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Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini? ( da una riflessione di C.M. Martini )

Nel brano del Vangelo di domenica prossima ( XXIV del T.O. ) Pietro non accetta il mistero della Croce.
Da “Ritrovare se stessi ” di  C. M. Martini il tema del “ combattimento spirituale ”  abbiamo extrapolato un piccola parte che potrà essere utile nella lettura del Vangelo di domenica prossima.
 Aprendo il link accanto (” RITROVARE SE STESSI – Il combattimento spirituale”) si potrà leggere la “ riflessione “ nella sua interezza.
 
” Ci lasciamo aiutare dalla figura di Pietro che non accetta il mistero della croce….  Sempre a proposito di Pietro, leggiamo in Marco:
« Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarea di Filippo; e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: “Chi dice la gente che io sia?”. Ed essi gli risposero: “Giovanni il Battista, altri poi Elia e altri uno dei profeti”. Ma egli replicò: “E voi chi dite che io sia?”. Pietro gli rispose: “Tu sei il Cristo”. E impose loro severamente di non parlare di lui a nessuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare.
Gesù faceva questo discorso apertamente. Allora Pietro lo prese in disparte, e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: “Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” » (Marco 8, 27-33).
L’episodio è diviso chiaramente in due parti: la prima comprende le domande di Gesù ai discepoli; la seconda, il discorso della croce fatto da Gesù e la reazione negativa di Pietro.
Il contesto geografico del brano di Marco ci è dato rapidamente: Gesù parte, con i discepoli, verso i villaggi intorno a Cesarea di Filippo. Una zona che non è nominata altrove nei vangeli, e abitata, almeno sembra, da pagani. Gesù non è conosciuto in quei luoghi e nessuno si accorge di lui. Per questo può tranquillamente occuparsi dei suoi discepoli dedicandosi alla loro formazione.
L’interrogazione. Gesù li forma non solo attraverso insegnamenti, ma con esercizi pratici, facendo emergere da ciascuno degli apostoli qualcosa di importante. Qui, fa una domanda decisiva: «Chi dice la gente che io sia?» (v. 27).
La risposta evoca alcune figure di uomini di Dio, persone che parlano in nome del Signore, come appunto Giovanni Battista, Elia, altri profeti. La gente interpreta giustamente Gesù, secondo una categoria religiosa e profetica: è un uomo che è tra noi in nome di Dio.
La replica. Egli tuttavia insiste: «Ma voi chi dite che io sia?» (v. 29). Fin dove giunge, cioè, la vostra conoscenza di me? Possiamo pensare che alla nuova domanda segua un silenzio un po’ imbarazzato, timoroso, da parte degli apostoli. A un certo punto, però, c’è la folgorazione di Pietro: «Tu sei il Cristo». Gli altri sono profeti parziali, mediatori per tempi contingenti della storia; tu sei il mediatore assoluto, tu sei la chiave della storia, sei colui che riassume in sé tutta la storia precedente e spiega quella che verrà.
La risposta di Pietro è altissima, è un grande atto di fede. Gesù però non è soddisfatto. Non nega l’affermazione, ma vuole che non si parli di lui prima che abbia chiarito bene che cosa si deve intendere dicendo: “il Cristo”. Viene alla mente il discorso della Montagna: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Matteo 7) 21). Chi mi proclama Cristo non può pensare di essere salvo, se non comprende il significato di tale parola.
 
«Cominciò a insegnare che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire» (v. 31).
Si entra nella seconda parte del brano e Gesù inizia un insegnamento nuovo, mai fatto prima e che continuerà in seguito.
Nel cuore degli apostoli si crea smarrimento, perché “Figlio dell’uomo” è un titolo tratto da una famosa pagina del profeta Daniele, in cui il Figlio dell’uomo appariva dalle nubi del cielo, come il termine glorioso del cammino del popolo di Dio, come la risoluzione di tutte le tragedie storiche in una glorificazione dell’opera divina (cfr. Daniele 7, 13-14).
Secondo Gesù, invece, questo Figlio dell’uomo «doveva molto soffrire». La parola è dura, anche se rimane vaga, ed evoca dolore; il Cristo non ha anzitutto un destino di successo, di capacità di rovesciare tutto a suo favore.
E la sofferenza viene specificata: soffrirà nel senso che sarà riprovato. E brutto per un uomo essere respinto; possiamo avere delle malattie dolorose e però gli altri ci stanno vicini, ci accettano. La sofferenza di Gesù è più dolorosa perché si tratta di sperimentare la divisione, l’ostracismo, il rifiuto della gente.
Un rifiuto non da parte dei peccatori, di persone svagate che non conoscono Dio, ma da parte di tre categorie di uomini: gli anziani, i sommi sacerdoti, gli scribi. In termini a noi comprensibili, da parte del potere politico, religioso, intellettuale e culturale. Verrà messo al bando da tutto ciò che rappresenta il prestigio, la responsabilità pubblica e civile.
– E «poi venire ucciso». Gesù viene addirittura eliminato, e la sua missione si chiude così.
 
«E, dopo tre giorni, risuscitare». Ora il discorso è difficilissimo e travalica tutte le esperienze possibili. Perché soffrire tanto per poi risuscitare? Che cosa vuol dire risuscitare?
 
– Gesù «faceva questo discorso apertamente» (v. 32).
Le parole riversate nei cuori smarriti dei discepoli, fanno loro intendere che forse il Maestro aveva già accennato velatamente al tema. Cominciano a capire, ad esempio, le parabole precedenti: il regno di Dio è come un seme che viene calpestato dalla gente, soffocato dalle spine, beccato dagli uccelli. Gesù parlava della Parola, ma parlava anche di sé, della sua via alla croce. Il Regno dei cieli è come un granello di senapa, che nessuno considera, che si butta via, e a un tratto cresce, inaspettatamente. Gesù parlava di sé (cfr. Marco 4, 1-7.30-32).
Il discorso del regno di Dio si va chiarendo: è il discorso di Cristo, Messia, Signore, Salvatore, che passa attraverso la povertà e l’insignificanza spiegate in riferimento al Regno.

Gesù riprenderà continuamente, nel resto della sua vita, questo tema e lo riprenderà dopo la sua morte, in particolare nel vangelo di Luca parlando ai discepoli di Emmaus: «O stolti e tardi di cuore a credere a quanto avevano detto i profeti! Non bisognava che il Cristo soffrisse ed entrasse nella sua gloria? E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Luca 24,25-27).
Non è dunque un discorso di poche parole: soffrire, essere respinto, venire ucciso, risorgere. E sintetico e si può allargarlo richiamando l’insegnamento di Mosè e dei profeti.
E il discorso cristiano per eccellenza: tutta la Bibbia è da leggere come riassunta in Gesù crocifisso e risorto. «”Queste erano le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi”. Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture e disse: “Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno”» (Luca 24,44-46). Ecco il modo in cui le Scritture presentano Gesù. Ecco che cosa significano le parole: «Faceva questo discorso apertamente».
La Chiesa primitiva lo riprenderà, Paolo lo ripeterà, e costituisce l’affermazione centrale del Credo: «Per noi si fece uomo, patì sotto Ponzio Pilato, morì, fu sepolto, risuscitò secondo le Scritture».

Quando noi diciamo: Gesù è la soluzione di tutti i problemi umani, forse non comprendiamo davvero. Gesù risolve i problemi umani mediante la sua sofferenza, la sua morte, la sua risurrezione, e solo se lo seguiamo su questa strada con fiduciosa dedizione possiamo dire con verità quella espressione.
«Pietro lo prese in disparte, e si mise a rimproverarlo».
Che Gesù venga rimproverato da un apostolo è un caso unico nei vangeli. Un episodio simile accade nella casa di Betania, quando Marta rimprovera il Maestro perché la sorella non l’aiuta; ma Marta, in quel momento, è nervosa, irritata e butta fuori ciò che le viene in mente al primo colpo. Pietro, invece, no; Pietro ha fatto una professione chiarissima di fede. Tuttavia non fino a quel punto.
Che cosa avrà detto Pietro nel rimproverarlo? Penso ad argomenti che possiamo trovare, per esempio, nel libro di Giobbe: «Perché mi hai tratto dal seno materno? Fossi morto e nessun occhio m’avesse mai visto!»(Giobbe 10, 18). Oppure alle parole dei discepoli di Emmaus: Credevamo che costui redimesse Israele, che ci desse vittoria, trionfo, successo, e invece niente di tutto questo (cfr. Luca 24,21).
Pietro avrà avvertito Gesù che stava perdendo gli amici, che parlando così non si sarebbe fatto conoscere, che stava presentando un’immagine di sé e di Dio che gli apostoli non avrebbero accettato. Dio, diceva Pietro, è il Dio della gloria, il Dio della capacità di rovesciare i nemici, mentre tu parli di essere respinto, di perdere.
Siamo al momento drammatico del discorso della croce, perché l’uomo, anche l’uomo ecclesiastico come Pietro, vuole un Dio che sia solo successo, trionfo, e non accetta il seme che cade nella terra e muore, non accetta il lievito nella pasta, non accetta il granello di senapa.
«Ma Gesù, voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: “Lungi da me, satana!”» (v. 33).
È inaudito che nei vangeli il Signore chiami qualcuno “satana”. Non l’aveva mai fatto, neanche con i più grandi peccatori, neanche con gli scribi e i farisei. La sua è una parola incredibile, tagliente.
Che cosa intende dire? Intende dire che Pietro, respingendo il discorso della croce, rifiuta di aprire all’umanità le vie della vita. Proprio come satana che non vuole il bene dell’uomo, perché è dal principio omicida, invidioso, è colui che apre all’uomo le vie della morte.
C’è di più: tu, Pietro, – continua Gesù – credi di interpretare Dio, ma il mio Dio, il mio Padre ama l’uomo fino a dare il suo Figlio nella morte. Dio Padre ama tanto l’uomo da dare il suo Figlio anche se l’uomo lo respinge, ama tanto l’uomo da offrirgli ugualmente il perdono.
Qui è in gioco l’immagine stessa di Dio; un’immagine che in Pietro è ancora un po’ falsata, caricaturata, confusa, e che pure in noi, di fatto, è un po’ falsata portandoci spesso a conclusioni sbagliate sulla vita.
Noi, che professiamo nel Credo «Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra», non abbiamo la vera immagine di Dio fino a quando non abbiamo fatto questo passo cristiano-evangelico dell’ accoglienza della via della croce.
«Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».
 Viene richiamata la grande parola di Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (55, 8).
Pietro vuole distorcere le vie di Dio, gli dice come deve essere, come si aspetta che sia Dio. Ma è Dio che si rivela all’uomo: lo sono per te, sono con te, io sono Gesù crocifisso e risorto.
Dio si identifica con la figura del Crocifisso risorto, non con un qualunque idolo vittorioso, con un qualunque simbolo di benessere, con una qualunque promessa pseudo-messianica. Dio si identifica solo con Gesù, crocifisso, morto e risorto.
Il salto di qualità nella fede, richiesto a Pietro, è proposto a ciascuno di noi.
L’esistenza cristiana non significa offrirsi allo scacco, all’insuccesso, per un certo gusto masochistico della sofferenza. Esige invece una completa disponibilità del cuore, che accetti di essere rifiutata dagli altri e sia perseverante fino all’ultimo. Ne deriva che il cristiano non è coinvolto nella passione di Gesù per il mondo solo perché aiuta chi soffre, perché serve, perché è efficiente nella lotta contro l’ingiustizia, ma perché è disposto a lasciarsi mettere in questione come persona, a lasciarsi travolgere dalla vocazione evangelica fino a diventare egli stesso Parola rifiutata, messa a tacere.
Il massimo servizio che il cristiano può compiere è quello di Gesù: offrire la disponibilità di Dio per l’uomo, vivere la disponibilità dell’ ascolto e dell’ amore accettandone tutte le conseguenze.
In altre parole, il sacrificio cristiano è lasciarsi versare in libagione come scrive Paolo nella seconda Lettera a Timoteo (4,6) -, è l’offerta della propria vita e del proprio impegno.
Questo paradosso, difficile da esprimere, e delle cui formulazioni non dobbiamo mai abusare per facili ragionamenti, non è frutto dei nostri sforzi, ma è suscitato in noi dallo Spirito. E va però chiesto nella preghiera, nella supplica, nella quale soltanto giungiamo a comprendere qualcosa della passione di Gesù), della sua vita attraversata da tentazioni e da prove. E la tappa decisiva della conversione, che ci permette di entrare nella passione del mondo, dando un senso alle fatiche dell’uomo per migliorare il cammino dell’umanità. È il frutto del quotidiano combattimento spirituale.
 

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