XXXIII Domenica del T.O. "I talenti della parabola sono la misura del nostro coraggio, della nostra disponibilità ad agire secondo l’amore."
Quella dei talenti potremmo considerarla una parabola che apparentemente ben si adatta al sistema capitalistico – e quindi bene accetta agli uomini del nostro tempo – la cui logica conosciamo tutti: bisogna darsi da fare, il capitale va raddoppiato, se non lo raddoppi sei mandato all’inferno.
Bisogna davvero impegnarsi nella vita, le doti che hai devono fruttare e più hai più devi rendere, devi raddoppiare ciò che hai. Ma così non è.
Questa è l’interpretazione usuale, che afferma esattamente il contrario di quel che dice il testo.
Per comprendere davvero un brano del Vangelo è, infatti, necessario leggerlo tenendo conto del contesto.
Prima della parabola dei talenti l’evangelista Matteo ricorda la parabola delle dieci vergini e subito dopo troviamo il racconto del giudizio finale: «Io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere…».
Nel capitolo 25, dunque, Matteo prima indica, nella parabola delle dieci vergini, la necessità di procurarsi l’olio in questa vita; poi, nel nostro testo, spiega “come” procurarselo: trafficando i talenti. Ed infine, nel brano successivo, ci dice come trafficarli: dandoli ai poveri.
Non è, dunque, ciò che abbiamo quel che conta, ma ciò che diamo. Esattamente il contrario della logica del capitalismo.
Uno sguardo diretto alle cose, l’esigenza di azioni concrete. A questo ci richiama la parabola dei talenti se la leggiamo alla luce dell’intero capitolo 25 di Matteo. Un capitolo nel quale Gesù racconta il nostro ultimo incontro con Dio, nel giorno del giudizio finale, quando saremo divisi da una parte o dall’altra secondo un criterio che il Signore offre con grande chiarezza:«Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 44).
Il capitolo si chiude dunque con un’indicazione precisa, che richiama alla capacità critica di servire, ponendosi, in maniera umile e concreta, al servizio di chi è affamato, assetato, senza lavoro senza denaro, senza ospitalità, infermo.
Ed è alla luce di questa stessa concretezza che possiamo leggere, sempre nel capitolo 25, il bellissimo gesto di quel gruppo di ragazze che aspetta lo sposo con una riserva d’olio.
….Tutte le vergini si svegliano, si preparano ad accendere le lampade ma solo chi ha progettato, chi ha guardato lontano, chi ha sperato, chi ha investito, chi ha avuto coraggio di andare oltre il consueto e il doveroso ottiene ora il dono grande di entrare con lo sposo nella stanza delle nozze.
La parabola dei talenti si innesta dunque in questo contesto, proprio tra il racconto delle vergini in attesa e il racconto del giudizio finale.
Una parabola, quella dei talenti, che ci offre la ricchezza di un triplice sguardo.
Innanzitutto ci pone davanti alla diversità dei doni, che non sono dati secondo logiche meritocratiche, ma secondo le necessità di ciascuno.
Un servo riceve cinque talenti, un servo ne riceve due, il terzo uno soltanto, ma il merito non c’entra. I talenti sono un dono del Signore.
Il secondo aspetto, sul quale è importante soffermarsi, è, infatti, proprio la diversità con cui sono accolti i doni ricevuti. E questa diversità è segnata dal diverso coraggio con cui i tre servi agiscono.
I primi due, pur avendo avuto doni differenti, hanno il medesimo cuore: esprimono la gratitudine, l’impegno, lo zelo, il servizio, l’imprenditorialità, la capacità di darsi con fiducia alla vita e consegnarsi con speranza agli impegni quotidiani….I due servi, quindi, rispondono con lo stesso cuore a doni differenti.
E questo ci indica una verità semplice: non è la quantità che determina la qualità, ma è la qualità che fa la quantità.
…. Terzo aspetto di questa parabola: l’atteggiamento tremendo del terzo servo che ha dentro di sé un sentimento paralizzante, che emerge con grande chiarezza più avanti nel racconto quando confessa al signore «…per paura mi allontanai e nascosi il talento sotto terra».
Ecco, la “paura” è la parola, il sentimento centrale di questa parabola dei talenti.
La paura determina uno stile fallimentare – ieri, oggi e in ogni tempo – davanti ai doni di Dio.
…… La paura ha paralizzato il terzo servo, che ha voluto salvare il salvabile, accontentandosi del minimo, di una lampada senza riserva.
Il racconto delle vergini savie, la parabola dei talenti, la narrazione del giudizio finale contengono il medesimo messaggio: non basta non fare il male, non basta accontentarsi del poco che si fa, potendo fare di più.
Non basta vivere dello scontato, del doveroso, delle cose fatte per necessità. Occorre un’esperienza di grande dedizione, occorre lo slancio dentro, occorre la capacità di sconfiggere la paura.
……Cosa dobbiamo fare per ritrovare lo slancio di un amore sempre più grande?
Dove trovare la forza di lottare contro la paura che ci spinge a sotterrare i nostri talenti?
Prima di tutto dobbiamo dare forza alla nostra fede.
È la fede che permette al nostro cuore di guardare oltre l’ostacolo.
La fede genera la speranza e la speranza produce la carità. Quindi tutto nasce da qui.
La paura è inversamente proporzionale alla fede. Più cresce la paura, meno c’è fede. Più cresce la fede, meno paura c’è.
I talenti della parabola sono, allora, la misura del nostro coraggio, della nostra disponibilità ad agire secondo l’amore. Mettono in luce la nostra capacità di dire: «Riconosco, Dio, quanto mi hai dato, riconosco le mie forze, investo i tuoi doni, investo i talenti perché voglio farli fruttare».
Questo passaggio, questo atto di riconoscimento, è la risposta di chi crede nella vita, di chi ha fede. Anche davanti al poco la nostra fede deve essere grande. Anche chi ha un solo talento può, se crede, farlo fruttare.
Nel Dio che ce l’ha donato possiamo trovare la forza di farlo fruttare, di condividerlo, di metterlo in comune.
È in Lui che possiamo trovare il coraggio per andare oltre la nostra paura, oltre le nostre paure, che si evidenziano ancora di più oggi nell’attuale fase che stiamo vivendo oggi, in questa difficile congiuntura storica, sociale ed economica.
La paura sta segnando profondamente, oggi, la nostra vita. Anche la vita della nostra Chiesa.
E in queste condizioni si finisce per non avere più fiducia nel futuro. Per questo è ancora più importante, oggi, l’innesto possibile della presenza e del ministero dei laici all’interno dell’azione pastorale.
Là dove ci sono situazioni di fatica e di difficoltà questo innesto è provvidenziale e fecondo.
Il secondo strumento per vincere la paura è quello di lasciarsi avvolgere dalla spinta positiva che tanta gente ha oggi intorno a noi. Si tratta di tornare a quello che dicevano i Santi: «allearsi tra i buoni».
Non basta essere buoni, bisogna creare una catena tra i buoni, bisogna creare un circolo, una rete.
Bisogna lavorare insieme, bisogna far sì che il mio talento si innesti con il tuo e il tuo con il mio: cinque talenti, più due talenti, più un talento.
L’ultimo servo della parabola non ha innestato il suo talento. Non si è collegato con gli altri due, ha lavorato da solo, si è isolato.
Il testo lo dice con chiarezza: «Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, allontanatosi scavò una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo signore».
Nel raccontare l’azione del primo servo e, per similitudine di comportamento, del secondo, Matteo scrive che “andò subito” a impiegare i suoi cinque talenti. Il terzo servo, invece, si “allontana”, si tira fuori dal gruppo.
Ecco, questo è il punto: l’isolamento accresce la paura. La relazione fa diminuire la paura, aiuta tutti noi a rischiare.
Se il terzo servo avesse mantenuto un legame con gli altri due, probabilmente avrebbe avuto il coraggio di non fare quello che ha fatto.
Il terzo elemento che aiuta a vincere la paura è: cinque talenti, più due talenti, più un talento.
È sommando i nostri doni, le nostre potenzialità che possiamo vincere la paura, liberare il nostro amore, costruire segni vivi di speranza.
Ed è a questa capacità di andare oltre le nostre forze che rimanda anche la parte conclusiva della parabola dei talenti.
Perché il signore dà il talento tolto al terzo servo a chi ne ha già dieci?
È una domanda che mi sono fatto spesso.
Credo ci sia qui il riconoscimento di una dimensione qualitativa che aiuta ad andare oltre anche nelle relazioni sociali: chi ha dentro un cuore grande è chiamato a portare il peso anche di chi non riesce a portare in fondo il suo compito.
Ecco, allora, che chi ha dieci talenti prende anche il peso dell’unico talento rimasto sterile.
Chi se la cava nella vita grazie ai doni grandi ricevuti dal Signore deve essere pronto a farsi carico anche delle fatiche degli altri. Il talento rimasto aggrava la responsabilità di chi ne ha già tanta.
Ma è una fatica che può essere assunta in pienezza, con il sostegno della fiducia di Dio che sa che chi ha dato tanto può dare ancora di più. Perché il cuore più generoso non ha limiti, il cuore che sa amare non ha confini. (Mons. Giancarlo Maria Bregantini)
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È possibile specificare che cosa sono i talenti?
Prima di rispondere mi soffermo su altre parole: dynamis, la traduzione capacità è un po’ equivoca: oggi si intende una capacità nel trafficare, fare ecc – dynamis è la misura stessa precostituita da Dio. Lc. 24,49; At. 1,5.8; 6,8: è la misura stessa dello Spirito che Dio assegna. 1Cor. 1,18-24:
La dynamis è la prevenzione divina attraverso il dono dello Spirito.
Allora i talenti?
Rm 12,3-6; 1Cor. 10,13: mi sono fissato su questo: il talento nel suo bene ultimo è il Figlio suo comunicato nella misura di fede che ci è data di Lui.
Gv. 6,26-28: questa è l’opera credere in colui che egli ha mandato.
Che cos’è questa opera Dio e il guadagno?
Fil. 3,6sg: irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge.
Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede.
Questo mi sembra il testo definitivo: il talento che Dio consegna è la misura di fede che è nel suo nucleo il Cristo. Quindi bisogna trafficare questa fede.
È la confessione del Cristo che genera la fede; è la fede che guadagna la fede.
Un contenuto di questa parabola, dato il posto in cui si situa, è fare crescere in noi la fede generando atti di fede e più specificatamente nella sua punta, la fede nel ritorno di Cristo. Questa interpretazione mi sembra sia una specificazione più legittima delle forme generiche usate da voi.
La dynamis è opera di Dio; il contenuto è la fede stessa come cognizione di Cristo che è data da Dio; il frutto è amore (cf. Gal. 5,6).
La fede è il termine, è l’attesa del suo ritorno (cfr. Rm. 1,17 da fede a fede).
Mi sono preoccupato di approfondire questo per sottolineare come l’operare – oggi considerato come espressione delle attitudini umane – sia in realtà l’operare nella fede.
Restano parecchi punti interrogativi soprattutto su ciò che non ho esaminato. Però questa interpretazione mi pare legittima: il Cristo ci è dato secondo la cognizione che abbiamo di Lui. … ( D. Giuseppe Dossetti – Appunti di omelia – Gerico, 19. 11. 1975 )
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