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III Domenica di Pasqua: Gesù è riconoscibile nel suo corpo e il suo corpo è la comunità che si riunisce per farsi alimento per gli altri.

emmausDai vangeli traspare che i discepoli sembrano essere più delusi della risurrezione di Gesù che della sua morte.
Nel vangelo più antico, che è quello di Marco, il testo termina con l’annunzio della risurrezione di Gesù alle donne, ma queste non dicono nulla a nessuno.
La stessa delusione traspare dal vangelo di Luca con l’episodio dei discepoli di Emmaus.
Perché questa delusione per la risurrezione di Gesù?
 Se Gesù è morto significa semplicemente che hanno sbagliato messia, perché il messia non può morire. Quindi se Gesù è morto, hanno sbagliato personaggio e c’è soltanto da attendere un nuovo messia.
 A quell’epoca i messia nascevano come funghi, quindi significava che s’erano sbagliati.
Ma, ed è questa la delusione, se Gesù è risuscitato, allora tutte quelle speranze di restaurazione del regno di Israele, di dominio sopra gli altri popoli pagani, vanno a farsi benedire.
Ecco la delusione che traspare in questo brano in cui ci sono questi discepoli che si recano dove?
E’ importante la località.
 Èmmaus era un luogo importante perché era il paese dove c’era stata una battaglia tra Giuda Maccabeo e i pagani, ed era stata vinta dagli ebrei.
Era il luogo della speranza del Dio liberatore, con la sconfitta dei pagani e la liberazione di Israele.
Ebbene Èmmaus richiamava tutto questo, la vittoria sui pagani e la liberazione di Israele. Quindi, visto che Gesù è morto, e non era lui evidentemente il messia, ecco che questi discepoli se ne tornano nel luogo che per loro è quello della rivincita e della vendetta di Dio sui pagani.
 
Di questi discepoli soltanto di uno viene detto un nome, che è tutto un programma. Si chiama Clèopa, che è un’abbreviazione di Cleopatros, che significa “del padre illustre, del padre glorioso”.
Ecco, questi discepoli sono infarciti di ambizione, di gloria, di successo.
E’ questo il messia che loro vogliono, il messia trionfatore.
 
Incontrano Gesù e, naturalmente, non lo riconoscono.
 Loro guardano al passato e non possono scoprire il Gesù che si presenta nel nuovo e a lui confidano tutta la loro delusione. “Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele”.
 Ma Gesù non è venuto a liberare Israele, Gesù è il salvatore dell’umanità.
 Gesù non è venuto a restaurare il defunto regno di Davide, ma ad inaugurare il regno di Dio.
 
E ancora negli Atti degli Apostoli si legge che, visto che i discepoli non hanno compreso questo, una volta risuscitato Gesù, per ben quaranta giorni li riunisce e parla loro di un’unica tematica: il regno di Dio.
 
Ebbene, al quarantesimo giorno, uno dei discepoli gli chiede “Ma è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno di Israele?”
Gesù parla del regno di Dio, ma loro non intendono, sono ciechi e sordi, perché la loro idea e la loro speranza è la restaurazione del regno di Israele.
 
Allora Gesù “cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò…”
 Il termine utilizzato dall’evangelista è quello da cui deriva il termine “ermeneutica”, termine tecnico che significa interpretazione.  Quindi Gesù più che spiegare, interpreta la scrittura.  Perché questo?
Perché la scrittura può essere appresa soltanto con l’amore. Chi mette al primo posto, come valore assoluto, il bene dell’uomo, può comprendere la scrittura.
Questa è la chiave d’interpretazione dell’antico e del nuovo.
 
Ebbene, quando sono vicini al villaggio – il villaggio nei vangeli è sempre simbolo di tradizione, di incomprensione del messaggio di Gesù –  [i discepoli sono diretti al villaggio, sono diretti alla tradizione ], non riescono a comprendere il nuovo, mentre Gesù, scrive l’evangelista, “fece come se dovesse andare più lontano”.
 Gesù va verso il nuovo e loro invece vanno verso il vecchio.
 Comunque chiedono a Gesù di rimanere con loro.
E “quando fu a tavola con loro, prese il pane”, come ha fatto nell’ultima cena, ripete gli stessi gesti, “recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro”.   “Allora”, scrive l’evangelista, “si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”.
 Gesù è riconoscibile quando il pane viene preso e spezzato.
Gesù, il figlio di Dio, si fa pane, spezza la sua vita per gli uomini, perché quanti loaccolgono e sono capaci a loro volta di farsi pane e alimento di vita per gli altri, diventino figli dello stesso Dio.
 E’ questa l’esperienza che rende percepibile la presenza di Gesù.
 “Ma egli” … non sparì come è scritto nella traduzione, ma letteralmente “… divenne invisibile”.
  Gesù non è scomparso, ma è invisibile perché Gesù ormai è visibile soltanto nel pane che si spezza, nel pane che è condiviso, nella comunità che si fa pane per gli altri.
 Infatti, quando tornano a Gerusalemme dagli altri discepoli, quello che i due di Èmmaus raccontano … “narravano di ciò che era accaduto lungo la via”.
 
“Lungo la via” era il luogo della semina sul terreno, che Gesù già aveva spiegato … “viene il satana”, che è l’immagine del potere che toglie via il messaggio.
Ecco perché loro non avevano capito l’annunzio, le parole di Gesù, perché sono immersi in questa ideologia di potere che li rende refrattari alla parola del Signore.
E come l’avevano riconosciuto?
Nello spezzare del pane.
Questo criterio era valido allora ed è valido ancora oggi.
Gesù è riconoscibile nel suo corpo e il suo corpo è la comunità che si riunisce per farsi alimento per gli altri.

Canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II – I santi non sono “impeccabili”, sono anche loro dei peccatori nei quali però l’amore e la misericordia di Dio hanno vinto.

www.chiesadicefalu.itNell’occasione della canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II una riflessione di Enzo Bianchi pubblicata su ” Republicca” il 27/Marzo”
( Cliccando sulla foto accanto è possbile aprire il video della diretta TV )
Uomini e donne che sono stati riconosciuti fedeli al vangelo vengono canonizzati, proclamati santi dalla chiesa affinché siano di esempio per tutti: i cristiani hanno infatti la convinzione che tra di loro alcuni tentino di vivere con radicalità la fedeltà al vangelo e perciò meritano di essere autorevoli e affidabili. Quando questa conformità alla vita di Gesù si mostra evidente, allora coloro che ne sono stati testimoni attribuiscono la santità ai loro fratelli e sorelle.
Ma non si dimentichi che i santi non sono “impeccabili”, sono anche loro dei peccatori nei quali però l’amore e la misericordia di Dio hanno vinto. Costoro non si sono fatti santi bensì sono stati fatti santi da Dio, il solo Santo, perché hanno tutto predisposto affinché l’azione di Dio in loro non trovasse ostacoli.
Sappiamo inoltre che una cosa è la santità e altra cosa è il processo del suo riconoscimento in vista di una venerazione pubblica: molti santi non sono conosciuti a sufficienza per essere proclamati tali, altri non hanno avuto nessuno che avesse la forza di far avanzare questo riconoscimento, altri ancora sono stati canonizzati secoli dopo la loro morte, a volte sotto la spinta di politiche ecclesiastiche mutate.
Infine alcuni sono nel catalogo dei santi nonostante alcune loro azioni siano state in contraddizione profonda con lo spirito e il comandamento cristiano: i preti sapienti e liberi di un tempo dicevano che questi erano stati proclamati santi nonostante le loro infedeltà al vangelo perché lo erano diventati prima di morire, in un modo che solo Dio conosce… Così recentemente, sotto la pressione di realtà ecclesiali, alcuni testimoni hanno conosciuto corsie preferenziali verso il riconoscimento della santità, altri per prudenza ecclesiastica subiscono ritardi apparentemente inspiegabili.
Personalmente avrei desiderato per oggi la canonizzazione non solo di papa Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, ma anche quella di Paolo VI. Certo tre papi canonizzati insieme sarebbe stato insolito, ma non si comprende perché tra i papi del concilio proprio Montini sia escluso dalla canonizzazione, se non per ragioni di diffidenza verso il Vaticano II e la riforma liturgica a lui dovuta. Anche perché, se si dovesse discernere la santità in atti di governo pontificio, basterebbe verificare che questi non siano contraddittori rispetto al vangelo e al suo spirito, essendo in ogni caso i loro autori sempre uomini limitati e non esenti da errori, non necessariamente peccati.
Quali insegnamenti possiamo trarre da Giovanni XXIII e da Giovanni Paolo II? Di papa Roncalli occorre ricordare che il 23 febbraio 1965 il cardinal Lercaro avanzò la proposta della proclamazione della sua santità a concilio in corso, “non solo come santità esemplare, ma come santità programmatica di una nuova età della chiesa, individuata dal santo pastore, dottore e profeta”.
Questa proposta non fu accolta, ma comunque già alla sua morte papa Giovanni era stato percepito come un santo dai cattolici, come un cristiano autentico dagli altri cristiani, come un “giusto-buono” dai non credenti. Nel suo motto episcopale era riassunto il suo proposito: obbedienza e pace. Obbedienza al vangelo, nell’umiltà, nella povertà, nell’accettazione di quanto il Signore innanzitutto, la storia e gli uomini gli chiedevano di fare.
Aveva sempre accettato incarichi di lavoro a volte anche ingrati, aveva subìto umiliazioni, ma proprio per questo si sentiva libero e non ostacolato da interessi personali nell’agire da cristiano: così in Bulgaria ascoltava i poveri e sapeva amare con intelligenza gli ortodossi, a Istanbul seppe aiutare gli ebrei perseguitati… Proprio perché obbediente alla volontà del Signore che vuole che i suoi discepoli “siano una cosa sola” gettò le basi del dialogo con le altre chiese e proprio per la grande fede nel “Signore della chiesa” volle il concilio.
Accanto a questa obbedienza, e come sua conseguenza, si colloca il suo proposito di pace. Pace interiore, certo, ma anche pace tra i popoli e le nazioni, apertura a un atteggiamento mai ostile verso l’altro, rispetto della dignità di ciascuno, attenzione per i più deboli e per i poveri: tutti elementi ribaditi nella sua ultima enciclica, pubblicata come un testamento spirituale poche settimane prima della morte, la Pacem in terris. Un santo non perché autore di miracoli, non perché la sua vita fosse stata abitata dallo straordinario o da una mistica raffinata ma perché cristiano nei sentimenti, nelle azioni, nello stile: semplicemente, un cristiano sul trono di Pietro!
Dal canto suo Karol Wojtyla, già prima di diventare papa, si era manifestato come un confessore combattente della fede, un tenace difensore della presenza cristiana nella società, ma anche un uomo che aveva conosciuto l’orrore umano, il male di cui gli uomini possono macchiarsi, un cristiano capace di leggere anche le responsabilità dei cristiani nella storia.
Azioni che obbedivano al vangelo ma che sembravano nuove e inedite furono da lui vissute e indicate alla chiesa come urgenti: la riscoperta della presenza di Israele ancora popolo in alleanza con Dio, il dialogo con tutte le religioni chiamate ad Assisi a pregare per la pace, il riconoscimento degli errori commessi dai “figli della chiesa” nella storia attraverso l’uso della violenza e la persecuzione dell’altro, il riconoscimento dei martiri cristiani di tutte le chiese come testimoni nostri contemporanei. Tutte azioni che hanno fatto compiere alla chiesa un cammino che ora appare irreversibile, ma che sono soprattutto atti di obbedienza allo Spirito di Gesù Cristo.
In ogni caso, le due canonizzazioni di oggi rivelano anche papa Francesco: da un lato rispondono positivamente alla domanda di folle di uomini e donne che desiderano che questi due papi siano venerati, ma testimoniano anche la sua volontà di indicare alla chiesa che, anche in un’epoca giudicata di “crisi”, è ancora in grado di esprimere la santità e che questi ultimi successori di Pietro non hanno tradito la grande tradizione ma l’hanno servita rendendola viva, bella e soprattutto capace di essere ascoltata dall’uomo contemporaneo. Questi due papi erano molto diversi, ma la loro diversità è ricchezza, come quella raffigurata nell’icona di Pietro e Paolo, mostrati sempre in un abbraccio fraterno, anche se in vita avevano modi di sentire molto differenti.

II Domenica di Pasqua – Tommaso non esprime la sua incredulità, ma il disperato bisogno di credere!

Gesù e Tommaso minyLe prime parole che Gesù pronuncia ai suoi discepoli che si erano nascosti per paura di fare la stessa fine del loro maestro – il mandato di cattura era per tutto il gruppo di Gesù – sono: “Pace a voi”.
Non sono un augurio, un invito, Gesù non dice: “La pace sia con voi”, ma sono un dono, Gesù dona loro la pace.  
Nel termine “pace” viene racchiuso tutto quello che concorre alla pienezza di vita dell’uomo, in una parola alla “felicità”, quindi Gesù si presenta con il dono di una pienezza di felicità. E poi mostra loro subito il perché devono essere felici. Infatti mostra le mani e il fianco, cioè mostra la permanenza dei segni dell’amore, con il quale Gesù ha dato la vita per i suoi discepoli.
Infatti al momento dell’arresto Gesù aveva detto alle guardie “Se cercate me lasciate che questi se ne vadano”.
E’ il pastore che ha dato la vita per le sue pecore.
Poi Gesù torna di nuovo a ripetere questo dono della pace, ma questa volta è perché la comunichino all’umanità.
Infatti, dopo aver ripetuto “Pace a voi”, Gesù aggiunge: “Come il Padre ha mandato me…”, il Padre ha mandato il figlio a dimostrare un amore sino alla fine, “… così anch’io mando voi”.
Gesù invita i suoi discepoli a prolungare nel tempo l’offerta di vita di Gesù. E per questo comunica loro la sua stessa capacità d’amare, cioè comunica lo Spirito Santo.
 L’attività di Gesù, che in questo vangelo è stata descritta come quella dell’agnello che toglie il peccato del mondo, e toglie il peccato del mondo effondendo sulle persone lo Spirito Santo, viene prolungata dalla sua comunità.
Deve proporre e offrire ad ogni persona una pienezza di vita, una pienezza d’amore.
E poi Gesù continua dicendo: “Coloro ai quali cancellerete i peccati saranno cancellati, a coloro ai quali non cancellerete, non saranno cancellati”, questo è il verbo adoperato dall’evangelista.
Cosa vuol dire Gesù?
Non dà un potere per alcuni, ma una capacità, una responsabilità per tutti.
La comunità deve essere come la luce che splende nelle tenebre. Quanti vivendo nelle tenebre se ne sentono attratti ed entrano a far parte del raggio d’azione di questo amore, hanno il passato completamente cancellato.
Quanti invece, pur vedendo brillare questa luce, si ritraggono ancora di più nelle tenebre – Gesù l’aveva detto: “Chi fa il male odia la luce” – rimangono sotto la cappa dei loro peccati, sotto la cappa delle tenebre di morte.
 A questo incontro di Gesù con i suoi discepoli non c’era Tommaso.
Come mai Tommaso era assente?
I discepoli erano nascosti per paura di fare la stessa fine di Gesù.
Tommaso non ha paura; Tommaso è colui che al momento della risurrezione di Lazzaro aveva detto: “andiamo anche noi a morire con lui”. Ecco perché Tommaso è chiamato “il gemello”, quello che più assomiglia a Gesù.
Tommaso non è presente e quando gli dicono che Gesù è apparso, lui non esprime la sua incredulità, ma il disperato bisogno di credere. E lo fa con quell’espressione: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi … “, è l’equivalente dell’italiano, quando di fronte ad una notizia, noi diciamo “Non ci posso credere! Non è possibile!”
Otto giorni dopo, il ritmo è quello della celebrazione eucaristica.
E’ nell’eucaristia che Gesù si fa presente e comunica il suo amore. Gesù si manifesta a Tommaso che si guarda bene dal mettere il dito nelle piaghe di Gesù, ma prorompe nella più alta professione di fede di tutti i vangeli.
 Gesù era stato descritto dall’inizio del vangelo, come il Dio che nessuno aveva mai visto e che in lui si era manifestato. Tommaso lo comprende, si rivolge a Gesù chiamandolo “Mio Signore e mio Dio”.
 Il brano si conclude con una beatitudine. I credenti di tutti i tempi non sono svantaggiati nei confronti di coloro che hanno fatto quest’esperienza, ma addirittura avvantaggiati, perché hanno la beatitudine che non è stata detta per i discepoli, “Quanti crederanno senza aver bisogno di vedere”, Gesù li proclama “beati”.
Quanti chiedono un segno da vedere per poter credere, Gesù li invita a credere per essere loro segno che gli altri possono vedere. Questa è la buona notizia di Gesù che la comunità dei discepoli è chiamata a portare. ( A. Maggi )

Omelia di Papa Francesco alla Veglia di Pasqua

Veglia pasqua PFIl Vangelo della risurrezionPapa francescoe di Gesù Cristo incomincia con il cammino delle donne verso il sepolcro, all’alba del giorno dopo il sabato.
Esse vanno alla tomba, per onorare il corpo del Signore, ma la trovano aperta e vuota.
Un angelo potente dice loro:
«Voi non abbiate paura!» (Mt 28,5), e ordina di andare a portare la notizia ai discepoli: «È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea» (v. 7).
Le donne corrono, corrono via subito, e lungo la strada Gesù stesso si fa loro incontro e dice: «Non temete; e annunziate ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno» (v. 10). “Non abbiate paura! Non temete!”: è la voce che incoraggia ad aprire il cuore per ricevere questo annunzio.
E perché dopo la morte del Maestro, i discepoli si erano dispersi; la loro fede si era infranta, tutto sembrava finito, crollate le certezze, spente le speranze. Ma ora, quell’annuncio delle donne, benché incredibile, giungeva come un raggio di luce nel buio. La notizia si sparge: Gesù è risorto, come aveva predetto… E anche quel comando di andare in Galilea; per due volte le donne l’avevano sentito, prima dall’angelo, poi da Gesù stesso: «Che vadano in Galilea, là mi vedranno». “Non temete e andate in Galilea”.
La Galilea è il luogo della prima chiamata, dove tutto era iniziato! Tornare al posto della prima chiamata, tornare là, tornare al luogo della prima chiamata. Sulla riva del lago Gesù era passato, mentre i pescatori stavano sistemando le reti. Li aveva chiamati, e loro avevano lasciato tutto e lo avevano seguito (cfr Mt 4,18-22).
Ritornare in Galilea vuol dire rileggere tutto a partire dalla croce e dalla vittoria, senza paura: “Non temere!”. Rileggere tutto – la predicazione, i miracoli, la nuova comunità, gli entusiasmi e le defezioni, fino al tradimento – rileggere tutto a partire dalla fine, che è un nuovo inizio, da questo supremo atto di amore.
Anche per ognuno di noi c’è una “Galilea” all’origine del cammino con Gesù. “Andare in Galilea” significa qualcosa di bello, significa per noi riscoprire il nostro Battesimo come sorgente viva, attingere energia nuova alla radice della nostra fede e della nostra esperienza cristiana. Tornare in Galilea significa anzitutto tornare lì, a quel punto incandescente in cui la Grazia di Dio mi ha toccato all’inizio del cammino. E’ da quella scintilla che posso accendere il fuoco per l’oggi, per ogni giorno, e portare calore e luce ai miei fratelli e alle mie sorelle. Da quella scintilla si accende una gioia umile, una gioia che non offende il dolore e la disperazione, una gioia buona, una gioia e mite.
Nella vita del cristiano, dopo il Battesimo, c’è anche un’altra “Galilea”, una “Galilea” più esistenziale: è l’esperienza dell’incontro personale con Gesù Cristo, che mi ha chiamato a seguirlo e a partecipare alla sua missione. In questo senso, tornare in Galilea significa custodire nel cuore la memoria viva di questa chiamata, quando Gesù è passato sulla mia strada, mi ha guardato con misericordia, mi ha chiesto di seguirlo; andare in Galilea significa recuperare la memoria di quel momento in cui i suoi occhi si sono incrociati con i miei, il momento in cui mi ha fatto sentire che mi amava.
Oggi, in questa notte, ognuno di noi può domandarsi: qual è la mia Galilea? E fare memoria, andare indietro col ricordo. La ricordo? L’ho dimenticata?Cercala e la troverai: lì ti aspetta il Signore! Sono andato per strade e sentieri che mi hanno fatto dimenticarla? Signore, aiutami: dimmi qual è la mia Galilea; sai, io voglio ritornare là per incontrarti e lasciarmi abbracciare dalla tua misericordia. “Non avere paura! Non temere! Tornate in Galilea!”.
Il Vangelo è chiaro: bisogna ritornare là, per vedere Gesù risorto, e diventare testimoni della sua risurrezione. Non è un ritorno indietro, non è una nostalgia. E’ ritornare al primo amore, per ricevere il fuoco che Gesù ha acceso nel mondo, portarlo a tutti, sino ai confini della terra. Tornare in Galilea, senza paura.
«Galilea delle genti» (Mt 4,15; Is 8,23): orizzonte del Risorto, orizzonte della Chiesa; desiderio intenso di incontro… Mettiamoci in cammino.

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