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tirisan

VIII Domenica del T. O. – Al Padre non bisogna chiedere perché il Padre precede le richieste degli uomini.

Uccelli del cieloVoglio cominciare manifestando subito l’imbarazzo che provo ogni volta che mi avviene di confrontarmi con questa straordinaria pagina del Vangelo.
Da una parte, la percezione che in questo discorso di Gesù si coglie qualcosa di essenziale del significato della nostra vita sulla terra, si mette allo scoperto una verità dimenticando la quale si scivola fatalmente nella follia (e ci siamo!); dall’altra, la difficoltà di poter commentare queste parole, perché per quanto sia buona la nostra intenzione, noi siamo in una situazione illegittima: bisognerebbe che io che parlo e voi che ascoltate fossimo con la preoccupazione di che vestirci e di che mangiare.
In realtà non ne abbiamo, di queste preoccupazioni. II pericolo è che questa pagina diventi allora una bella occasione per esercitazioni di buoni sentimenti, di illuminata ispirazione … Ma così sfuggiamo alla sua verità.
È davvero uno dei casi in cui è meglio tacere che parlare.
Sono però anche convinto che se il nostro discorso è contenuto dentro questa consapevolezza, e viene fatto con un sottinteso di autocritica, diventa legittimo e molto importante.
 Mi viene in mente che nei momenti ruggenti della nostra cultura occidentale – fine secolo scorso, inizi di questo secolo – questa pagina veniva indicata dalla cultura economico-politica del tempo come un indizio chiaro che il Vangelo è un prodotto culturale di una società antica, preindustriale, di una società pauperistica e che perciò non è adatta ai tempi nostri.    Erano i tempi in cui riecheggiava in Europa la famosa parola di un uomo di governo francese: «arricchitevi». Questa era la parola che faceva da motto ad una società che andava avanti nella produzione e nella distribuzione dei beni.
Dentro la nostra isola felice, questa parola del Vangelo poteva, al più, essere ascoltata come una specie di esortazione alla fraternità, all’attenzione ai poveri, a farci strumento della misericordia di Dio con l’elemosina a chi non avesse, per caso, di che mangiare e di che vestire, ma sembrava che la società che si riflette qui nel Vangelo fosse ormai alle nostre spalle.
 Ora invece siamo in un tempo in cui si è scoperto che attorno a noi c’è una metà dell’umanità che ha proprio la preoccupazione di che cosa mangiare e di cosa vestire.
 La nostra organizzazione sociale, tutta centrata sullo sviluppo dell’homo economicus, dell’uomo come produttore e consumatore, ha conquistato grandi traguardi ma contemporaneamente, necessariamente, ha emarginato attorno a sé masse sterminate di gente destinate alla fame.
Questa è la scoperta che ci rende ormai inquieti, che turba per sempre la coscienza buona che avevano i nostri avi, i promotori della civiltà produttiva.
 Sentiamo che c’è qualcosa di distorto alla radice della nostra organizzazione sociale e che quindi questa del Vangelo è una proposta sapienziale che ci obbliga a riesaminare criticamente i principi della nostra condotta personale e collettiva.
Il Vangelo non sostituisce le culture, rappresenta qualcosa di metaculturale, cioè un insieme di principi profetici che aggrediscono qualsiasi cultura svelandone la relatività, la inadeguatezza: questo è il suo compito.[…]
Ora noi sentiamo molto meglio che quello che va messo in questione è, in radice, il rapporto fra l’uomo e le cose, tra l’uomo e l’uomo e questo rapporto non può essere ricondotto dentro la categoria dell’utile: questo è il punto critico.
Quando facciamo, in altra sede e con altri registri, il discorso del Nord e del Sud vogliamo dire che il Nord è la porzione dell’umanità sviluppata perché ha scelto la categoria dell’ avere come categoria suprema, e questo ha determinato un collasso ed una epidemia di fame in tutto il Sud.
Noi siamo alla resa dei conti.
Noi non rimedieremmo affatto a questa situazione semplicemente collettivizzando i beni, occorre ristabilire un principio base che è quello del rapporto fra l’uomo e l’uomo e l’uomo e le cose.   (Ernesto Balducci – da: “Il Vangelo della pace” – vol 1)

 ***

 In questo brano del vangelo di Matteo Gesù conferma quanto annunziato nelle  beatitudini. Chi si prende del bene dell’altro e del benessere del proprio fratello, permetterà al Padre di prendersi cura di lui. Per questo il brano comincia dal capitolo 6, versetto 24 di Matteo, con l’avvertimento di Gesù “Non potete servire Dio e la ricchezza”.
…..  Gesù invita a mettere la propria sicurezza non in quello che uno ha e trattiene per sé, ma in quello che uno dà e condivide con gli altri.  …. 
[ Continua] Gesù, «Non preoccupatevi»” …. degli elementi essenziali della vita, quali sono il mangiare, il bere o il vestire, e porta degli esempi.
Dice: «Guardate gli uccelli del cielo»”. Perché fa proprio questo esempio degli uccelli del cielo?
 Perché erano ritenuti animali inutili e nocivi, animali per i quali il Signore non veniva benedetto. Addirittura nel vangelo di Luca si parla di corvi, che erano considerati animali impuri. Quindi gli elementi più inutili e insignificanti della creazione.  Ebbene, dice Gesù «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre»”.
Questo di Gesù non è l’invito a un fatalismo in cui si attende che la provvidenza faccia tutto. No! Gesù dice “Se Dio nutre gli uccelli del cielo che non seminano, non mietono, né raccolgono, quanto più voi che seminate, mietete e raccogliete. Quindi non è un invito a non far nulla, ma ad impegnarsi attivamente senza preoccupazione.
E poi Gesù fa l’esempio che nessuno può allungare la propria vita oppure il vestito e poi dice: “«Osservate i fiori di campo»”., i fiori più comuni, quelli la cui durata era appena di un giorno. E Gesù assicura che “«neanche Salomone, con tutta la sua gloria»”, cioè la sua vanità, «era vestito come uno di loro»”. Allora l’insegnamento di Gesù: “«Se Dio veste l’erba del campo, che dura appena un giorno, oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi …»”, e qui c’è il rimprovero di Gesù, “«.. gente di poca fede?»
 Poca fede non significa che si crede poco, ma mancanza di fiducia.
Se voi vi impegnate per il bene degli altri, il Padre si prenderà cura di voi, a tutto vantaggio degli uomini!
Poi , per la seconda volta, Gesù  dice: “Non preoccupatevi dunque dicendo: ‘Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?’»e fa un paragone molto forte. «Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani»”, quelli che non credono nel Padre. Quindi se voi vi preoccupate per la vita, di quello che avete, ecc, siete come persone che non conoscono il Padre. E, assicura Gesù: «Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno»”.
L’assicurazione di Gesù è che al Padre non bisogna chiedere perché il Padre precede le richieste degli uomini, lui conosce i bisogni degli uomini, quindi l’azione del Padre precede sempre la richiesta del figlio.
Ed ecco l’invito finale. «Cercate»”, cioè adoperatevi, datevi da fare, “«invece, anzitutto, il regno di Dio»”, cioè questa nuova comunità alternativa alla società, dove al posto dell’avere ci sia il condividere, al posto del comandare ci sia il servire, «e la sua giustizia»” , dove per giustizia si intende la fedeltà  a quanto annunziato nelle beatitudini per creare una società alternativa.
“«E tutte queste cose»”, quindi il mangiare, il bere e il vestire, “«vi saranno date»”, non nella misura in cui ne necessitate, ma “«in aggiunta»”.
Ed ecco l’ultimo invito a non preoccuparsi, per la terza volta. «Non preoccupatevi dunque del domani»”. ….. Come oggi avete sperimentato l’azione provvidenziale del Padre che si è preso cura di voi, anche domani questo accadrà.
E conclude Gesù: «A ciascun giorno basta la sua pena»”, cioè il problema, l’affanno, la preoccupazione, non devono essere proiettati nel futuro, ma ogni giorno il Signore risponde ai bisogni dei suoi figli. ( A. Maggi )
 
 
 

Quaresima. – Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.

ProdigoRiflessioni di Enzo Bianchi : Avvenire, 23 febbraio 2014
( Nella riflessione molti i riferimenti al Messaggio di Papa Francesco per la quaresima 2014, scaricabile alla fine della riflessione)
Si avvicina il tempo della quaresima, tempo dei quaranta giorni precedenti la Pasqua, tempo da viversi come penitenziale, impegnati nel rinnovamento della conversione, tempo che la chiesa vive e celebra dalla metà del IV secolo d.C.
La quaresima – che la chiesa con audacia chiama “sacramento” (“annua quadragesimalis exercitia sacramenti”: colletta della I domenica di Quaresima), cioè realtà che si vive per partecipare al mistero – è un tempo “forte”, contrassegnato da un intenso impegno spirituale, per radunare tutte le nostre energie in vista di un mutamento del nostro pensare, parlare e operare, di un ritorno al Signore dal quale ci allontaniamo, cedendo costantemente al male che ci seduce. La prima funzione della quaresima è il risveglio della nostra coscienza: ciascuno di noi è un peccatore, cade ogni giorno in peccato e perciò deve confessarsi creatura fragile, sovente incapace di rispondere al Signore vivendo secondo la sua volontà.
Il cristiano non può sentirsi giusto, non può ritenersi sano, altrimenti si impedisce l’incontro e la comunione con Gesù Cristo il Signore, venuto per i peccatori e per i malati, non per quanti si reputano non bisognosi di lui (cf. Mc 2,17 e par.). Con l’Apostolo il cristiano dovrebbe dire: “Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io” (1Tm 1,15). Ecco, riconoscere il proprio peccato è il primo passo per vivere la quaresima, e i padri del deserto a ragione ammonivano: “Chi riconosce il proprio peccato è più grande di chi fa miracoli e risuscita un morto”.
Il cammino quaresimale si incomincia con questa consapevolezza, e perciò la chiesa prevede il rito dell’imposizione delle ceneri sul capo, con le parole che ne esprimono il significato: “Sei un uomo che, tratto dalla terra, ritorna alla terra, dunque convertiti e credi alla buona notizia del Vangelo di Cristo!”. Così si vive un gesto materiale, una parola assolutamente decisiva per la nostra identità e la nostra chiamata.
Di conseguenza, nei quaranta giorni quaresimali si dovrà intensificare l’ascolto della parola di Dio contenuta nelle sante Scritture e la preghiera; si dovrà imparare a digiunare per affermare che “l’uomo non vive di solo pane” (Dt 8,3; Mt 4,4; Lc 4,4); ci si dovrà esercitare alla prossimità all’altro, a guardare all’altro, a discernere il suo bisogno, a provare sentimenti di com-passione verso di lui e ad aiutarlo con quello che si è, con la propria presenza innanzitutto, e con quello che si ha.
 Lo stile di Dio
 Per la quaresima di quest’anno papa Francesco ha inviato, com’è consuetudine, un messaggio ai cattolici, ispirandosi significativamente a un testo, anzi a un solo versetto densissimo di cristologia della Seconda lettera di Paolo ai Corinzi: “Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9).
Anche Benedetto XVI nel messaggio quaresimale del 2008 si era lasciato ispirare dallo stesso versetto, che è davvero un’affermazione decisiva perché condensa in sé l’incarnazione del Figlio di Dio, mettendone nel contempo in risalto lo stile. Sì, la fede della chiesa di Corinto, fondata dall’Apostolo da pochissimi anni, confessa che Dio si è fatto uomo in Gesù, confessa che Gesù il Cristo, che era Figlio di Dio, che era Dio, al quale tutto apparteneva – potenza, eternità, ricchezza, gloria –, si è spogliato di tutte queste prerogative e si è dunque fatto uomo tra di noi, uomo fragile, mortale, per essere in mezzo a noi, uno di noi, un figlio di Adamo come noi.
Ecco lo stile del nostro Dio, non di un qualsiasi Dio. Io amo dire che il nostro Dio è un “Dio al contrario” perché si rivela nella debolezza, nella povertà, nell’insuccesso secondo il mondo, nel servire noi anziché chiedere il nostro servizio. Questo è scandaloso, perché noi abbiamo l’immagine – che gli uomini sempre fabbricano e rinnovano – di un Dio potente, che regna, che si impone. Se il nostro Dio è un “Dio al contrario” rispetto alle nostre attese mondane, anche suo Figlio, l’Inviato nel mondo, il Messia, è un “Messia al contrario”.
Non è venuto nello splendore, nella gloria, nella straordinarietà di teofanie che abbagliano, ma nella povertà, nascendo non a caso in una stalla, come uno che non ha trovato un luogo in cui venire al mondo neppure in un caravanserraglio (cf. Lc 2,7).
Questo, lo sappiamo, è “lo scandalo della croce” (Gal 5,11), è ciò che lo stesso Paolo confessa nella Lettera ai Filippesi, in quell’inno che contiene il medesimo movimento: dal cielo alla terra, dalla condizione di Dio a quella mortale, da Signore a schiavo, da Onnipotente a crocifisso in una morte ignominiosa, “obbediente fino alla morte, e alla morte di croce” (cf. Fil 2,6-8). Citando il concilio, papa Francesco ricorda: “Dio in Gesù ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo” (Gaudium et spes 22).
È in questa povertà che Gesù, il Figlio di Dio, ha voluto stare con noi, essere l’Emanuele, il Dio-con-noi (cf. Is 7,14; Mt 1,23). Questa sua povertà, che era kénosis, svuotamento, abbassamento, ha permesso a Gesù la prossimità a noi, il condividere la nostra condizione, e dunque gli ha permesso di amare nell’empatia e nella simpatia per noi. E così ci ha insegnato la via della fiducia, del servizio, dell’“amore fino alla fine” (cf. Gv 13,1), della compassione e del perdono. Quella povertà che il Messia ha assunto è diventata per noi una via di ricchezza, certo non mondana, ma una ricchezza di comunione con Dio stesso e con tutti gli uomini.
In questo messaggio, dunque, papa Francesco non fa soltanto un’esortazione morale ai cristiani, ma ricorda innanzitutto la fonte di ogni azione cristiana: la fede. Dalla fede, infatti, scaturisce l’autentica carità; è conoscendo veramente Gesù Cristo che noi possediamo la vita per sempre (cf. Gv 17,3); è conformandoci a lui nella nostra vita, è vivendo come lui ha vissuto e con il suo stile che possiamo seguirlo e partecipare al suo Regno. Questo riguarda ciascuno di noi e riguarda la chiesa tutta. Sempre nel concilio Vaticano II si legge un passo purtroppo poco ricordato, ma profondamente ispirato alla lettura dell’incarnazione fatta da Paolo: “Come Cristo ha realizzato la sua opera di redenzione nella povertà e nelle persecuzioni, così pure la chiesa è chiamata a percorrere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza, … e benché per eseguire la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, la chiesa non è fatta per cercare la gloria sulla terra” (Lumen gentium 8).
 Lo stile del cristiano
 Dopo la confessione della fede, ossia il fondamento teologico, papa Francesco richiama brevemente la necessaria testimonianza dei cristiani. Come Dio ha voluto salvare gli uomini con la povertà, così la chiesa e ogni cristiano devono percorrere la stessa via, perché la “ricchezza di Dio” può essere accolta e operare là dove c’è la povertà umana.
E dove c’è la povertà umana – lo constatiamo ogni giorno a partire dalla conoscenza di noi stessi – là c’è anche la miseria. La povertà è la nostra condizione umana fragile e la miseria si insinua in essa minacciando fortemente l’humanitas, il nostro cammino di umanizzazione. La povertà è la condizione in cui è possibile conoscere la beatitudine (“Beati voi poveri”: Lc 5,20); la miseria è il degrado della povertà, è l’alienazione, l’oppressione e la schiavitù che in essa si può insinuare, contraddicendo la dignità e la vocazione dell’uomo.
Il nostro Dio, rivelatosi ai figli di Israele con la loro liberazione dalla schiavitù d’Egitto, è un Dio che “ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza …, guardò la loro condizione e se ne diede pensiero” (Es 2,24-25). Così si è rivelato Dio e così noi dobbiamo fare. Innanzitutto “ascoltare” l’altro, gli altri: ascoltarli nel loro essere uomini e donne, fratelli e sorelle in umanità. È decisivo l’ascolto dell’altro, prima di ogni nostra scelta o comprensione di lui: là dove c’è un uomo, una donna, io devo mettermi in ascolto.
Dopo l’ascolto dell’altro il cristiano “ricorda” che anche lui è stato ascoltato da Dio, anzi che Dio lo ha preceduto in ogni sua ricerca di comunione, e dunque deve riconoscere la paternità di Dio che fonda nella fede la fraternità e la sororità. Ecco allora il “guardare”, che non significa solo vedere, ma avvicinarsi e guardare l’altro negli occhi, volto contro volto, negando ogni lontananza. Soprattutto oggi, immersi come siamo nella comunicazione in tempo reale, ma senza incontrare nella realtà l’altro, dobbiamo vigilare che la prossimità sia sempre esercitata come un passo che decidiamo per rendere l’altro prossimo (cf. Lc 10,36). E infine, quando sappiamo guardare l’altro e discernere il suo bisogno, la sua sofferenza sempre diversa, quando riconosciamo la sua singolarità nel patire, allora “ci diamo pensiero”, ci prendiamo cura di lui, come fa il nostro Dio!
Così facendo, scopriremo la miseria materiale, il bisogno di cibo, vestito e casa, presente nell’altro; scopriremo la miseria morale, l’alienazione al vizio, la degradazione delle persone in cammini di schiavitù, che spingono uomini e donne sulla via della morte, vittime della storia e dell’egoismo umano; scopriremo anche la miseria spirituale di chi è alienato agli idoli, non conosce una vita interiore, non dà senso alla propria vita. Il papa ci invita dunque alla diakonía, parola del Nuovo Testamento che indica il servizio agli altri. Se il Figlio di Dio si è fatto povero per stare in mezzo a noi, per essere come noi, si è fatto anche “servo” per servirci, per piegarsi davanti a noi, per lavarci i piedi (cf. Gv 13,1-15): “io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27), ha detto Gesù.
Questo il denso messaggio delle parole di papa Francesco, che così conclude, citando ancora una volta Paolo: “Sì, noi siamo come afflitti, ma sempre lieti; come poveri, ma capaci di arricchire molti; come gente che non possiede nulla e invece possediamo tutto” (2Cor 6,10). Se davvero tutti i cristiani cattolici, sulla traccia fornita da papa Francesco, tentassero con risolutezza di vivere questa quaresima, allora la riforma della chiesa che tanti aspettano e chiedono a Francesco potrebbe muovere i primi passi. Ma si smetta di chiedere al papa di operare lui ciò che riguarda tutti noi e che dovrebbe farci mutare qualcosa della nostra vita cristiana: dovrebbe farci operare la conversione, nulla di più, nulla di meno.
Messaggio di Papa Francesco per la quaresima 2014

VII Domenica del T. O. – Il nemico c'è perchè lo produciamo noi … La novità del nostro essere cristiani è vivere senza avere nemici !!!

Gesù parlaDa due domeniche siamo in ascolto del discorso della montagna, fatto da Gesù ai discepoli e alle folle, secondo Matteo. Oggi ascoltiamo le ultime due antitesi pronunciate da Gesù: “Avete inteso che fu detto … ma io vi dico”. ( E. Bianchi )
Gesù continua a prendere le distanze dalla legislazione di Mosè per presentare un’alternativa di società e un modo nuovo per rapportarsi con il Signore .
 «Ma io vi dico: ‘Non opporvi al malvagio’»”.
Non significa questo invito di Gesù ad essere delle persone passive che accettano ogni prepotenza. Il cristiano non è questo, anzi. Ma significa spezzare il cerchio della violenza, proporre iniziative di bene, di amore e di pace, che disinneschino questo odio e questa violenza che si abbattono su di te.
Per questo quando Gesù dice «Se uno di da uno schiaffo sulla guancia destra tu porgigli anche l’altra»”, non significa passare da stupidi. Gesù non ci chiede di essere stupidi, tonti, ma buoni fino in fondo.
Di fatto l’unica volta nel vangelo di Giovanni che Gesù prende uno schiaffo, mica ha presentato l’altra guancia, ma ha detto: “Se ho sbagliato mostrami dove ho sbagliato, se non ho sbagliato perché questa violenza?”
Quindi Gesù invita a non opporre alla violenza che viene addosso altra violenza, altrimenti questa cresce e poi dopo diventa un crescendo interminabile di violenza che genera altra violenza.  …
 Il credente è colui che, di fronte alla violenza dell’altro, gli fa comprendere:  … Poi Gesù passa a toccare uno dei piedistalli della spiritualità ebraica, «Avete inteso che fu detto: ‘Amerai il tuo prossimo …e odierai il tuo nemico … ma io vi dico: amate i vostri nemici’ ( A Maggi )
 … Il nemico c’è perché lo produciamo noi. Noi produciamo l’immagine del nemico, gli diamo una maschera colorata dalla nostra passione, dal nostro risentimento e dai nostri interessi. Il nemico diventa terribile. Questo è vero anche nell’ educazione dei bambini.
Ricordo che quando ero piccolo la stessa parola «austriaco» mi faceva paura e quando per caso incontrai un austriaco lo guardai meravigliandomi che fosse un uomo come gli altri.
Ci avevano insegnato che gli austriaci erano i nemici. Simili condizionamenti, in tempi più tragici come il nostro, possono essere fatali.
La prima condanna che noi dobbiamo far nostra e meditare per trasformarla in sostanza culturale, in clima quotidiano, è quella dell’idea del nemico: non ci sono nemici.
Lo so che a livello politico possono esserci, ma ne prenderò atto nel regime di necessità in cui mi trovo, ma quel regime di necessità. non sarà costituito da una specie di impulso biologico.
Come ho detto più volte, la novità del nostro essere cristiani, in questo ultimo scorso del secondo millennio, è che oggi potremmo finalmente vivere senza avere nemici.
Noi siamo stati educati, sempre, all’idea che i cristiani hanno dei nemici.
…   Chi ha paura dei nemici ha una paura che nasce dal fatto che è lui il nemico, è lui che ha prepotenze interne, ha volontà di conquista, ha la libidine del potere ed è proprio per camuffare questa sua ferinità che egli si costruisce l’avversario.
C’è tutta una storia di avversari che abbiamo combattuto mentre il male era dentro di noi.
Finalmente ci è possibile – non è che questo sia un costume generalizzato – dirci cristiani senza avere nemmeno un nemico. E se per caso c’è un nemico, è quello a cui vogliamo bene, per cui preghiamo e che semmai vorremmo smontare, dal suo stato di ingiusta inimicizia, attraverso un di più di amicizia: questo ci dice il Signore.
Non e questo un principio riservato ad una élite, è un principio che è condizione di sapienza per tutti gli uomini: questa è la nostra certezza.
Siamo arrivati ad un punto in cui la stoltezza di questo mondo ha toccato e il limite, e il limite è quello in cui una tendenza si sviluppa fino a negare se stessa.

(Ernesto Balducci – da: “Il Vangelo della pace” – vol. 1)

Per ‘amare’ Gesù non ha scelto il verbo greco fileo, da cui filosofia, filantropia, una mole di benevolenza che riceve qualcosa in cambio, ma il verbo agapao, da cui la parola agape che tutti conosciamo, che significa un amore che è indipendente dalla qualità di colui che lo riceve, è indipendente dalla risposta dell’altro. Quindi di un amore che non guarda i meriti della persona che viene amata, un amore che si genera per il bisogno dell’altro, non per la risposta che se ne può avere. ….

 E poi Gesù dà un’immagine di cosa significa questo amore, «Egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni»”, è un’offerta di vita che è rivolta a tutti.
Il Dio di Gesù non è buono, è esclusivamente buono, lui non guarda i meriti delle persone, ma guarda i loro bisogni. Non è il Dio che premia i giusti e castiga i malvagi, ma a tutti, giusti e malvagi, offre il suo amore.
E poi Gesù fa un altro esempio, «E fa piovere sui giusti e sugli ingiusti»”. Quindi questi esempi, che sono comprensibili a tutti, il sole e la pioggia, vogliono dire che l’amore di Dio è un amore dal quale nessuna persona si può sentire esclusa. Gesù non discrimina tra meritevoli e no, tra puri e impuri, ma il suo amore si rivolge a tutti quanti.
E poi Gesù dice: “Se amate e salutate”, e prende le categorie ritenute più lontane da Dio, i pubblicani, quelli che erano impuri fino all’essenza stessa della persona e i pagani, quelli che avevano altre divinità.
“Se amate e salutate quelli che vi amano e vi salutano che fate di più? Siete come quelli che sono impuri profondamente e quelli che sono senza Dio, i pagani”.
Ed ecco l’invito finale di Gesù: «Voi dunque siate perfetti …»”, che significa essere pieni, completi, “«come è perfetto il Padre vostro celeste»”. Ecco, dopo tutto questo, allora capiamo bene cosa significa questo invito alla perfezione. Significa essere buoni fino in fondo. E questa non è una virtù, un eroismo straordinario possibile soltanto ad alcuni, ma essere buoni fino in fondo è dentro le capacità e le possibilità di ogni persona.
Quando si realizza questo la vita del credente si intreccia con quella di Dio e diventa una sola cosa; l’uomo permette a Dio di essergli Padre e sperimenta la sua presenza intima, profonda, in ogni avvenimento della propria esistenza e della propria vita. ( A. Maggi )
 
 
 

Quando il Papa ritornò "solo" un uomo.

papi( Da  ” la Stampa” 11 febbraio 2014 di ENZO BIANCHI )
Un anno fa «un fulmine a ciel sereno», come disse il cardinal Sodano, raggiunse la chiesa cattolica, impreparata a vivere una situazione inedita da molti secoli: un vescovo emerito di Roma vivente sotto un nuovo pontificato.
Cosa aveva condotto Benedetto XVI a compiere il gesto delle dimissioni?
La situazione di conflittualità, di scandali nella curia romana stimolava ancor di più le domande che assumevano anche contorni inquieti.
In verità Benedetto XVI nella sua breve dichiarazione di rinuncia aveva affermato l’essenziale: in ragione dell’età avanzata, essendo venute meno le forze necessarie, non si sentiva più adeguato all’esercizio del suo ministero e perciò, in obbedienza alla sua coscienza esercitata nell’ascolto della parola di Dio e nella preghiera, si ritirava nel nascondimento per essere intercessore per la chiesa.
Una novità, questa icona di preghiera nella chiesa assunta da un successore di Pietro, una novità eloquente per tutti i cattolici che hanno amato e ascoltato questo papa come per quelli che hanno accolto magari con fatica il suo magistero. Nella messa che il cardinale Ratzinger, allora arcivescovo di Monaco, aveva celebrato in occasione della morte di papa Paolo VI nel lontano 1978 così aveva affermato: «Possiamo immaginare come poteva essere pesante il pensiero di non poter appartenere a se stesso… essere incatenato fino alla fine, con il suo corpo che l’abbandonava, a un compito che esige, giorno dopo giorno, l’impegno vivo e pieno di tutte le forze umane». Ratzinger dunque era abitato da un pensiero chiaro, maturato da tempo sulla doverosa rinuncia da compiere al venir meno delle forze: come aveva detto a se stesso, così ha fatto.
Ma c’era in lui anche un’altra ragione che lo ha condotto alla rinuncia: la sua convinzione teologica – piuttosto rara per un pontefice – che, pur diventato papa, restasse una distinzione profonda tra il suo ministero e la sua dimensione di semplice uomo e cristiano. Non a caso, quando ha pubblicato la sua trilogia su Gesù di Nazareth, ha voluto firmare i libri come semplice autore teologo, senza munirli del magistero papale. Possiamo dire che Benedetto XVI non ha mai dimenticato ciò che Bernardo di Chiaravalle scriveva a papa Eugenio III: «Ricordati che sei un uomo, nato da una donna…». Così anche nella rinuncia Ratzinger ha saputo mostrare la sua umiltà, il suo volere innanzitutto il bene della chiesa, il confessare la propria debolezza e fragilità, l’accettare di veder ridotte tutte le competenze a un solo mandato: l’intercessione. D’altronde questo esito di una vita nel ministero pastorale è conosciuto ormai da decenni da tanti vescovi che, raggiunti i settantacinque anni, lasciano l’esercizio della presidenza episcopale nella chiesa locale e si ritirano – «fanno anacoresi», nel linguaggio biblico – e continuano a essere intercessori.
Benedetto XVI ha avuto un pontificato relativamente breve, solo otto anni, ma è stato altamente significativo per tutte le chiese in virtù della qualità teologica del suo magistero in cui la parola di Dio, Gesù Cristo era il solo centro. Ho conosciuto il teologo Ratzinger in convegni internazionali, l’ho incontrato più volte in occasione della stesura di un volume sull’esegesi da lui voluto  e per il quale fu chiesto che un contributo mio e uno dell’esegeta De la Potterie si affiancassero a quello di Ratzinger. Ho poi avuto il dono, poco dopo la sua elezione a papa, di una lunga e per me memorabile udienza  i cui temi di riflessione sono stati l’ecumenismo, la vita monastica e la liturgia. Gli sono grato per avermi nominato esperto ai due sinodi dei vescovi sulla parola di Dio  e sulla nuova evangelizzazione.
Anche quando alcuni suoi atti chiedevano alla chiesa obbedienza e io faticavo a comprenderne le ragioni, temendone una ricezione distorta, non per questo la mia obbedienza è venuta meno. Sono sempre più convinto che Benedetto XVI purtroppo sia stato letto nell’ottica di molti che, pur dicendosi a lui fedeli, in realtà ne deformavano l’immagine finendo per strumentalizzarlo per loro battaglie non dettate da spirito evangelico.
Oggi, anche grazie alla rinuncia di un anno fa, è vescovo di Roma e papa Francesco, che ha inaugurato una primavera in tutta la chiesa. C’è molta attesa e il suo annuncio del vangelo nella mitezza, nel rispetto di tutti, nell’affermazione del primato dell’amore misericordioso di Dio – che ci ama senza che noi dobbiamo meritarlo – di fatto raggiunge e tocca molti uomini e donne finora indifferenti alla fede. È arrivata un’altra stagione e la chiesa ancora una volta sente sete di rinnovamento e di riforma, come ai giorni di papa Giovanni: non a caso il segretario di quest’ultimo, Loris Capovilla, è stato creato cardinale da papa Francesco a 98 anni…
Ma non mi stanco di ripetere che se ci sarà una riforma evangelica della chiesa tutta, di tutte le membra del corpo, allora però la vita cristiana sarà più difficile, più contraddetta dalle potenze mondane: la testimonianza resa a Gesù Cristo sarà maggiormente segno di contraddizione perché ogni volta che il vangelo appare con più evidenza nella storia, anche la croce che ogni cristiano deve abbracciare e portare emerge più manifesta. Nessuna illusione: il regno di Dio deve ancora venire e i cristiani devono attenderlo e annunciarlo con la vita, a caro prezzo, anche a costo della vita stessa.

I concili nei secoli
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I° CONCILIO DI NICEA



I° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



I° CONCILIO DI EFESO



I° CONCILIO DI CALCEDONIA



II° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



III° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



II° CONCILIO DI NICEA



IV° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



LETTERA A DIOGNETO


I° CONCILIO LATERANENSE



II° CONCILIO LATERANENSE



II° CONCILIO LATERANENSE



IV° CONCILIO LATERANENSE



I° CONCILIO DI LIONE



II° CONCILIO DI LIONE



CONCILIO DI VIENNA



CONCILIO DI COSTANZA



CONCILIO DI BASILEA



V CONCILIO LATERANENSE


CONCILIO DI TRENTO



CONCILIO VATICANO I°

Incontri sulla Dei Verbum
Incontri sulla “ DEI VERBUM” Comunità Itria dal 26 Novembre 2018. Per accedervi click sull’icona che scorre di seguito .
Introduzione alla lectio divina
Cliccando sulla copertina del libro o sulla voce del menu “ pregare la parola” leggiamo ogni giorno una pagina del libro di Enzo Bianchi per entrare nello spirito della Lectio Divina.
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Di sinodalità si può morire

Documento
preparatorio
del Sinodo
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Transito di Madre
Agnese Magistretti

I Migranti sono
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non questioni
migratorie

Riflessioni sui
Migranti:
ricordando
La storia
di Ruth

P. Sorge
La politica
di chiusura
Mostrerà
la propria
disumanità

Lettera al
Presidente
della Repubblca
delle clarisse
carmelitane

Il nuovo patto
delle Catacombe
Chiesa povera
per i poveri

Cardinale Zuppi
a "Che tempo che fa"