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I Domenica di Quaresima – In Gesù che affrontò Satana “corpo a corpo”, smascherò le sue tentazioni e lo vinse, abbiamo vinto tutti, tocca ora a noi proteggere nel nostro quotidiano questa vittoria.

Gesù tentatoNella prima lettura, tratta da Genesi 9,8-15, contempliamo l’alleanza tra Dio e ogni essere vivente.
 Che significa per noi questo brano letto all’inizio della quaresima?
C’è un rapporto scompensato tra Dio e uomo di cui l’uomo è artefice: egli sfigura la bellezza di Dio.
È solo per tolleranza divina che la terra non viene inabissata.
Il diluvio è evento della storia cosmica in cui si vedrebbe qual è il destino dell’uomo se Dio non sospendesse: sospende perché c’è Gesù. Continua a leggere

VI Domenica del T.O. – Gesù è venuto a svegliare la coscienza degli esclusi perché smettano di considerarsi legittimamente esclusi, perché sappiano che il futuro è in mano loro.

lebbrosiNon si può consentire la promiscuità tra chi è fuori e chi è dentro.
Il lebbroso evoca tipi ancestrali della nostra memoria collettiva: è il malato peccatore. Che fosse anche un peccatore, secondo la visione pre-scientifica, appare chiaro nel Levitico, perché il lebbroso guarito doveva pagare, e cioè doveva compiere un atto pubblico di espiazione in quanto la lebbra da cui era stato affetto era sicuramente il risultato del peccato.
Si tratta di situazioni storicamente lontane da noi, che ci fa perfino effetto rievocare. L’immondo non era solo un escluso, ma doveva gridare lui stesso «sono immondo». L’esclusione lo toccava dentro, nella coscienza.
Questo contrasto tra l’accampamento e il lebbroso lo possiamo proiettare lungo i secoli. Esso fa luce si di un contrasto permanente, e in sé anche insuperabile.
La convivenza umana deve darsi infatti delle regole volte alla propria difesa, a garantire alcuni principi di stabilità, di ordine interno.
 Il che implica esclusione.
 E siccome la nostra società vuole ispirarsi ai grandi principi dell’uguaglianza e della emancipazione, essa si trova a compiere una impossibile quadratura del cerchio.
Fa finta di voler inserire in sé l’escluso, ma non ci riesce, perché dovrebbe contestare se stessa nei propri principi costitutivi.
È la drammatica dialettica in cui siamo inseriti. […]
L’accampamento esclude coloro che lo minacciano nella sua integrità.
I drogati sono i lebbrosi del ventesimo secolo.
La società non ha altro luogo di esclusione che la prigione, che è fuori dell’accampamento, ma anche dentro l’accampamento.
 È dentro, ci sono le leggi; è fuori perché chi è dentro è un escluso, e sarebbe l’escluso ideale se arrivasse a dire: sono un immondo!.
Un escluso conserva la sua identità finché si sente un soggetto autonomo, capace di iniziative.
Quando si spegne questa identità e l’escluso si lascia integrare nella logica dell’accampamento, l’accampamento esulta. […]
Che si fa, infatti, per questi esclusi?
Ci si mette dinanzi a loro con le tavole della legge che abbiamo noi nell’accampamento, secondo le quali ognuno faccia quel che vuole?
Si può davvero sancire questo principio di libertà fino a rispettare anche il lento declino verso la morte di chi è ormai in preda di un meccanismo distruttivo?
Siamo in una contraddizione estrema.
Ne potrei citare tante altre, che accrescono la nostra inquietudine morale, in questi anni. L’inquietudine nasce dal desiderio di allargare i confini dell’accampamento perché ci sia posto anche per quelli che sono esclusi e dalla necessità di salvare in ogni caso le regole dell’accampamento perché la violenza distruttiva non sorga dall’interno; sarebbe la catastrofe.
Questa tribolazione morale, giuridica e politica è l’ultimo lembo della nostra dignità.
Se non avessimo questa tribolazione, saremmo finiti del tutto, anche noi.
 Riprendendo ora il discorso nei suoi termini più universali, si noti la collocazione che ha Gesù in questa dialettica.
Gesù è davvero un escluso, un immondo.
Ha preso su di sé il «corpus peccati».
È un immondo perché sta con gli immondi.
Pensate alla sapienza – mi permetto di dir così, con una punta di cinismo – delle disposizioni del Levitico.
Essa consiste nel mirare a fare dell’escluso non un riottoso, non un ribelle, un randagio che fuori dei confini dell’accampamento tenta di minacciare la pace dell’accampamento, ma uno che accetta la propria esclusione fino a proclamarla, fino a mettere in guardia gli altri da se stesso.
Se volessi definire con una parola sola la missione di Gesù potrei dire: Gesù è andato fra gli immondi per insegnare loro a smettere di dirsi immondi, a guardare l’accampamento e scoprire che l’accampamento è immondo.
Questa è la rivoluzione, il capovolgimento.
 Se prendete le beatitudini vedete che sono fatte di immondi.
 I beati sono gli immondi.
 I poveri, i perseguitati per la giustizia, gli afflitti… sono degli immondi, sono esclusi dall’accampamento, con diverse gradazioni.
Gesù è venuto a svegliare la coscienza degli esclusi perché smettano di considerarsi legittimamente esclusi, perché sappiano che il futuro è in mano loro.
Guai invece a quelli dell’accampamento: guai agli Scribi, ai Farisei, agli anziani, ai ricchi… guai ai dirigenti dell’accampamento.
Questa è la singolarità di Gesù.
 Egli fu trattato come un immondo.
Le imputazioni a suo riguardo erano proprio queste: stava con i peccatori, aveva detto che le meretrici e i pubblicani avrebbero giudicati gli altri nel giorno del giudizio, aveva profetizzato il crollo del pilastro della struttura portante dell’accampamento, cioè del tempio: «non rimarrà pietra su pietra».
Era veramente un immondo agli occhi dell’accampamento.
Così dobbiamo ricostruirci, in sintesi, il dramma che Gesù ha rappresentato per la sua città, la quale ha fatto di tutto per inserirlo nei propri quadri, per farne un profeta accomodante.
Ma Gesù non ha accettato.
Egli non è mai andato nel Pretorio e nel Sinedrio come ospite gradito, ha rappresentato la minaccia per le due strutture, quella del potere politico e quella del potere ideologico. Perciò è stato crocifisso come un immondo. «Come un delinquente voi lo avete appeso ad un legno» dice Pietro, nel primo discorso dopo la Pentecoste.
L’identità storica di Gesù è questa, ed è una identità che permane, che non ci permette di bloccarlo in una arcaica identità, come purtroppo si fa.
Qual è la lettura che per lo più si faceva di questa brano del lebbroso?
 Cosa è la lebbra?
 È il peccato!
Cosa fa Gesù?
Ci libera dal peccato!
C’è anche una aggiunta: va’ dal sacerdote, va’ a confessarti e ritorna nella Chiesa!
Questa era la spiegazione comoda che nell’accampamento si è fatta. Naturalmente non sempre e non da tutti: sono parole, queste, che non si soffocano.
Capisco anche – mi permetto di dirlo – come la Chiesa cattolica per secoli abbia anche proibito di leggere la Scrittura in volgare. La gente che si accosta a queste cose prima o poi capisce.
E se gli immondi capiscono, che succede?
 È successo che gli immondi hanno capito. (Ernesto Balducci “Il Vangelo della pace” vol. 2 anno B)
 

V Domenica del T.O. – Gesù, il Veniente, con il suo Regno, è in lotta contro il male e contro la morte il cui re è il demonio …

Gesù Guarisce suocera  di Pietro m«La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba. I miei giorni scorrono più veloci d’una spola, svaniscono senza un filo di speranza. Ricordati che un soffio è la mia vita…» (Gb 7,4.6).
È difficile non rimanere profondamente colpiti da questi versetti di Giobbe, che la liturgia ci propone nella prima lettura di questa domenica.
Meditandoli, dietro le parole vi ho ritrovato il volto di tanti ammalati, nonché di persone conosciute nelle quali la stessa voglia di vivere viene meno sotto la durezza della prova.
Le parole drammatiche di Giobbe non possono essere archiviate troppo in fretta nemmeno da quanti hanno la grazia della salute.
Lasciamole risuonare nel cuore per poter cogliere un riflesso dell’abisso di disperazione che accanto a noi vive chi è nella sofferenza. Nella solitudine si allungano non soltanto le ombre, ma anche le domande e i dubbi: sulla vita, sugli altri e perfino su Dio. ( Mons. Nunzio Galantino )
 Giobbe dice delle cose che non crede del tutto; spera che non sia così anche se non sa come non è così, non sa per quali vie Dio lo salverà.
Capisce che non può essere così, sarebbe troppo assurdo: non sa quale ma sa che Dio la soluzione ce là per dare un senso a tutto questo.
Ha ragione Giobbe o ha torto?
Oggi c’è tanta gente che dice che ha torto: l’uomo arriverà a dominare i mali della vita. …. La sofferenza non sarebbe legata al peccato, sarebbe solo uno stadio arretrato del genere umano.
Bisogna rispondere alla sofferenza operando perché il processo di sviluppo della umanità si acceleri e si possono eliminare le cause della sofferenza.
Il rapporto tra sofferenza e peccato sarebbe una dottrina primitiva eliminata dal Vangelo.
Ma questa gente non conosce in realtà la Bibbia; il Vangelo non fa che parlarci il rapporto fra sofferenza e peccato, anche se c’è un momento di ricerca nel V.T. sul problema della restituzione individuale a Cristo dice che è sbagliata una certa dottrina- per questo risponde (in Giovanni) “Non ha peccato né lui né sua madre, ma perché sia manifestata la gloria di Dio”.
Ma ciò non nega tutta la dottrina globale del rapporto tra sofferenza e peccato in tutta l’umanità. Sennò Cristo cosa sarebbe venuto a fare?
Redenzione è redenzione dal peccato e dalle sue conseguenze.
Eppure noi ricorrendo al mistero del peccato diamo in fondo una spiegazione più plausibile che non quella che si dà fuori delle sofferenze chiarendo solo alcuni nessi causali.
La soluzione poi cosa sarebbe?
Lo stoicismo o gli anestetici?
Io e la mia generazione siamo ancora vittime di una serie di dolori che non riusciamo ad eliminare.
Quindi la mia speranza è solo come quella delle api che muoiono dopo aver lasciato l’alveare. Visione in cui la persona non ha più posto, c’è solo la specie.
Questa dottrina anche se non lo si sa ha sotto una visione marxista, è l’essenza pura del marxismo.
Quando io sono colpito da un dolore totale che mi paralizza di fronte a ogni possibilità di vita di relazione di contributo sacrale ecc. cosa posso fare!
E’ pura negatività, perché sono nato nel 1970 e non del 2400.
Problema della morte: la morte è fine e buona notte, a meno che io non includa nelle prospettive del progresso anche il superamento della morte. Non posso porre solo il problema, per cui si può supporre al limite che il superamento delle cause biologiche e sociologiche mi portino al termine.
Ma resta il problema della morte, e allora non è più ammissibile che questo discorso non è fattibile nemmeno nell’ambito della Risurrezione.
Cristo è finito, il Cristo pasquale non c’è. Se i morti non risorgono, nemmeno Cristo è risorto.
La risurrezione presuppone distruzione e nuove creazioni, non sviluppo all’infinito di un germe.
Queste sono cose molto divulgate, ma un livello molto mediocre di scienza. Lo scienziato di punta si rende conto che l’intelletto umano perde sempre più il controllo delle stesse scoperte da lui fatte. (D. Giuseppe Dossetti: Oratorio di sant’Antonio, appunti di omelia.)
 
 [ II Lettura ] …pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.
…. La decisione è un atto della mia libertà che compio non semplicemente per una rinuncia negativa, ma positiva perché libera questa rinuncia e mi  immerge sempre più nel mistero di Cristo.
La mia scelta è perché ho capito questo grande principio generale che è la follia del Cristo e la partecipazione al suo mistero di gloria; perché ho capito questo, assoggetto la mia libertà e devo giungere allo svuotamento della mia libertà umana e accetto questa strada con tutti i suoi aspetti disumanizzanti a prima vista per giungere a questa libertà.
Così è del Cristo: Lui libero della libertà di Dio si è reso schiavo degli uomini, Lui immerso nella visione si è fatto condannare dagli altri e crocifiggere da chi era senza Dio e così via» (d. G. Dossetti, appunti di omelia; Eremo s. Salvatore, 10,6.1977).
 C’è una possibilità nell’uomo che sorpassa davvero ogni ragione, quella di far propria la condizione degli altri, dimenticare se stesso per assumere in sé il destino dell’altro.
… È questa la speranza evangelica.
Al di là delle nostre vicende umane noi contiamo su questo Dio impossibile, improponibile che è amore e che è impotente in quanto non usa gli stessi metodi che noi usiamo all’interno della sapienza di questo mondo.
…L’amore ha delle sue leggi che sono leggi essenziali.
Ad esempio l’amore non costringe mai.
Nella Bibbia c’è piuttosto il Dio onnipotente che schiaccia gli uomini, ma tra le sue pagine passa sempre, come un’onda crescente che nel Cristo diventa trionfale, l’idea di un Dio che, essendo amore, rispetta la libertà degli uomini e vuole dall’uomo non il consenso dello schiavo sul cui collo poggia il suo tallone, ma l’entusiasmo del bambino che corre sulle ginocchia materne.
È la risposta d’amore quella che vale.  ( E. Balducci )
 [Nella prima parte del  brano del vangelo di questa domenica la guargione della suocera di Pietro]
 Gesù, informato [ della febbre ], si avvicina a questa donna allettata, la prende per mano e la fa alzare. Egli vuole incontrarla e, non appena le è vicino, compie gesti semplici, umanissimi, affettuosi: prende nella sua mano quella mano febbricitante, attua una relazione carica di affetto, e quindi con forza la aiuta ad alzarsi.
Questi sono i gesti di Gesù che guariscono: non gesti di un guaritore di professione, non gesti medici, né tantomeno gesti magici.
Se siamo attenti comprendiamo che, sull’esempio di Gesù, a un malato dobbiamo soltanto avvicinarci, renderci prossimi, toglierlo dal suo isolamento, prendendo la sua mano nella nostra, in un contatto fisico che gli dica la nostra presenza reale, e infine fare qualcosa perché l’altro si rialzi dal suo stato di prostrazione.
Questa azione con cui Gesù libera la donna dalla febbre può sembrare poca cosa (“un miracolo sprecato”, ha scritto un esegeta!), ma la febbre è il segno più comune che ci mostra la nostra fragilità e ci preannuncia la morte di cui ogni malattia è indizio.
Sì, Gesù è sempre all’opera verso i nostri corpi e le nostre vite e sempre discerne, anche dove c’è soltanto la febbre, che l’essere umano si ammala per morire, che qualunque malattia è una contraddizione alla vita piena voluta dal Signore per ciascuno di noi.
 Non fermiamoci dunque alla cronaca dell’azione di Gesù, ma comprendiamo come egli, il Veniente con il suo Regno, è in lotta contro il male e contro la morte il cui re è il demonio, colui che vuole la morte e non la vita. Gesù appare così come colui che fa rialzare, fa risuscitare – verbo egheíro, usato per la resurrezione della figlia di Giairo (Mc 5,41) e per la stessa resurrezione di Gesù  (Mc 14,28; 16,6)  – ogni uomo, ogni donna dalla situazione di male in cui giace. Egli vuole far entrare tutti nel regno di Dio, dove “non ci sarà più la morte, né il lutto, né il lamento, né il dolore, quando Dio asciugherà le lacrime dai nostri occhi” (cf. Ap 21,4; Is 25,8).
Ciò che è messo in rilievo come frutto di quel “far rialzare” da parte di Gesù è l’immediato servizio, la pronta diakonía da parte della suocera di Pietro
…. Giunge la sera, la prima giornata missionaria di Gesù è quasi terminata, ma ecco che da tutta la città vengono portati malati e indemoniati davanti alla porta della casa in cui egli si trova.
Cosa cercava tutta quella gente?
Innanzitutto guarigione, ma certamente desiderava anche vedere miracoli: la medicina era troppo cara, spesso senza efficacia, e poi in quel tempo c’erano molti esorcisti, guaritori, maghi, da cui la gente si recava.
 Quelli venuti da Gesù non trovano però né un mago né un operatore di miracoli. Trovano uno che guarisce chi incontra, parlando, entrando in relazione, ma soprattutto suscitando fede-fiducia: e quando Gesù trova questa fiducia, allora può manifestarsi la vita più forte della morte.
Gesù non guariva tutti ma – ci dicono i vangeli – curava tutti quelli che incontrava.
Come annota solo Matteo a margine di questo brano, egli si manifesta come il Servo del Signore che “ha preso le nostre debolezze e si è addossato le nostre malattie” (Mt 8,17; Is 53,4). Gesù combatte le malattie per far arretrare la potenza del male e del demonio, ma ciò avviene al prezzo di caricarsi lui stesso delle sofferenze che cerca di sconfiggere!
 … Viene la notte, ma anche questa è fatta per operare: prima dell’alba Gesù esce di casa, va in un luogo solitario e là prega.
È la sua preghiera del mattino, preghiera che attende il sorgere del sole invocando il Signore e lodandolo per la luce che vince la notte.
 Questa azione notturna non è secondaria, non è una semplice appendice al giorno. È la fonte del suo parlare e del suo agire, è l’inizio del suo “ritmo” giornaliero, è ciò che gli dà la postura per vivere tutta la giornata nella compagnia degli uomini: perché egli è sempre l’inviato di Dio, colui che deve sempre “raccontarlo” (cf. Gv 1,18) agli uomini, ovunque vada. ( E. Bianchi )
 

IV Domenica del T.O. – Non si deve divinizzare Gesù troppo velocemente, perché incantati dai prodigi da lui compiuti, né si deve farlo perché ci si entusiasma di Lui…. Lo si potrà fare solo quando lo si vedrà appeso alla croce. .

Gesù guarisce indemoniatoVorrei subito utilizzare il brano del Deuteronomio e quello di Marco per trarne alcune illustrazioni sul retto modo di intendere la nostra obbedienza a Dio.
È singolare che il popolo ebraico abbia chiesto di non vedere Dio, perché vederlo equivale a morire.
E un linguaggio ridondante, iperbolico, che però ci mette subito dinanzi alla situazione di chi ha fatto di Dio l’oggetto di una ricerca e che soffre di non avere la certezza assoluta della sua esistenza.
Noi siamo figli di una cultura che ha avuto bisogno di prove, e che ha anche prodotto prove sull’esistenza di Dio.
Anche dentro la Chiesa, con un razionalismo di riporto, ci si è affaticati per sconfiggere l’ateismo adducendo prove inconfutabili che Dio c’è.
Questo conflitto non ha senso per l’uomo di fede.
È un conflitto culturale in cui l’oggetto della discettazione è nominalmente Dio, ma non è Dio.
Non basta chiamare in causa i concetti filosofici per definire Dio perché si sia sicuri che è di Lui che si discute.
Ogni oggetto della mente è prodotto dell’uomo.
Dio, noi lo conosciamo.
L’ateismo ci dà una grande lezione quando abbatte le nostre argomentazioni presuntuose.
In realtà l’atto di fede ci colloca oltre la linea di qua dalla quale si discute se Dio c’è o non c’è.
La fede è una constatazione smarrita o gioiosa, secondo i casi, della realtà di Dio, il Santo, Colui che non possiamo vedere perché ci sovrasta.
La presenza di Dio si fa avvertire attraverso un appello di cui solo la coscienza, se lo accoglie, sa la terribilità, la forza e la non dimostrabilità.
Nessun credente vero dimostra che Dio c’è.
Lo vede, ne parla, lo presenta, ma non ha la presunzione di dire a chi lo ascolta di avere a disposizione argomenti convincenti.
Solo una specie di ateismo latente all’interno del mondo cristiano ha portato all’affannosa ricerca di argomenti validi.
E il popolo ebraico capovolgendo in modo paradossale questa tendenza sembra quasi aver chiesto a Dio, per contrasto, di non farsi vedere perché la sua presenza non si confà alla nostra vita di tutti i giorni: vedere Dio è come morire.
La sua assolutezza brucia la relatività delle nostre cose.
Al suo cospetto la storia è in combustione, non han più senso i ritmi della nostra esistenza.
Dobbiamo difenderci dalla sua presenza.
E Dio allora decide di farsi presente suscitando i profeti.
 Nel popolo ebraico c’era l’istituzione sacerdotale, c’era la Legge, e c’era il Tempio: ma tutto questo sembrava vuoto di Dio.
Dio non si fa presente in modo inequivocabile attraverso le istituzioni che hanno una loro funzione, stabilita dalla fede, ma non sono affatto tramiti della manifestazione di Dio.
Solo la profezia lo manifesta.
 Dio passa attraverso l’uomo; Dio ha deciso di farsi visibile nei nostri fratelli.
 Questa è la via di Dio.
Dio passa attraverso la testimonianza dei fratelli, di coloro che non appartengono alle aree del potere.
Il profeta non ha compromissioni col potere, non scende dagli altipiani della cultura: è colui che parla per abbondanza interiore, quasi per un mandato, e dice le cose che Dio gli ha chiesto di dire.
La profezia è dunque, sul piano storico, la libertà con cui Dio mette in scacco le istituzioni, le leggi e la sapienza.
E sempre così è stato nell’antico popolo di Israele, ma, più di quanto non ce ne rendiamo conto, è vero così anche oggi.
….   Il profeta non annuncia – ci dice il Vecchio Testamento – cose sue come se fossero di Dio; non attribuisce al nome di Dio cose che Dio non ha comandato di dire.
 E noi sappiamo quanti ci hanno comandato in nome di Dio cose che Dio non ci ha comandato; …..
Quante malizie in nome di Dio!
Il profeta è colui che svela questa grande menzogna.
Egli può essere, nella contingenza storica, anche ateo, nel senso che si oppone al simulacro divino con cui abbiamo coperto le nostre presunzioni.
Abbiamo alle spalle generazioni intere il cui Dio era diventato il gendarme dell’ordine costituito, e perché scandalizzarsi che qualcuno sia ateo se prima non ci scandalizziamo di aver ridotto Dio a fare da sigillo sacro ai nostri egoismi collettivi, alle nostre presunzioni colonialistiche?
Occorre stare attenti perché Dio spesso passa fuori dei nostri spazi ufficiali, attraverso voci che non hanno sempre i segni della consacrazione. ( E. Balducci  )
 [ In questa IV Domenica del T.O ] L’evangelista ci presenta una “ giornata-tipo”  vissuta da Gesù e dai suoi discepoli: la “giornata di Cafarnao” (cf. Mc 1,21-34), una città situata a nord del mare di Galilea, luogo di passaggio tra Palestina, Libano e Assiria, città con gente composita, scelta da Gesù come “residenza”, come luogo in cui egli e la sua comunità avevano una casa (cf. Mc 1,29.35, ecc.) dove sostavano di tanto in tanto, nelle pause dei loro itinerari in Galilea e in Giudea. 
 … È un sabato, il giorno del Signore, in cui l’ebreo vive il comandamento di santificare il settimo giorno (cf. Es 20,8-11; Dt 5,12-15) e va alla sinagoga per il culto.
…  Gesù è un semplice credente del popolo di Israele, è un laico, non un sacerdote, ed esercita questo diritto. Va all’ambone e fa un’omelia, di cui però Marco non ci dice il contenuto, a differenza di quanto fa Luca riguardo all’omelia tenuta da Gesù nella sinagoga di Nazaret (cf. Lc 4,16-21). ( E. Bianchi )
 
L’evangelista non afferma che Gesù partecipa al culto della sinagoga, ma va nella sinagoga per insegnare e il suo insegnamento  [ che ] è l’esatto contrario di quello che lì veniva trasmesso.
 Gesù, nel suo insegnamento, vuole liberare le persone da quelle che lui denuncerà come “dottrine degli uomini”, “tradizioni degli antichi”, che nulla hanno a che fare con la volontà di Dio.
Marco scrive che la reazione della gente è singolare, erano stupiti del suo insegnamento. E sottolinea, egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità.
Avere autorità significa avere il mandato divino. E non come gli scribi.  Erano gli scribi quelli che avevano questo mandato divino per insegnare.
Gli scribi erano i teologi ufficiali del sinedrio, era il magistero infallibile, persone di straordinaria importanza; si credeva che le parole degli scribi fossero le stesse parole di Dio, quando c’era conflitto tra la parola scritta e l’insegnamento dello scriba bisognava dare retta allo scriba perché lui era l’unico vero interprete della sacra scrittura. ( A Maggi )
 
La sua non è una parola come quella dei professionisti religiosi, dei molti scribi incaricati di studiare e spiegare le sante Scritture.
Che cosa c’è di diverso nel suo predicare?
Possiamo almeno dire che c’è una parola che viene dalle sue profondità, una parola che sembra nascere da un silenzio vissuto, una parola detta con convinzione e passione, una parola detta da uno che non solo crede a quello che dice, ma lo vive.
È soprattutto la coerenza vissuta da Gesù tra pensare, dire e vivere a conferirgli questa autorevolezza che si impone ed è performativa.
Attenzione: Gesù non è uno che seduce con la sua parola elegante, erudita, letterariamente cesellata, ricca di citazioni culturali; non appartiene alla schiera dei predicatori che seducono tutti senza mai convertire nessuno. Egli invece sa andare al cuore di ciascuno dei suoi ascoltatori, i quali sono spinti a pensare che il suo è “un insegnamento nuovo”, sapienziale e profetico insieme, che scuote, “ferisce”, convince. ( E. Bianchi )
 … Appena Gesù insegna, ecco che la gente incomincia ad aprire gli occhi.  Questo Gesù ha il mandato divino per insegnare, non i nostri scribi.
Ed ecco che scoppia l’incidente.  … Nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da spirito impuro.
 La denuncia che fa l’evangelista è molto seria e drammatica: ecco il prodotto della sinagoga, un uomo posseduto da spirito impuro.
Frequentare questi luoghi di culto, frequentare questi luoghi religiosi, accogliere in maniera acritica l’insegnamento che lì viene dato, rende le persone impure.
Impure significa nell’impossibilità di comunicare con Dio.
L’insegnamento religioso non solo non avvicinava la gente a Dio, ma era quello che glielo impediva.  ( A Maggi )
 
Non soffermiamo la nostra attenzione sulla violenza e sul frastuono con cui quest’uomo si esprime, secondo la descrizione tipica dello stile orientale, immaginifico.  Andiamo alla sostanza: c’è un uomo in cui il demonio opera in modo particolare, in cui la forza che si oppone a quella di Dio ha preso un grande spazio; in questa persona c’è uno spirito impuro che si oppone allo Spirito santo di Dio.
 La presenza di Gesù nella sinagoga è una minaccia per questa forza demoniaca, ed ecco allora che la verità viene gridata: “Che c’è tra noi e te, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il Santo di Dio!”.
 Ma Gesù innanzitutto gli intima di tacere, poi libera l’uomo da quella presenza. Il segno della liberazione avvenuta è un grande urlo: “lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui”.
Si noti l’imposizione del silenzio da parte di Gesù: il grido dell’indemoniato è ortodosso, perché egli è il Santo di Dio, ma questa identità non può essere proclamata troppo facilmente.
Lungo tutto il vangelo secondo Marco è testimoniata questa preoccupazione di Gesù circa la manifestazione della propria identità: non si deve divinizzare Gesù troppo velocemente, non si deve farlo perché incantati dai prodigi da lui compiuti, né si deve farlo perché ci si entusiasma di lui. Lo si potrà fare solo quando lo si vedrà appeso alla croce. Solo allora – attesta il vangelo – la confessione del lettore può essere vera, fatta con intelligenza e conoscenza profonde, insieme al centurione che, vedendo Gesù appeso al legno, proclama: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39). Il miglior commento è una parola di un monaco del XII secolo, Guigo I il Certosino: “Nuda e appesa alla croce deve essere adorata la verità”. (Enzo Bianchi )
 

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