristo.
Noi professiamo la nostra fede dicendo: “Verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti e il suo Regno non avrà fine”.
Ecco, il tempo dell’Avvento è soprattutto l’attesa di questo evento, attesa che sempre abita il cuore del cristiano ma che in queste settimane si fa più ardente, più orante.
“Vieni, Signore Gesù, vieni presto!” (cf. Ap 22,17.20), è il grido della chiesa. E il vangelo della prima domenica di Avvento ci dona la promessa di questa venuta, di questo evento.
Gesù è a Gerusalemme e, interrogato dai discepoli circa la meravigliosa costruzione del tempio, ha già parlato della sua distruzione ma anche delle persecuzioni che si abbatteranno sui cristiani prima che egli venga nella gloria (cf. Mt 24,1-36). Ora parla proprio del compiersi della fine del mondo e dell’inizio del Regno di Dio.
Tutto accadrà come ai tempi di Noè, quando gli uomini, come sempre nella storia, pensavano e agivano per mangiare e bere, lavorare e accoppiarsi.
Gesù non denuncia un’immoralità da parte dell’umanità dei tempi di Noè, non dice che questi uomini e queste donne operassero il male: denuncia solo il fatto che non si interrogavano, non si preoccupavano di ciò che è essenziale, vivevano anestetizzati e quindi come addormentati dall’inseguimento del benessere e della felicità individuale. Ma su di loro si abbattè improvviso il diluvio…
Così avverrà anche la venuta del Figlio dell’uomo: sarà un evento improvviso, inatteso dagli uomini, inconsapevoli che può avverarsi il decreto di Dio, decreto estrinseco al cosmo stesso, che mette fine a questo mondo.
Questa venuta attraverserà le relazioni quotidiane e distinguerà gli esseri umani: alcuni saranno presi, dunque accederanno alla salvezza; altri saranno lasciati al loro cammino di perdizione.
L’invito di Gesù ai discepoli è dunque: “Vegliate!”, perché nessuno sa l’ora della venuta del Signore, il giudice misericordioso. Soprattutto noi cristiani, avvertiti dalla promessa di Gesù, dovremmo vegliare, restare vigilanti, esercitarci alla consapevolezza che non possiamo rimandare la venuta del Signore e la fine del mondo a un tempo che non ci tocca. Anche perché per ciascuno di noi il Signore viene ogni giorno e verrà con la nostra morte per accoglierci nel suo Regno. ( E. Bianchi )
Vigilare significa anzitutto vegliare, stare desti, rimanere all’erta. L’immagine più immediata è quella di chi non si lascia sorprendere dal sonno quando il pericolo incombe o un fatto straordinario ed emozionante sta per accadere. Vigilare significa badare con amore a qualcuno, custodire con ogni cura qualche cosa di molto prezioso, farsi presidio di valori importanti che sono delicati e fragili.
Vigilare impegna comunque a fare attenzione, a diventare perspicaci, a essere svegli nel capire ciò che accade, acuti nell’intuire la direzione degli eventi preparati a fronteggiare l’emergenza.
Rimanere svegli, essere attenti avere cura, vegliare dunque:
veglia la sposa che attende lo sposo,
la madre che attende il figlio lontano
, la sentinella che scruta nel cuore della notte;
veglia l’infermiere accanto al malato,
il monaco nella preghiera notturna;
vegliano gli uomini e le donne che sono pronti a raccogliere i segnali di aiuto dei loro amici nel pericolo, dei loro fratelli nel dolore, del loro prossimo nella difficoltà;
veglia la comunità dei credenti che è rapida nel reagire alla tiepidezza e alla stanchezza che l’allontanano dall’amore degli inizi.
Veglia una società civile che coglie prontamente i segni del proprio degrado, che si erge contro la corruzione dilagante, che contrasta la disaffezione nei confronti del bene comune, che non si rassegna alla deriva delle sue istituzioni pubbliche e alla casualità dei suoi ritmi vitali, che poi significano sempre il trionfo dei prepotenti e dei furbi.
Vigilare è la capacità di ritornare a prendersi il tempo necessario per aver cura della qualità non puramente clinica e commerciale della vita.
Il tempo per imparare a riconoscere il significato delle nostre emozioni impulsi, tensioni per non rimuoverle troppo in fretta anestetizzando l’eventuale disagio che ci procurano, e rendendo così sterile la profondità dell’esperienza nella quale esse potrebbero introdurci.
L’abitudine al consumo superficiale dei sentimenti ci rende fragili; assegnare all’occasionale immediatezza delle emozioni un ruolo decisivo per la nostra identificazione e la nostra condotta (“io adesso mi sento così, faccio così decido così”) ci espone al grave rischio di conferire alla pressione delle circostanze un potere assoluto sul nostro destino.
Se non siamo vigili, saranno i nostri riflessi condizionati, e non il nostro io, a decidere per noi.
Compito incongruo con la dignità dell’uomo e curiosamente contraddittorio nei confronti della gelosa difesa della libertà individuale, che segna irrevocabilmente la nostra cultura. ( C. M. Martini )
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