XXX Domenica del T.O. – Il nostro nulla è lo spazio libero in cui Dio può operare, è il vuoto aperto alla sua azione
La parabola del Vnagelo di questa domenica XXX del T. O. ci presenta due uomini che salgono al Tempio a pregare. Stessa condizione iniziale, stesso luogo, stessa intenzione. (D. G. Berti )
Ma questi due uomini, che appartengono alla stessa comunità, hanno due modi completamente diversi di intendere e vivere la loro religione: il fariseo vive la religione come legge, il pubblicano vive la religione come grazia.
La vita religiosa del fariseo consiste nell’osservanza della legge, anzi: egli fa anche di più di quello che la legge esige : “Digiuna due volte alla settimana e paga le decime di tutto quello che possiedo” ( P. Ricca )
[ La preghiera del fariseo è] una preghiera vuota di fede, fatta più di “io” che di “Dio”, elenca una serie di adempimenti religiosi … ( D. G. Berti)
…. Nessun dubbio in lui, ma uno stare in piedi sicuro di stare davanti a Dio, a fronte alta, ignaro del fatto che può stare in piedi solo per grazia, perché reso figlio di Dio.
Il suo monologo dichiara lontananza dagli altri uomini ma anche lontananza da Dio, non conoscenza di lui, dal quale aspetta solo un “amen” alle sue parole. Annota con finezza Agostino: “Era salito per pregare; ma non volle pregare Dio, bensì lodare se stesso”.
È evidente che in una simile preghiera l’intero rapporto con Dio è pervertito: la chiamata alla fede è un privilegio, l’osservanza della Legge una garanzia, l’essere in una condizione morale retta un pretesto per sentirsi superiore agli altri. ( E. Bianchi )
[ L’altro “ protagonista” della Parabola è il Pubblicano, egli sta] in fondo, con la sua preghiera povera di “io” ma piena di “Dio”.
Se il pubblicano rimane lontano è per umiltà, cioè perché si riconosce per quello che è, cioè un essere umano in debito davanti a Dio e agli altri uomini, mentre il fariseo ribadisce la sua distanza con quel giudizio deciso e convinto “non sono come gli altri uomini…”
Sono così vicini ma così distanti questi due. Un abisso di giudizio e incomunicabilità che allontana anche Dio. ….
Dio però, con la sua misericordia che si è fatta carne (non è rimasta una parola rituale), sceglie il pubblicano, perché è lontano ed allontanato. (d. G. Berti )
Il pubblicano è un uomo non garantito da ciò che fa, anzi i suoi peccati manifesti lo rendono oggetto di disprezzo da parte di tutti. Egli sale al tempio nella consapevolezza di essere un peccatore, mendicante del perdono di Dio. Per questo Luca descrive accuratamente il suo comportamento, opposto a quello del fariseo. “Si ferma a distanza”, …. “non osa nemmeno alzare gli occhi al cielo”, ma li tiene bassi, vergognandosi della propria condizione … Le sue parole sono brevissime: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
È l’invocazione che ritorna più volte nei salmi (cf. Sal 25,11; 51,13, ecc.). …! È “la preghiera dell’umile che penetra le nubi” (Sir 35,21), che non spreca parole, ma che vive della relazione con Dio, della relazione con se stesso, della relazione con gli altri: chiede perdono a Dio, confessa il proprio peccato e la solidarietà con gli altri uomini e donne.
Egli si presenta a Dio senza maschere … non ha nulla da vantare, ma sa che può solo implorare pietà da parte del Dio tre volte Santo.
.. L’umiltà di quest’uomo non consiste nel fare uno sforzo per umiliarsi: la sua posizione morale è esattamente quella che confessa e dalla quale è umiliato! Non ha nulla da pretendere, per questo conta su Dio, non su se stesso.
E ciò vale anche per noi: il nostro nulla è lo spazio libero in cui Dio può operare, è il vuoto aperto alla sua azione; su chi è troppo “pieno di sé”, invece, Dio è impossibilitato ad agire…
Terminata la parabola, ecco il giudizio di Gesù: “Io vi dico che il pubblicano, a differenza dell’altro, tornò a casa sua reso giusto (da Dio), perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”. Quest’ultima sentenza proverbiale, già presente al termine della parabola sulla scelta dei posti a tavola da parte degli invitati a un banchetto (cf. Lc 14,11), echeggia le parole del Magnificat: “Il Signore innalza gli umili” (Lc 1,52).
L’umiltà non è falsa modestia, non equivale a un “io minimo”: non chi si fa orgogliosamente umile è innalzato da Dio, perché questo equivarrebbe a replicare l’atteggiamento del fariseo….
Attraverso la figura del pubblicano Gesù ci esorta a umiliarci nel senso di lasciarci accogliere e perdonare da Dio, che con la sua forza può curarci e guarirci; a non perdere tempo a guardare fuori di noi, scrutando gli altri con occhio cattivo e spiando i loro peccati; ad accettare di riconoscere la nostra condizione di persone che “non fanno il bene che vogliono, ma il male che non vogliono” (cf. Rm 7,19).
Il pubblicano non ha costruito né vantato una sua giustizia davanti a Dio e agli altri, ma ha lasciato a Dio la libertà di giudicare; a Dio si è affidato, invocando come unico dono di cui aveva veramente bisogno la sua misericordia.
Con una preghiera così breve e semplice è entrato in comunione con Dio senza separarsi dagli altri, e ora, perdonato, fa ritorno alla vita quotidiana nella compagnia degli uomini.
La parola conclusiva di Gesù, solennemente e autorevolmente introdotta da “Io vi dico”, fa di un giusto un peccatore e di un peccatore un giusto.
Il giudizio di Dio, narrato da Gesù, sovverte i giudizi umani: chi si credeva lontano e perduto è accolto e salvato, mentre chi si credeva approvato, accanto a Dio, è umiliato e risulta lontano.
Questo può apparire scandaloso, può apparire un inciampo nella vita di fede per gli uomini religiosi, ma è buona notizia, è Vangelo per chi si riconosce peccatore e bisognoso della misericordia di Dio come dell’aria che respira. ( E. Bianchi )
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