II Domenica di Avvento – La vita cristiana va di inizio in inizio, attraverso inizi che non hanno fine.
…. Nella storia di salvezza, la storia come Dio la legge, c’è un inizio, un ricominciare: quando Dio crea il cielo e la terra; quando la Parola di Dio inizia il suo percorso di incarnazione; quando inizia la vicenda di Gesù sulla terra; quando verrà il Signore Gesù nella gloria per darci cieli nuovi e terra nuova (cf. 2Pt 3,13; Ap 21,1)…
Leggendo questa dinamica, Gregorio di Nissa afferma che anche la vita cristiana “va di inizio in inizio, attraverso inizi che non hanno fine”.
Io amo ripetere che il cristianesimo, il Vangelo vissuto nella carne di uomini e donne, ricomincia sempre:
ancora oggi, come ieri e come domani, sempre si constaterà un rinascere, un ricominciare del Vangelo, che appare qua e là nella vita di alcuni che vogliono, tentano con tutte le loro forze di essere alla sequela di Gesù, sulle sue tracce (cf. 1Pt 2,21).
È il miracolo dei miracoli questo ricominciare del Vangelo vissuto, oserei dire della chiesa più vera, del fuoco del Vangelo che, conservato sotto la brace, ricomincia a divampare, a essere fuoco.
Ecco dunque “l’inizio del Vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio”, cioè della notizia bella e buona che è portata e rappresentata da Gesù di Nazaret, il Messia venuto da Dio e da lui inviato nel mondo, la sua Parola eterna fatta carne fragile e mortale (cf. Gv 1,14), il suo Figlio venuto tra gli uomini.
Il termine Vangelo (euanghélion) è attestato nella versione greca del profeta Isaia, nel passo che in questa domenica viene letto come prima lettura:
Nel rileggere queste pagine della Scrittura, su cui ogni anno ci avviene di meditare, sono rimasto particolarmente colpito dalla presenza, in ognuna di esse, di immagini contraddittorie tra di loro.
Nella prima lettura Isaia ci parla del Signore Dio che viene con potenza.
Egli detiene il dominio, i suoi trofei lo precedono. È un Dio potente, un Dio di guerra con i suoi trofei.
Subito dopo come un pastore Egli fa pascolare il gregge, porta gli agnellini sul petto.
Ecco una immagine di un Dio amoroso, tenero, senza segni di potenza.
Questa immagine contraddittoria, come abbiamo tante volte detto, appartiene alla nostra maniera di rappresentarci Dio: ora onnipotente e irremovibile, con un inferno accanto a sé per tutti i cattivi, ora tenero, pronto a perdonare tutti come il padre col figliol prodigo.
Così Pietro nella sua profezia ci parla, secondo un linguaggio apocalittico, di una terra che dovrà essere distrutta: «La terra con quanto c’è in essa sarà distrutta».
Ma subito dopo ci dice che noi aspettiamo «cieli e terra nuova» dove dimora la giustizia.
Questa contraddizione trova una sua rappresentazione umana nel brano con cui ha inizio il Vangelo di Marco nel quale campeggia Giovanni Battista vestito di peli di cammello con una cintura di pelle attorno ai fianchi.
Un asceta che si ciba soltanto di locuste e di miele selvatico.
Ma egli diceva che «sta per venire uno che non battezzerà in acqua ma in Spirito Santo» e del quale egli non è degno di sciogliere i calzari.
Colui che sta per venire, il Messia non rassomiglia al Dio onnipotente, con il braccio segno di potenza e con i trofei dinanzi a sé, è un re che entrerà nella città cavalcando un asinello, con mitezza e respingerà ogni ricorso alla forza.
È proprio la manifestazione di quel volto nascosto di Dio che ogni tanto ci avviene di scoprire con commozione interna: il Dio che è solo amore e non conosce la vittoria attraverso il potere..
Questo regno che nasce è un regno in cui davvero la giustizia e la pace si baciano.
In questo regno si entra per battesimo di Spirito Santo.
Ho voluto ricostruire schematicamente queste contraddizioni perché esse gettano una luce in una nostra esperienza umana dalla quale non possiamo uscire ed è una esperienza di una dura contraddizione: la contraddizione, per usare una formula classica, tra la pace e la giustizia che per realizzarsi ha bisogno della forza.
L’amore per la giustizia arma la mano, costruisce i carceri per i criminali.
Quella della giustizia è una passione terribile e necessaria, però è funesta perché sparge sangue.
Per aver la giustizia non si può accettare la pace e se poi vogliamo la pace dobbiamo disarmare le mani, tollerare l’ingiustizia.
Per amore della pace si fanno tante cose, si sopportano le ingiustizie.
Questi due frammenti della verità totale – la giustizia e la pace – non stanno mai insieme. Anche nelle provocazioni morali che riceviamo dalla nostra responsabilità pubblica siamo sempre di fronte a questo conflitto.(…)
Ho tracciato queste contraddizioni senza nessuna presunzione di dire qual è la via giusta, anzi per ribadire il concetto che non c’è una via giusta se non ci adattiamo a collocare queste due mezze verità – le chiamerò così – non in un rapporto di statica contraddizione ma in un rapporto di successione.
Dobbiamo muoverci verso una terra nuova ed un nuovo cielo e muoverci vuol dire mettere in atto tutte le possibilità per far partorire la terra: la verità nascerà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo.
Dobbiamo sentirci coinvolti in un processo genetico in cui la verità ci attrae – quella del Dio tenero come un pastore con gli agnelli, quello di Gesù che perdona il peccatore, che mangia insieme ai peccatori che non affida mai la redenzione dell’uomo alla durezza – sia una prospettiva verso cui siamo incamminati.
È una tribolazione quella di dover accettare la durezza per salvare la pace, di essere non pacifici per amore della pace.
È una contraddizione che dobbiamo soffrire, sia nell’ambito di una famiglia, in cui la pace esige spesso durezza, e poi nell’ordine internazionale.
E una dura scelta e tuttavia dobbiamo sentire che questa scelta se ha senso lo ha perché deve sbocciare, finalmente, nel trionfo della pace, in questa conciliazione fra giustizia e pace che è l’orizzonte che dà dignità ai nostri sforzi e perfino ai nostri contrasti fra di noi Queste scelte, infatti, sicuramente ci dividono e non dobbiamo demonizzare l’altra parte, chiamare quelli che vogliono la pace a tutti i costi come degli irresponsabili o dall’altra parte chiamare quelli che vogliono la fermezza come dei guerrafondai.
Dobbiamo sentire la contraddizione dentro il cuore, dentro di noi. (Ernesto Balducci – “dalle omelie inedite”.)
Gesù non è qualcuno che arriva per caso, ma giunge secondo la promessa fatta dai profeti, ed è colui che è atteso da quanti hanno ascoltato i profeti stessi. Gesù viene dunque preceduto da un messaggero, Giovanni il Battista, che gli prepara una strada e chiede di ritornare a Dio mutando il comportamento, cambiando la propria vita nel pensare e nell’agire. Ecco la metánoia, la conversione che esige di non fare più ciò che si faceva, di tralasciare di fare il male, di fare il bene secondo la volontà di Dio (cf. Is 1,16-17). Occorre cambiare, avere questo coraggio e questa forza per collocarsi in una novità di vita, in modo da poter incontrare colui che viene, il Signore veniente, colui che Dio ha inviato nel mondo, in mezzo all’umanità.
Per dire che erano convinti e che iniziavano questo nuovo cammino di accoglienza della buona notizia, molti andavano da Giovanni nel deserto e sigillavano questo nuovo inizio facendosi da lui immergere nelle acque del Giordano. In tal modo essi dicevano visibilmente che accettavano di seppellire il loro vivere mondano, ed erano tirati fuori dalle acque quali creature nuove, impegnati in una vita nuova, riconciliati con Dio che rimetteva, perdonava i loro peccati. Giovanni è il messaggero inviato da Dio davanti a Gesù, è l’uomo del deserto, dove si fa raggiungere dai credenti, perché nel deserto, luogo di solitudine e di spogliazione, potessero ascoltare la voce di Dio e discernere il Veniente (ho erchómenos), che è ormai vicino, imminente, tanto da poter essere annunciato dal precursore. Giovanni non ne dice il nome, ma lo indica come “il più forte che viene dietro di me”, che presto sarà rivelato, farà la sua comparsa. Per ora sta umilmente, come discepolo, dietro a Giovanni, il maestro, colui che immerge nell’acqua per sigillare la conversione e il perdono dei peccati da parte di Dio. Ma ecco, sta per venire, e il Battista quale messaggero e precursore deve annunciarlo e deve confessare di non essere degno neppure di slegargli i sandali: è il Veniente, mandato da Dio, munito della forza dello Spirito santo!
La chiamata di Giovanni ieri era rivolta ai giudei, annuncio di una buona notizia riguardante Gesù, il Veniente, il Messia, il Figlio di Dio. Ma questa chiamata riguarda ancora noi, oggi: vogliamo ascoltare la bella e buona notizia? Vogliamo convertirci e cambiare vita? Vogliamo andare incontro al Veniente, Gesù Cristo, nella forza dello Spirito santo? Vogliamo, in altre parole, ricominciare il cammino di conversione a Dio, fidandoci di Gesù, della sua buona notizia, fidandoci della forza dello Spirito santo che può trascinarci in questo cammino di ritorno a Dio e di comunione con lui? La buona e bella notizia, il Vangelo di Gesù Cristo, riesce a farci ricominciare la sequela sulle sue tracce?
Sì, il Vangelo vissuto non fa che chiamarci a ricominciare sempre, proprio come annuncia il vangelo secondo Marco con una significativa inclusione. All’inizio del vangelo, in Galilea, Gesù chiama degli uomini, dei pescatori (cf. Mc 1,16-20); alla fine il Risorto li chiama di nuovo, dopo le loro contraddizioni alla sequela e i loro misconoscimenti della sua buona e bella notizia: “Vadano in Galilea. Là mi vedranno” (cf. Mc 16,7). Dove li ha chiamati a cominciare, li richiamerà a ricominciare: è l’avventura cristiana, che sempre ricomincia! È Avvento, fratelli e sorelle, è ora di ricominciare! ( E.Bianchi )
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