IV Domenica del T.O. – Dio spesso passa fuori dei nostri spazi ufficiali, attraverso voci che non hanno sempre i segni della consacrazione.
( Nel brano proclamato con la prima lettura – Dt 18,15-20 – ) vi è la contrapposizione tra gli indovini delle genti e i profeti. I cananei sono cacciati dal Signore dalla loro terra a causa delle loro abominazioni, tenute in atto dagli indovini, i quali mettono a contatto con il mondo dei demoni. Le loro pratiche cultuali crudeli e torbide non sono vinte dalla razionalità perché non sono irragionevoli ma appartengono alla sfera delle potenze spirituali e perciò l’unica forza che si contrappone è la Parola di Dio. … Se appunto le genti, che stanno per essere cacciate di fronte a Israele, si rivolgono agli indovini non così deve fare Israele perché non questo gli ha dato il Signore, ma, attraverso un uomo come Mosè (umile, mite e semplice), il Signore continua a dargli la sua parola.
Certamente la divinazione può attrarre di più l’uomo per il senso di mistero che la circonda nelle sue pratiche, di quanto non faccia la Parola di Dio che si serve di uomini, che annunciano senza particolari manifestazioni medianiche. Infatti anche all’interno dei profeti ci saranno i falsi profeti, che si presenteranno in nome del Signore come portatori di una parola, che in realtà scaturisce dalla politica dei capi del popolo e non dalla volontà del Signore. Della forza seduttrice di questi falsi profeti farà amara esperienza Geremia. In ogni istituzione entra il falso e l’ingannevole.
La discriminante è data dall’intervento del Signore, che sigilla con l’attuazione storica la vera profezia. Essa è posta pertanto in un futuro e quindi nel presente non elimina il confronto, l’arroganza e l’insulto da parte dei falsi profeti. … (d. U. Neri, appunti di omelia, Gerico, 28.1.1973).
Vorrei subito utilizzare il brano del Deuteronomio e quello di Marco per trarne alcune illustrazioni sul retto modo di intendere la nostra obbedienza a Dio.
È singolare che il popolo ebraico abbia chiesto di non vedere Dio, perché vederlo equivale a morire. È un linguaggio ridondante, iperbolico, che però ci mette subito dinanzi alla situazione di chi ha fatto di Dio l’oggetto di una ricerca e che soffre di non avere la certezza assoluta della sua esistenza.
Noi siamo figli di una cultura che ha avuto bisogno di prove, e che ha anche prodotto prove sull’esistenza di Dio.
Anche dentro la Chiesa, con un razionalismo di riporto, ci si è affaticati per sconfiggere l’ateismo adducendo prove inconfutabili che Dio c’è.
Questo conflitto non ha senso per l’uomo di fede.
È un conflitto culturale in cui l’oggetto della discettazione è nominalmente Dio, ma non è Dio.
Non basta chiamare in causa i concetti filosofici per definire Dio perché si sia sicuri che è di Lui che si discute.
Ogni oggetto della mente è prodotto dell’uomo.
Dio, noi lo conosciamo.
L’ateismo ci dà una grande lezione quando abbatte le nostre argomentazioni presuntuose.
In realtà l’atto di fede ci colloca oltre la linea di qua dalla quale si discute se Dio c’è o non c’è.
La fede è una constatazione smarrita o gioiosa, secondo i casi, della realtà di Dio, il Santo, Colui che non possiamo vedere perché ci sovrasta.
La presenza di Dio si fa avvertire attraverso un appello di cui solo la coscienza, se lo accoglie, sa la terribilità, la forza e la non dimostrabilità.
Nessun credente vero dimostra che Dio c’è. Lo vede, ne parla, lo presenta, ma non ha la presunzione di dire a chi lo ascolta di avere a disposizione argomenti convincenti.
Solo una specie di ateismo latente all’interno del mondo cristiano ha portato all’affannosa ricerca di argomenti validi.
E il popolo ebraico capovolgendo in modo paradossale questa tendenza sembra quasi aver chiesto a Dio, per contrasto, di non farsi vedere perché la sua presenza non si confà alla nostra vita di tutti i giorni: vedere Dio è come morire.
La sua assolutezza brucia la relatività delle nostre cose.
Al suo cospetto la storia è in combustione, non han più senso i ritmi della nostra esistenza. Dobbiamo difenderci dalla sua presenza.
E Dio allora decide di farsi presente suscitando i profeti.
Nel popolo ebraico c’era l’istituzione sacerdotale, c’era la Legge, e c’era il Tempio: ma tutto questo sembrava vuoto di Dio. Dio non si fa presente in modo inequivocabile attraverso le istituzioni che hanno una loro funzione, stabilita dalla fede, ma non sono affatto tramiti della manifestazione di Dio.
Solo la profezia lo manifesta.
Dio passa attraverso l’uomo; Dio ha deciso di farsi visibile nei nostri fratelli. Questa è la via di Dio.
Dio passa attraverso la testimonianza dei fratelli, di coloro che non appartengono alle aree del potere.
Il profeta non ha compromissioni col potere, non scende dagli altipiani della cultura: è colui che parla per abbondanza interiore, quasi per un mandato, e dice le cose che Dio gli ha chiesto di dire.
La profezia è dunque, sul piano storico, la libertà con cui Dio mette in scacco le istituzioni, le leggi e la sapienza. E sempre così è stato nell’antico popolo di Israele, ma, più di quanto non ce ne rendiamo conto, è vero così anche oggi.
Senza entrare in questioni teologiche che porterebbero fuori dalla essenzialità di questo discorso, è opportuno dirci con forza che noi siamo fuori dal giusto fuoco di concentrazione della nostra vita di fede, quando mettiamo al centro dei nostri riferimenti alla verità da credere le strutture e le istituzioni.
Là dove l’istituzione lega se stessa ai compromessi col potere – ed è una logica inevitabile, anche nell’antico popolo – la profezia l’abbandona.
E dove cercheremo Dio, allora? Dove?
Chi non ha occhi per vedere che Dio è libero e si fa gioco di tutti noi e che lo spazio vero in cui Dio cammina nel mondo è la libertà con cui suscita gli uomini (e non è detto che li susciti dentro il popolo d’Israele: anche fuori li suscita, come ci testimonia la Scrittura), costui non incontra mai Dio ma solo simulacri concettuali e immaginativi che sono vuoti, non dicono nulla all’uomo.
La nostra povertà religiosa è dovuta alla mancanza di questa profezia. Il profeta non annuncia – ci dice il Vecchio Testamento – cose sue come se fossero di Dio; non attribuisce al nome di Dio cose che Dio non ha comandato di dire.
E noi sappiamo quanti ci hanno comandato in nome di Dio cose che Dio non ci ha comandato; con quanta facilità Dio è stato chiamato in causa a difendere, magari, la proprietà privata.
Quante malizie in nome di Dio!
Il profeta è colui che svela questa grande menzogna.
Egli può essere, nella contingenza storica, anche ateo, nel senso che si oppone al simulacro divino con cui abbiamo coperto le nostre presunzioni.
Abbiamo alle spalle generazioni intere il cui Dio era diventato il gendarme dell’ordine costituito, e perché scandalizzarsi che qualcuno sia ateo se prima non ci scandalizziamo di aver ridotto Dio a fare da sigillo sacro ai nostri egoismi collettivi, alle nostre presunzioni colonialistiche?
Occorre stare attenti perché Dio spesso passa fuori dei nostri spazi ufficiali, attraverso voci che non hanno sempre i segni della consacrazione. (Ernesto Balducci –“Il mandorlo e il fuoco” – volume 2° – anno B)
[Nel brano del Vangelo di Marco proclamato in questa IV Domenica del T.O. lo scontro fra Gesù e lo Spirito impuro]
Il termine “impuro” non è casuale. È una parola che appartiene più alla chimica che all’etica. Il fatto che lo spirito sia de
finito “impuro” indica che include elementi diversi mescolati insieme. Lo spirito grida: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». Non c’è nulla di falso in questa affermazione. Gesù è veramente il Santo di Dio ed è venuto veramente a distruggere l’opera del demonio. Tecnicamente è ortodosso.
Chi ha detto che l’ortodossia sia un limite per la menzogna? Possono essere fatte cose terribili in “nome di Dio” con una pronuncia perfetta del Suo nome. È facile riconoscere il male se si manifesta apertamente. Quel che è difficile da dribblare sono le immagini false di Dio, le manipolazioni della sua opera, la spinta alla durezza quando ci sarebbe da usare misericordia o lo stimolo alla pazienza quando c’è bisogno di chiarezza e fermezza, o altre falsificazioni, ambiguità e mezze verità ( F. Rosini)
[Dal brano del Vangelo di Marco una considerazione]: è diabolico confessare la retta fede senza porsi alla sequela di Gesù! Lungo tutto il vangelo secondo Marco è testimoniata questa preoccupazione di Gesù circa la manifestazione della propria identità: non lo si deve divinizzare troppo velocemente, non si deve farlo perché incantati dai prodigi da lui compiuti, né si deve farlo perché ci si entusiasma di lui. Lo si potrà fare solo quando, avendo seguito Gesù fino alla fine, lo si vedrà appeso alla croce. Solo allora – attesta il vangelo – la confessione del lettore può essere vera, fatta in verità e con conoscenza profonda, insieme al centurione che, vedendo Gesù appeso al legno, proclama: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39). Il miglior commento è una parola di un monaco del XII secolo, Guigo I il Certosino: “Nuda e appesa alla croce deve essere adorata la verità”. ( E. Bianchi )
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