XXIII Domenica del T.O. – Solo se noi ci riconosciamo, dinanzi all'escluso, all'emarginato, a nostra volta emarginati da una pienezza di misura umana, solo allora cominciamo ad imparare l'alfabeto della comunicazione.
Il cardinale Carlo Maria Martini ha più volte invitato a contemplare Gesù nel momento in cui sta facendo uscire un uomo dalla sua incapacità di comunicare. Si tratta della guarigione del sordomuto in pieno territorio della Decapoli (Alture del Golan). Sant’Ambrogio chiama questo episodio – e la sua ripetizione nel rito battesimale – «il mistero dell’apertura».
Dividiamo il racconto in tre tempi: la descrizione del sordomuto, i segni e gesti di apertura, il miracolo e le sue conseguenze.
La narrazione evangelica precisa anzitutto il disagio comunicativo di quest’uomo. E’ uno che non sente e che sì esprime con suoni gutturali, quasi con mugolìi, di cui non si coglie il senso. Non sa neanche bene cosa vuole, perché è necessario che gli altri lo portino da Gesù. …. (7, 31-32).
Ma Gesù non compie subito il miracolo. Vuole anzitutto far capire a quest’uomo che gli vuol bene, che si interessa del suo caso, che può e vuole prendersi cura di lui.
Per questo lo separa dalla folla, dal luogo del vociferare convulso e delle attese miracolistiche.
Lo porta in disparte e con simboli e segni incisivi gli indica ciò che gli vuol fare: gli introduce le dita nelle orecchie come per riaprire i canali della comunicazione, gli unge la lingua con la saliva per comunicargli la sua scioltezza.
Sono segni corporei che ci appaiono persino rozzi, scioccanti. Ma come comunicare altrimenti con chi si è chiuso nel proprio mondo e nella propria inerzia ? come esprimere l’amore a chi è bloccato e irrigidito in sé, se non con qualche gesto fisico? Notiamo anche che Gesù comincia, sia nei segni come poi nel comando successivo, con il risanare l’ascolto, le orecchie. Il risanamento della lingua sarà conseguente.
A questi segni Gesù aggiunge lo sguardo verso l’alto e un sospiro che indica la sua sofferenza e la sua partecipazione a una così dolorosa condizione umana. Segue il comando vero e proprio, che abbiamo scelto come titolo di questa lettera: “Effatà” cioè “Apriti!” (7, 34).
E’ il comando che la liturgia ripete prima del Battesimo degli adulti: il celebrante, toccando con il pollice l’orecchio destro e sinistro dei singoli eletti e la loro bocca chiusa, dice: “Effatà, cioè: apriti, perché tu possa professare la tua fede a lode e gloria di Dio” (Rito dell’Iniziazione Cristiana degli Adulti, n. 202).
Ciò che avviene a seguito del comando di Gesù è descritto come apertura (“gli si aprirono le orecchie”), come scioglimento (“si sciolse il nodo della sua lingua”) e come ritrovata correttezza espressiva (“e parlava correttamente”).
Tale capacità di esprimersi diviene contagiosa e comunicativa: “E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano“.
La barriera della comunicazione è caduta, la parola si espande come l’acqua che ha rotto le barriere di una diga. Lo stupore e la gioia si diffondono per le valli e le cittadine della Galilea: “E, pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti” (7, 35-37).
In quest’uomo, che non sa comunicare e viene rilanciato da Gesù nel vortice gioioso di una comunicazione autentica, noi possiamo leggere la parabola del nostro faticoso comunicare interpersonale, ecclesiale, sociale….
Il comunicare autentico non è solo una necessità per la sopravvivenza di una comunità civile, familiare, religiosa. E’ anche un dono, un traguardo da raggiungere, una partecipazione al mistero di Dio che è comunicazione. ( Carlo Maria Martini )
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Ripenso, in questo momento, ad un amico di molti di noi, a un testimone evangelico di gran valore come don Milani, che ha dato la parola ai muti e ha dato l’udito ai sordi. Però, per far questo, ha ricordato alle professoresse e ai professori, che erano loro i sordi e i muti.
E solo se noi ci riconosciamo, dinanzi all’escluso, all’emarginato, a nostra volta emarginati da una pienezza di misura umana, solo allora cominciamo ad imparare l’alfabeto della comunicazione.
Però è difficile, specie quando si paria da questi pulpiti, partire da questo dubbio radicale, da questa messa in sospetto di se stessi.
A volte è di moda questo sospetto, ma non è sincero. Noi ci aggrappiamo a spessori di linguaggio consolidato che ci rende accettabile e gradibile la consorteria degli omogenei. Ma ci rende incapaci di dir parole che abbiano un senso per sordi e muti.
Questa messa in crisi del linguaggio (e quindi, al di là del linguaggio, della coscienza) è un avvio di salvezza che ci porta a non sfuggire gli incontri che ci mettono in crisi. Il che non vuol dire cadere nello stesso vizio.
Noi abbiamo anche da salvare certe sicurezze, sia pure criticamente conservate; non possiamo rimettere a zero in assoluto i criteri morali del nostro comportamento. Lo possiamo fare a livello critico della coscienza. Soltanto allora ci accorgiamo che eravamo sordi ed eravamo muti.
Vi sarà capitato, ad esempio, (la casistica è molto diffusa) di aver ripensato poi, con una attenzione che in un primo momento vi sembrava impossibile, a parole dissacranti, offensive e sacrileghe che avevate ascoltato. A un certo momento quelle parole vi sono penetrate dentro.
Sembravano dettate da odio, da stoltezza e portavano, invece, un germe di provocazione sapienziale: aprivano le vostre orecchie, aprivano le vostre labbra a parole diverse. lo penso che per metterci in situazione evangelica, noi dobbiamo essere così.
Non dimentichiamoci che Gesù, che liberava i sordi e i muti – non solo in senso fisico, ma anche in senso morale e sapienziale – era considerato un pazzo, un folle.
Gesù non andava verso gli esclusi per conto del sistema, come può andare, non so, un maestro inviato dal ministero a fare la sua scuola in un villaggetto di montagna con un programma sorvegliato opportunatamente dalle autorità competenti.
Gesù non era inviato se non dal Padre, come dire da nessuno, a livello storico-sociale. Perciò egli era considerato un pazzo: diceva cose che turbavano profondamente i detentori delle tavole di saggezza.
Per questo fu vestito da pazzo prima della crocifissione.
Quella veste da pazzo non fu un episodio fortuito, ma il simbolo di come fu considerato dai contemporanei: un pazzo che diceva cose stolte.
Ebbene, proprio perché Egli si fece pazzo entrò nella sfera segreta della coscienza umana e ancora oggi ci dice parole che, certo, possono passare per pazze nei dovuti ambienti.
Ce ne sono ancora parole evangeliche pazze da non prendere troppo sul serio, perché altrimenti rischiamo di turbare quel minimo equilibrio sociale che pure abbiamo.
Questa pazzia ci è entrata dentro e sentiamo che da lì si potrebbe cominciare per capire che il bambino non è un recipiente da riempire di parole nostre, ma è un maestro da ascoltare; un emarginato, un degenerato, un peccatore pubblico: prima di essere oggetti da redimere, sono soggetti da ascoltare, voci che vengono da quel mondo che non conosciamo.
Questa passione per l’universalità umana abolisce la cattedra, i pulpiti, e le università, per mettere in primo piano una circolazione di sapienza i cui portatori non sono quelli con la patente. Sono dovunque, anche nei ghetti degli emarginati, anche tra i drogati.
È così che si rompe questo reciproco gioco di sordità, per cui chi ode, crede di udire, ma è sordo, e quello che crediamo sordo, invece ascolta e capisce molto bene.
Rompiamo questo gioco del codice culturale di cui siamo vittime e ritroviamo la umanità sorgiva, il ricominciamento da capo di cui parlavo prima, come metodo di esperimento umano ed evangelico richiesto sempre di più dalle attuali, tragiche circostanze.
Dico tragiche, se è vera la mia ipotesi, che questi sintomi di disgregazione della compattezza sociale sono appena un inizio di un processo che ci metterà dinanzi a separazioni più radicali.
Questo ricominciar da capo vuol dire farsi carico sul serio dei segni del tempo, letti alla luce del Vangelo.
(Ernesto Balducci – da: “Il mandorlo e il fuoco” – vol. 2)
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