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II Domenica di Pasqua – La resurrezione cancella tutti i segni della morte e del peccato ma non i segni dell’amore vissuto, perché l’amore vince la morte e aver amato ha una forza che trascende la morte.

Gesù e Tommaso
Il capitolo finale del vangelo secondo Giovanni, Gv  20 (Gv  21 è un’aggiunta posteriore), andrebbe letto tutto intero, per comprendere in profondità il primo giorno della settimana, il terzo giorno dopo la morte di Gesù, avvenuta il venerdì (sesto giorno) 4 aprile dell’anno 30 della nostra era. La menzione che quello era “il primo giorno” ritma tutto il racconto: la si ritrova all’inizio del racconto dell’apparizione alla Maddalena (Gv 20,1), all’inizio del racconto dell’apparizione ai discepoli (Gv 20,19) e poi è sottintesa nell’espressione “otto giorni dopo” (Gv  20,26).
Il primo giorno della settimana è il giorno della resurrezione del Signore ma è anche quello in cui il Risorto si rende presente in mezzo ai suoi: è il giorno del Signore, il giorno dell’intervento decisivo di Dio che, risuscitando Gesù, ha vinto la morte. Dal Nuovo Testamento sappiamo inoltre che proprio “il primo giorno della settimana” (At 20,7; 1Cor 16,2) è quello scelto dai cristiani per essere “nello stesso luogo” (epì tò autó: At 1,15; 2,1.44.47; 1Cor 11,20; 14,23), per essere assemblea di fratelli e sorelle insieme, che sperimentano la venuta del Risorto in mezzo a loro.
Scesa la sera di quel primo giorno, lo sconforto e lo scoraggiamento regnano nei cuori dei discepoli che non hanno creduto né a Maria di Magdala che ha annunciato loro la resurrezione di Gesù e l’incontro con lui (cf. Gv 20,18), né al discepolo amato che, al solo vedere il sepolcro vuoto, era giunto alla fede (cf. Gv 20,8). Ma Gesù aveva promesso loro: “Dopo la mia scomparsa, ‘ancora un poco e mi vedrete’ (Gv  16,16; cf. Gv 14,18)”, e fedele alla parola data “viene e sta in mezzo”. Gesù è visto dai discepoli in mezzo a loro, al centro della loro assemblea, come colui che crea e dà unità, che “attira tutti a sé” (cf. Gv 12,32). La comunità cristiana ha così la sua icona autentica: ha il suo centro solo in Gesù risorto, in modo che tutti guardino a lui (cf. Gv 19,37; Zc 12,10).
In quella posizione di Kýrios, di Signore, il Risorto dice allora: “Shalom ‘aleikhem! Pace a voi!”, il saluto messianico, parola efficace che porta pace, vita piena, e scaccia la paura. E affinché le parole siano autenticate dalla sua persona di Maestro, Profeta e Messia conosciuto dai discepoli nella loro vita insieme a lui, Gesù mostra le mani e il fianco che portano ancora i segni della sua passione e morte (cf. Gv 19,34). Visione paradossale: Gesù è presente con un corpo che non è un cadavere rianimato ma che viene anche a porte chiuse, non obbedendo alle leggi del tempo e dello spazio; un “corpo di gloria” (Fil 3,21), un “corpo spirituale” (1Cor 15,44.46), nel quale però restano i segni della passione, dell’aver sofferto la morte per amore. Sono segni di passione e insieme di gloria, di vittoria sulla morte, segni dell’amore vissuto “fino alla fine, all’estremo” (eis télos: Gv 13,1). A quelli che temono di essere perseguitati, Gesù si mostra come il perseguitato che è rimasto fedele e che, vincitore della morte a causa del suo amore fedele e pieno, può venire in mezzo a loro portando pace, saldezza e forza.
“E i discepoli gioirono al vedere il Signore”. Accade ciò che Gesù aveva profetizzato: “Ora siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà rapirvi la vostra gioia” (Gv 16,22). In questa nuova situazione della comunità, il Risorto, che aveva promesso di non lasciarla orfana (cf. Gv 14,18) e di donarle un altro Consolatore (cf. Gv 14,16), fa il dono dei doni, il dono per sempre. Ripete il saluto “Pace a voi!” e annuncia: “Come il Padre ha inviato me, anche io invio voi”. I discepoli hanno accolto l’Inviato di Dio, lo hanno seguito e hanno creduto in lui; ora sono anch’essi inviati in tutto il mondo, per essere come lui, Gesù, è stato in tutta la sua vita: testimoni della verità, della fedeltà di Dio, cioè del suo amore per l’umanità. Con la loro vita devono mostrare che “Dio ha tanto amato il mondo da donargli il suo unico Figlio” (Gv 3,16). È solo questione di vivere l’amore di Gesù Cristo per l’umanità: chi è inviato deve diventare volto, bocca, mani, orecchi di chi lo ha inviato, e così i discepoli devono essere corpo di Cristo tra gli altri, nel mondo.
Per essere abilitati a questa missione, devono essere ricreati, rigenerati: occorreva un’immersione nello Spirito santo, occorreva lo Spirito come nuovo soffio nel cuore di carne (cf. Ez 36,26), occorreva una nuova creazione (cf. Is 43,18-19). Allora Gesù, il Risorto che respira lo Spirito santo, lo effonde sulla sua comunità. Se questo Soffio santo è soffio vitale per Gesù, una volta alitato sui discepoli diventa il loro soffio vitale: un solo Soffio, un solo Spirito in lui e in loro! Noi cristiani, vasi di creta fragili e peccatori (cf. 2Cor 4,7), per dono di Gesù risorto respiriamo lo Spirito santo che a noi dà la vita, perdona i peccati, ci abilita alla vita eterna nel Regno di Cristo. Siamo dunque il corpo di Cristo, il “tempio dello Spirito santo” (1Cor 6,19). Questa per il quarto vangelo è la Pentecoste, la chiesa dono dello Spirito santo alitato dal Risorto. Lo stesso Spirito che ha risuscitato da morte Gesù (cf. Rm 1,4; 8,11) è datore di vita ai discepoli, e da “compagno inseparabile di Cristo” (Basilio di Cesarea), diventa compagno, amico inseparabile per ogni cristiano. È lui, presente in ogni discepolo e discepola, che ricorda le parole di Gesù (cf. Gv 14,26), che lo rende presente e testimonia che egli è il Signore (cf. 1Cor 12,3).
Lo Spirito santo, Spirito di Dio e Soffio di Cristo, ci è donato nella nostra condizione di corpo umano, di carne. Non si dimentichi che nel quarto vangelo la carne (sárx) è il luogo dell’umanizzazione di Dio: “La Parola si è fatta carne” (Gv 1,14). Per Giovanni la carne non è, come per Paolo, luogo di tentazione e di peccato, ma è luogo non disprezzabile né indegno, perché scelto da Dio per stare con noi e in mezzo a noi. La carne è luogo di conoscenza a servizio della Parola di Dio che la abita: ecco la dimora dello Spirito santo. Per questo, come Gesù è stato concepito carne dallo Spirito santo e da una donna, così anche la chiesa è generata da Spirito santo e da umanità e del soffio dello Spirito fa il suo respiro.
Ma questo ha una ricaduta decisiva nella vita dei cristiani: significa remissione dei peccati, perché l’esperienza della salvezza che possiamo fare qui e ora nella storia, prima della trasfigurazione di tutte le cose nella gloriosa venuta di Cristo, è l’esperienza della remissione dei peccati. Lo cantiamo ogni mattina nel Benedictus: “… per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati” (Lc 1,77). Ricevere lo Spirito santo è ricevere la remissione dei peccati, cioè vivere quell’azione del Signore che non solo perdona, ma cancella, dimentica i nostri peccato, facendo di noi delle creature nuove (cf. Ger 31,34; Ez 18,22; 33,16). Questa è l’epifania della misericordia di Dio, quell’amore di Dio profondo, viscerale e infinito che, quando ci raggiunge, ci libera dalle colpe e ci ricrea in una novità che noi non possiamo darci! La comunità dei discepoli è la comunità del perdono reciproco, e non solo in quanto comunità che ha la capacità di cancellare il peccato. Questa capacità viene data a tutti i discepoli da Gesù ed essi la mantengono e la esercitano fino a quando sono in comunione con lui per mezzo dello Spirito santo. Si faccia attenzione a non intendere questo testo solo come il fondamento del sacramento della riconciliazione. La capacità di rimettere i peccati, cioè di liberare dalla colpa e di fare misericordia, è data da Gesù a tutti i discepoli: non solo agli Undici, perché nel cenacolo il giorno di Pentecoste ci sono anche le donne, c’è Maria insieme ad altri discepoli e discepole (cf. At 1,13-15; 2,1).
Gesù, “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29), battezzando nello Spirito santo (cf. Gv 1,33) i discepoli, li abilita alla sua missione: perdonare, fare misericordia, riconciliare con Dio e con i fratelli e le sorelle. Dalla croce e dalla resurrezione l’umanità è stata riconciliata con Dio, ma tale evento va annunciato a tutti, e i discepoli sono inviati per questo: dove giungono, devono manifestare e far regnare la misericordia di Dio, devono vivere il comandamento ultimo e definitivo dell’amore reciproco (cf. Gv 13,34; 15,12), devono rimettere i peccati gli uni agli altri, abilitati dunque a chiedere il perdono dei peccati a Dio. Dove c’è un cristiano autentico, c’è un ministro della misericordia che fa arretrare il male e il peccato e fa regnare la misericordia.
E sia chiaro: le parole di Gesù che accompagnano il gesto del soffiare lo Spirito – “A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” – sono espresse attraverso uno stile tipicamente semitico che si serve di due espressioni contrastanti per affermare con più forza una realtà. Non significano dunque un potere che i discepoli potrebbero utilizzare secondo il loro arbitrio e il loro giudizio; al contrario, esprimono con forza che il loro compito è la remissione dei peccati, il perdono, la misericordia, come lo è stato per Gesù, che in tutta la sua vita non ha mai condannato, ma ha sempre detto di essere venuto non per giudicare e condannare (cf. Gv 8,15; 12,47), ma perché tutti “abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv  10,10).
“Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”, dove questo “come” rimanda anche a uno stile, al punto che potremmo pure parafrasare: “Come io ho rimesso i peccati, anche voi dovete rimetterli; è con questo compito che vi mando”. È ciò che Gesù ha affermato in modo riassuntivo, secondo Luca, all’inizio del suo ministero pubblico nella sinagoga di Nazaret:
Lo Spirito del Signore è sopra di me
perché egli mi ha unto
mi ha inviato ad annunciare ai poveri la buona notizia
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista
a mandare in libertà gli oppressi
ad annunciare l’anno di misericordia del Signore (Lc  4,18-19; cf. Is 61,1-2).

Fatta questa esperienza, i discepoli annunciano a Tommaso, non presente alla prima manifestazione del Risorto: “Abbiamo visto il Signore!”. È l’annuncio pasquale che dovrebbe essere sufficiente per accogliere la fede nel Risorto. Ma Tommaso non crede, quelle parole gli sembrano vaneggiamenti inaffidabili, quindi replica con forza: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo”.
Ma “otto giorni dopo”, dunque nel primo giorno della seconda settimana dopo la tomba vuota, ecco Tommaso e gli altri discepoli di nuovo insieme, in quella casa a Gerusalemme. È il primo ma anche l’ottavo giorno, giorno della pienezza, del compimento. I discepoli, che vivono ormai da una settimana in questo nuovo tempo iniziato dalla resurrezione, continuano a dimorare nella paura degli uccisori di Gesù. Dovrebbero con franchezza portare l’annuncio pasquale a tutta Gerusalemme e invece, nonostante l’invio in missione, nonostante il dono dello Spirito santo, restano al chiuso, dominati dalla paura. Ma Gesù si rende di nuovo presente: “Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: ‘Pace a voi!’”. Ecco la fedeltà di Gesù che viene, che è il Veniente tra i suoi anche quando essi non lo meritano e non sono in sua attesa. Egli viene in mezzo ai suoi, non si stanca di venire, facendo rinascere sempre la chiesa e la testimonianza della sua resurrezione. Innanzitutto consegna la pace, “la sua pace, non quella del mondo” (cf. Gv 14,27), poi si rivolge a Tommaso, “detto Didimo”, il “gemello” di ciascuno noi. Sì, Tommaso è il gemello in cui dovremmo specchiarci nei nostri entusiasmi in cui arriviamo a dire: “Andiamo anche noi a morire con lui!” (Gv  11,16), così come nei nostri momenti oscuri, in cui non riusciamo a credere, ad aderire, a mettere fiducia nel Signore. Tommaso è il gemello nel quale c’è, come in noi, la logica del voler vedere per credere, del constatare, dell’avere prove. Tommaso è come noi: quando si profila l’evento della resurrezione, vediamo morte (cf. Gv 11,15-16); quando Gesù annuncia che ci precede, non sappiamo quale sia la via (cf. Gv 14,2-6); quando dobbiamo fidarci della testimonianza dei nostri fratelli e sorelle, vogliamo essere quelli che vedono e decidono…
Gesù viene però anche per Tommaso, pecora smarrita cercata dal pastore, e anche a lui si fa vedere con i segni del suo amore: le stigmate della sua passione impresse per sempre nella sua carne gloriosa. La carne di Gesù, corpo di uomo, è passata attraverso la passione e morte, e ciò che egli ha vissuto resta anche nella sua carne di corpo glorioso. La resurrezione cancella tutti i segni della morte e del peccato ma non i segni dell’amore vissuto, perché l’amore vince la morte e aver amato ha una forza che trascende la morte. Tutta la cura dei malati che le mani di Gesù hanno praticato, tutte le carezze che egli ha dato, tutto il suo amore vissuto nel cuore, tutte le forze sprigionate dal suo seno sono visibili anche nel suo corpo risorto. Gesù dunque invita Tommaso ad avvicinarsi e a mettere il suo dito in quelle stigmate.
E qui, attenzione, non sta scritto che Tommaso mise il suo dito nei buchi delle mani e nella ferita del costato, ma che disse: “Mio Signore e mio Dio!”. Riconoscendo l’amore vissuto da Gesù, di cui le stigmate sono il segno perenne, Tommaso crede e confessa: “Ho Kýriós mou ho Theós mou!”. Gesù risorto è il Kýrios; di più, è Dio. Il Signore di Tommaso è il Dio di Tommaso. Non c’è confessione di fede più alta in tutti i vangeli. Questa è la proclamazione più piena e schietta: Gesù è il Signore, Gesù è Dio. Ecco perché chi vede Gesù, vede il Padre (cf. Gv 14,9); ecco perché Gesù è l’esegesi del Dio che nessuno ha mai visto né può vedere (cf. Gv 1,18); ecco perché Gesù è “il Vivente” (Lc 24,5) per sempre. Tommaso non è certo un modello, anche se in lui possiamo riconoscerci. Per questo Gesù gli dice: “Beati quelli che, senza avere visto, giungono a credere”. Non vedendo, non constatando, ma contemplando il Crocifisso, dunque conoscendo il suo amore vissuto, si inizia a credere. Miracoli, visioni, apparizioni non ci fanno accedere alla vera fede. Solo la parola di Dio contenuta nelle sante Scritture, solo l’amore di Gesù di cui il Vangelo è annuncio e narrazione (“segno scritto”, per dirla con la chiusura del vangelo), solo lo stare nello spazio della comunità dei discepoli del Signore, ci possono portare alla fede, ci possono far invocare Gesù quale “mio Signore e mio Dio”.
Tutto questo capitolo 20 del quarto vangelo è un canto alla misericordia del Signore che viene alla sua comunità con il perdono, con la remissione dei peccati, con la pazienza di un Dio che ci ama sempre, anche quando noi non lo meritiamo ed esitiamo a credere in lui.  ( E. Bianchi )
 

Pasqua di Risurrezione – Giovanni, vedendo che il sepolcro era vuoto e tutte le bende ben accostate, credette

Resurrezione M VIl Vangelo è molto semplice e molto bello: l’incontro col sepolcro vuoto, non ancora col Signore, da parte delle donne che portano i profumi e gli aromi, poi un primo andarsene e la corsa ai discepoli, poi la corsa degli stessi discepoli e il loro incontro con il sepolcro vuoto, una  certa  percezione  di  fede, in  particolare di Giovanni, che entrato, vedendo che il sepolcro era vuoto e tutte le bende ben accostate, credette (cf. Gv 21,1 ss)
  Tutto questo è molto bello e sappiamo la grande importanza che ha il sepolcro del Signore nella testimonianza cristiana primitiva e nella tradizione cristiana, nella effusione di grazia in tutta la Chiesa ancora oggi.   
 Però questo Vangelo, importante per le cose che dice, lo è ancor di più per quello che non dice.
In fondo le donne e gli apostoli col Signore proprio non si incontrano, perché il modo giusto per incontrarsi col Signore risorto non è ancora venuto.
.. Questo modo è anticipato in  At 10,40-41 :  ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che apparisse,  non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti. .. dove Pietro fa un riepilogo grandissimo della catechesi cristiana fondamentale, in questa occasione particolarmente risolutiva, poiché rivolta non più ai giudei ma ai gentili.
   E sappiamo bene che nello sviluppo della giornata pasquale l’incontro primario col Signore si verifica in occasione di un incontro conviviale: i due discepoli di Emmaus, i discepoli stessi e gli apostoli nel cenacolo la sera di Pasqua lo incontrano mangiando, e così fino all’apparizione  sulle rive del lago di cui parla il cap 21.  
….  L’apparizione ecclesiale, per così dire formale, è però quella in cui il Signore si rivela risorto a tutta la comunità, quella in cui investe alcuni in particolare della funzione e della grazia di annunziare a tutto il mondo la sua risurrezione e di effondere su tutto il mondo la vita di Cristo risorto. 
….  Maria Maddalena e gli apostoli avevano già il mistero di Dio dentro il cuore.
E’ questo mistero di Dio che li trascina lì; loro credono di andarci per certi motivi – motivi che , fra l’altro, in sé sarebbero incompatibili con la fede in questo mistero – ma in realtà, nel più profondo del loro essere, il mistero è più forte di tutte le loro intenzioni esplicite e dichiarate.
C’è qualcosa che ormai ha preso possesso di loro e li domina. Che cosa sia ce lo dice San Paolo in Rm 6,8-9  “Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui,  sapendo che Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui.”  
( Da “ Omelie e istruzioni pasquali” di Don Giuseppe Dossetti )

Omelia Messa Crismale del nostro Vescovo Vincenzo

Manzella storyLa Messa Crismale di quest’anno assume un tono particolare perchè la celebriamo nel segno del Giubileo straordinario della misericordia che ci vede tutti coinvolti a tenere spalancata la porta del nostro cuore e a vivere nello spirito del buon samaritano.
Saluto tutti affettuosamente e vi ringrazio per la vostra presenza così significativa. Saluto voi carissimi presbiteri che celebrate assieme a me il giorno più caro per il nostro sacerdozio; saluto voi religiosi, religiose, diaconi, seminaristi, giovani e ragazzi che vi preparate alla cresima, popolo santo di Dio.
Nella Sinagoga di Nazareth quanti hanno ascoltato Gesù che ha proclamato la pagina del Profeta Isaia, rivolgono a lui lo sguardo: “gli occhi di tutti erano fissi su di lui” (Lc 4,20).
Quello sguardo fisso su Gesù invita tutti noi in questa Messa Crismale a rivolgere il nostro sguardo a Cristo Pantocratore.
Come Chiesa riunita attorno al suo Vescovo e al suo presbiterio, mentre i nostri occhi contemplano la soavità del volto di Cristo, percepiamo che sono i suoi occhi a rimanere fissi su di noi come a volerci portare indietro negli anni quando con sguardo di predilezione ci sceglieva per metterci alla sua sequela e al suo servizio.
Ci sentiamo guardati e amati da lui. Uno sguardo, quello di Cristo, che si posa su ciascuno di noi in modo diverso, secondo la storia di ognuno e la varietà dei carismi.
Con lo sguardo di Cristo e nello sguardo di Cristo la nostra Chiesa è chiamata a restituire lo sguardo misericordioso di Dio ai poveri, agli ultimi, a quanti soffrono nel corpo e nello spirito.
Oggi lo spirito ci ha condotti qui in questa nostra Cattedrale come per un bisogno di tornare alle origini per ricominciare con lo slancio e l’entusiamo degli inizi.
Mi rivolgo soprattutto a voi carissimi sacerdoti e assieme a voi rendo grazie a Dio per il dono ricevuto e per la ricchezza delle promesse fatte nel giorno dell’Ordinazione sacerdotale.
Rinnoveremo le nostre promesse e in quel “sì, lo voglio” vogliamo non solo riaffermare la fedeltà alla sequela ma vogliamo riscoprire tutta la freschezza e la gioia di esserci consacrati a lui.
Tutto questo lo faremo davanti al popolo santo di Dio, perchè sia tutto il popolo ad implorare per noi fedeltà e perseveranza, rettitudine di cuore e totale dedizione.
Il popolo santo di Dio prenda a cuore il ministero dei propri pastori e si senta responsabilizzato e coinvolto nel custodire la nostra vita sacerdotale e i nostri impegni.
Per un solo momento riprendo per voi e per me, carissimi sacerdoti, l’immagine dello sguardo. L’origine del nostro sacerdozio ci rimanda a quello sguardo di Gesù che si è posato su di noi in modo specialissimo. Guardati da lui, teniamo fisso il nostro sguardo su colui che porta a compimento la sua opera in noi.
Rimanere nel suo sguardo soprattutto nei momenti di stanchezza, di delusione, ci difenderà da tante distrazioni che molto spesso rischiano di offuscare la nostra esistenza sacerdotale.
“Guardate a lui e sarete raggianti, non saranno confusi i vostri volti”: così ci esorta il salmista nel salmo 34, 6. Ma soprattutto così mi pare di intuire che la gente si attenda da noi. La gente vuole incontrare nel nostro sguardo, lo sguardo di Gesù.
Durante il recente viaggio in Africa, nel novembre scorso, Papa Francesco ha incontrato più volte i sacerdoti. E in tutte le occasioni, anziché leggere il discorso scritto, ha preferito parlare con il cuore a braccio cavalcando lo sguardo di Gesù.
A Nairobi, in Kenia, in particolare il suo discorso, sempre a braccio, è apparso come una summa di indicazioni per quanti hanno intrapreso la via del sacerdozio.
Innanzitutto, ha sottolineato, che la vocazione è iniziativa di Dio. Il Signore ci ha scelti. Lui ha iniziato la sua opera in noi il giorno in cui ci ha guardato nel battesimo, il giorno in cui ci ha guardato e ci ha detto: “se hai voglia vieni con me”. E allora ci siamo messi in fila e abbiamo cominciato il cammino. Ma in verità il cammino lo ha iniziato lui con noi . È sempre lui che chiama, è lui che comincia, è lui che fa il lavoro.
Si diventa preti non per interesse. Il Papa mette in guardia quelli che vogliono seguire il Signore per qualche interesse. È la tentazione di seguire Gesù per ambizione. Nella sequela di Gesù non c’è posto per la propria ambizione, né per essere una persona importante nel mondo. Lasciarsi scegliere da Gesù è lasciarsi scegliere per servire il popolo di Dio e non per essere servito. La Chiesa è un mistero: è il mistero dello sguardo di Gesù su ognuno di noi a cui dice: “seguimi!”. É chiaro evidentemente che quando Gesù ci sceglie non ci “canonizza”. Continuiamo ad essere gli stessi peccatori. Il Papa ha ricordato che perfino Pietro rinnegò Gesù, poi si riconobbe peccatore, incrociò lo sguardo di Gesù, si pentì e pianse.
Piangere dunque è importante per un sacerdote. Quando a un sacerdote si seccano le lacrime c’è qualcosa che non funziona. Piangere per le proprie infedeltà, piangere per la gente che è scartata, piangere per il dolore del mondo; piangere è sempre una forte emozione che è segno di vita.
Il Papa poi procede sempre a braccio con una raccomadazione insistendo sull’importanza della preghiera. Mai allontanarsi da Gesù. Un sacerdote che non prega è un’anima brutta! Perdonatemi, ma è così. A questo punto il Papa ha invitato i sacerdoti ad un esame di coscienza: quanto tempo dedico alla televisione, al cellulare, al computer a discapito della preghiera?
Il Santo Padre conclude il suo intervento con un caloroso e affettuoso grazie a tutti i sacerdoti per il prezioso ministero che svolgono: “grazie per avere il coraggio di seguire Gesù, grazie per ogni volta che vi sentite peccatori, grazie per ogni carezza di tenerezza che date a quelli che ne hanno bisogno, grazie per tutte le volte in cui avete aiutato le persone a morire in pace, grazie per tutte le volte che date speranza nella vita, grazie perchè vi siete lasciati aiutare, correggere e perdonare ogni giorno”. La gratitudine del Papa è la mia gratitudine.
Un’ultima riflessione sullo sguardo. Vivere guardando a lui deve far si che ci guardiamo anche diversamente tra noi. Se l’origine fondamentale della nostra fraternità è il suo sguardo posato sulla nostra umanità, se siamo figli di questo stesso sguardo di misericordia, dobbiamo imparare a guardarci con occhi nuovi, a stimarci e a sorreggerci gli uni gli altri.
Nessuna comunità presbiterale è perfetta ma ciascuno di noi ha la responsabilità di dare il suo contributo per costruirla e ricostruirla ogi giorno. Il nostro ministero è autentico nella misura in cui ciascuno agisce come parte di un corpo che è il corpo sacerdotale unito al suo Vescovo.
Oggi noi siamo venuti qui per affermare e consolidare il nostro esserci da sacerdoti a servizio della Chiesa. Vana sarebbe la nostra opera, per quanto possa essere preziosa agli occhi degli uomini, se portata avanti da condottieri solitari. A volte ci perdiamo nei meandri delle nostre solitarie avventure credendo di essere eroi di una esistenza che solo noi abbiamo capito e solo noi possiamo vivere fino in fondo.
Non è così, carissimi fratelli sacerdoti, non può essere così! Siamo chiamati oggi a ritornare alle sorgenti della vera comunione, siamo chiamati a ricominciare insieme perchè noi siamo tatuati nelle mani di Dio, come dice il profeta Isaia: “Io non mi dimenticherò mai di te perchè ti ho tatuato nelle mie mani”.
Consacrando gli oli vogliamo consacrare i segni di questo tatuaggio. Ciascuno di noi ha ricevuto il sigillo dello Spirito Santo con l’olio consacrato, il crisma. Oggi tutti possiamo ripetere: “Il Signore mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato…”. Noi siamo tatuati nel cuore di Dio. Noi tatuati nello spirito e nella carne perchè segnati con il sacro crisma, siamo chiamati a riconsacrare la storia per offrirla trasfigurata a Dio.
Siamo chiamati ad essere strumenti della misericordia nell’esercizio del sacramento della riconciliazione.
Anche voi carissimi fedeli laici, popolo santo di Dio, siete tatuati perchè segnati con gli oli della messa crismale il giorno del vostro battesimo e della vostra cresima.
Nell’arco della nostra vita la Chiesa, attraverso il ministero sacerdotale, ci accompagna nel nostro cammino con i segni sacramentali. Dalla culla alla tomba veniamo segnati con gli oli consacrati nella messa Crismale: l’olio dei catecumeni che precede il battesimo, il sacro crisma che profuma la nostra esistenza di credenti e l’olio degli infermi a conforto della nostra sofferenza.
Mi piace concludere ricordando alcuni giubilei sacerdotali che ricorrono quest’anno: il 60° di ordinazione sacerdotale di don Vincenzo Corsello e il 50° di ordinazione sacerdotale dei reverendi Calì, Cortina, Scelsi e Di Gangi Domenico. Li raccomandiamo al Signore con i migliori auguri ricordando anche con gratitudine e affetto i presbiteri anziani e quelli sofferenti impossibilitati ad essere presenti in mezzo a noi.
Se poi lo riterrete opportuno ricordatevi anche di me che quest’anno, il prossimo 29 giugno, compio 25 anni di episcopato.
A Maria SS. di Gibilmanna, patrona della nostra Diocesi affidiamo il nostro ministero e la nostra Chiesa. Sia lei a sostenerci nel nostro cammino e ad intercedere per noi presso il suo figlio Gesù.
A lui, sommo ed eterno sacerdote, gloria e potenza nei secoli dei secoli. Amen (Ap 1,6).

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