XIV Domenica del T.O. – La via evangelica è quella della partecipazione alla sofferenza degli umili.
…Per poter entrare nella conoscenza del mistero di Dio vale più una reale, pratica partecipazione alla tribolazione degli esclusi che non anni di studio teologico.
Se voi passate un’ora sola ad addossarvi la disperazione di un disperato, voi siete già entrati nel mistero di Dio la cui conoscenza non è di tipo concettuale, ma vitale.
Se io riesco a sopportare una situazione penosa, ad essere non già uno che fa le opere buone per sentirsi buono ma uno che cerca di capire le ragioni di una sofferenza, di una disperazione, allora io entro nel mistero del Regno di Dio e intanto comincio a capire che questo mondo è un mondo intollerabile.
I veri preamboli della fede non sono di tipo intellettuale, come insegnavano a me. I preamboli erano questi: che Dio esiste, che l’uomo è libero (c’è il libero arbitrio) e che l’anima è immortale. Partendo da essi si arriva a dimostrare che Cristo è Dio.
È una via intellettualistica maliziosa, perché evidentemente ci sono uomini semplici che non possono sapere che cos’è l’induzione e la deduzione.
Chi possiede questi strumenti logici si accaparra perfino la conoscenza di Dio.
Non è questa la via evangelica.
La via evangelica è quella della partecipazione alla sofferenza degli umili.
Il passare del tempo con la gente tribolata è conoscenza di Dio.
Capire che in questo mondo le persone più delicate, più pure, sono le più perseguitate, le più reiette, e i mascalzoni hanno successo, è un primo passo, il primo preambolo per conoscere Dio.
Se noi ci mettiamo di fronte a Dio con tutte le riserve che vengono dalla cultura filosofica restiamo dentro uno schema intellettuale che non ci consente di entrare nel mistero di Dio.
Anche le ricerche razionali hanno valore, purché non siano legate alla pregiudiziale intellettualistica che squalifica il rapporto con l’uomo.
Vale più amare sul serio i tribolati e gli oppressi che non studiare.
Un oppresso o anche semplicemente un sofferente ha qualcosa da insegnarci: anche se è un ateo può parlare del Regno di Dio senza che se ne accorga.
Mi premeva illustrare questa prassi della conoscenza di Dio soprattutto a chi si dibatte con più sofferenza dentro la crisi del dubbio.
La crisi del dubbio potrebbe essere un dono del Signore: potrebbe essere il passaggio da un certo modo – intellettualistico, nozionistico, astratto e, tutto sommato, complice dei poteri di questo mondo – a un nuovo modo di essere cristiani.
Perfino l’ateismo potrebbe essere una notte oscura attraverso cui si passa per una diversa conoscenza di Dio.
L’altra linea critica contro il «dominio della carne» riguarda coloro che mettono il giogo delle legge sulle spalle altrui fino a schiacciarli e si credono onesti.
Il Signore ha sempre esaltato gli umili anche se peccatori e contro i tutori dell’ordine morale ha detto parole dure: le prostitute, i pubblicani li giudicheranno nel Regno di Dio.
E così Egli toglieva di mano ai responsabili dell’ordine morale gli strumenti della loro egemonia.
Stiamo attenti a non reintrodurre nella nostra coscienza dei criteri di giudizio che non vengono dal Vangelo ma dalla morale delle classi dominanti.
Dobbiamo rimettere nel crogiuolo di una fede maturata sul Vangelo tutte le ricchezze della morale che abbiamo appreso, non per cadere nel lassismo morale ma per reimparare la perfetta identità tra norma morale e amore.
Anche qui, la via della rigenerazione passa attraverso la partecipazione alla vita di coloro che portano i pesi del giogo della legge.
Se in un ambiente per bene si parla delle prostitute, si fa presto a contare su un ribrezzo immediato.
Ma se poi parlate con una prostituta cominciate a dubitare dell’onestà delle donne per bene.
Se voi parlate della virtù fra gente virtuosa, avrete del vizio – che non vi riguarda, riguarda gli altri – una rappresentazione repellente. Ma se per caso andate fra le così dette persone viziose e ascoltate la loro storia, allora entrerà in voi una confusione, uno smarrimento, certo pericoloso, ma capace di introdurvi nella convinzione che quel che conta è davvero l’amore”. (Ernesto Balducci da “Il mandorlo e il fuoco” vol 1 – anno A)
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