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XVIII Domenica del T.O. – …La folla chiede il pane per sé e Gesù li invitava a farsi pane per gli altri.

Pane di vitaAl centro del Vangelo delle ultime domeniche, la figura – carica di tenerezza – di Gesù che va incontro alla folla.
Nella narrazione odierna la prospettiva muta: è la folla, saziata da Gesù, che si mette alla sua ricerca. (Monsignor Nunzio Galantino)
Ebbene ora la folla lo rincorre, ne va in cerca ( il verbo ‘ricercare’ nel vangelo di Giovanni è sempre negativo, è sempre per catturare, lapidare, uccidere Gesù )  e, quando lo trova, si rivolge a lui chiamandolo ‘Rabbi’.
Rabbi è il maestro della legge, non hanno compreso la novità proposta da Gesù, un rapporto con Dio completamente nuovo, non più basato sull’obbedienza della legge, ma sull’accoglienza del suo amore. ( A Maggi )
 Gesù vuole che il cercarlo e l’incontrarlo servano a cambiare qualcosa nella vita delle persone. Perciò, rivolto alla folla, esclama: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati». (Monsignor Nunzio Galantino)
E qui inizia un dialogo tra sordi, un dialogo all’insegna dell’incomprensione, perché la folla chiede il pane per sé e Gesù li invitava a farsi pane per altri. ( A Maggi )
 […] Dobbiamo rischiare per amore.
[…]  Gesù ha detto le parole più impossibili che mai siano state dette, ma sono le parole impossibili, precipitate nel nostro orizzonte storico, in cui noi riconosciamo il pane disceso dal cielo.
Per uscire dalle metafore: in questo nostro cammino noi non sviluppiamo un sogno senza fondamento, noi rispondiamo ad un appello.
La struttura profonda del cammino umano è dialogica, non è un monologo: dall’altra parte c’è la Parola.
Credere in questa Parola significa camminare sulle acque, come Pietro, andando verso l’approdo della universale fraternità umana.
Senza questo rischio vince il mondo perché il mondo vince quando si ha paura, come Pietro cominciò ad andare a fondo quando cominciò ad aver paura.
 Questa sicurezza non è però sventatezza, presunzione perché viene pagata nel quotidiano.
È una specie di dispendio di energie, personali e comuni, nel cammino verso l’adempimento delle promesse del Padre.
Allora anche l’Eucarestia trova senso, come un ripeterci insieme l’annuncio di quello che verrà.
Noi ne abbiamo fatto un rito di consumazione sacra, mentre dovrebbe essere il bivacco che noi facciamo per ricordarci insieme le ragioni per cui dobbiamo camminare.
 È questa la speranza che è stata seminata nel nostro cuore ed è una speranza ardua, perché mentre ne parlo è giusto che mi domandi: «La vedrò mai realizzata?».   So che devo rispondermi: No!
Devo camminare senza la sicurezza, senza la garanzia perché anche Mosè sperò di arrivare, ma non arrivò!
Questo andare vuol dire rispondere ad una voce del cielo, a una voce che viene dall’altra parte, che non è inscrivibile dentro definizioni umane, né contestabile con argomenti umani.
Questa è la grande sicurezza, che viene dalla manna che scende dal cielo ed è per questo che ci è possibile estendere, senza abbandonarci ad illusioni, un sentimento di fraternità attiva verso coloro che nel mondo, in condizioni così diverse dalle nostre, professano la stessa speranza, vivono le stesse battaglie e sanno che il loro obiettivo non è la rivoluzione, comunque essa sia, ma è l’adempimento di una fraternità in cui non ci siano sconfitti; in cui anche quelli che hanno esercitato il dominio dei faraoni, all’improvviso scoprano la gioia infinita che c’è nel sedersi alla mensa degli altri senza più segni di dominio.
Se questo avvenisse a tutti i livelli – in qualche misura avviene -, se abbandonassimo le distanze, i simboli del potere sacro e politico, se ci avvezzassimo allo stile della convivialità fraterna, quanta gioia verrebbe a noi da sorgenti incontaminate che sono quelle del cuore di Dio.
Ma noi siamo stati avvezzati a cercare in altri modi le nostre gioie, le nostre sicurezze e per questo siamo nel peccato.
Vorrei chiudere questa mia riflessione enunciando con profonda certezza di fede che le speranze degli oppressi, degli emarginati, dei milioni di bambini che muoiono, non saranno deluse.
 Le raccogliamo nelle nostre mani, diamo senso alla nostra vita impegnandoci a far sì che questa iniquità scompaia, anche se quello che facciamo è troppo inferiore a quello che potremmo fare.
Per questo quando diciamo che siamo peccatori non facciamo della retorica bigotta, facciamo una enunciazione scientifica: siamo tutti peccatori, tutti colpevoli.
Che Dio abbia misericordia di noi e abbiano misericordia di noi i fratelli che portano il peso di questa ingiustizia.  (Ernesto Balducci – da: “Gli ultimi tempi” – vol. 2)
 

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