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tirisan

Domenica delle Palme: È questa la fede cristiana: la morte si capovolge in vita…

palmeLa fede cristiana non ha come suo oggetto una dottrina, né un mondo immaginario collocato oltre lo spazio e il tempo, ma ha come suo contenuto l’evento di cui abbiamo ascoltato la narrazione, nel quale essa ripone il significato di tutta la storia dell’umanità.
È questa dunque la particolarità della nostra fede: essa si innesta in un fatto che, per quanto abbia dato luogo a spiegazioni e dottrine, rimane in se stesso impenetrabile e misterioso.
Esso è un fatto in cui, anche guardandolo senza la particolare illuminazione della fede, vengono ad intrecciarsi mirabilmente gli aspetti più essenziali della nostra esperienza umana, privata e pubblica.
Intanto, esso è un fatto politico; quella morte non è una morte qualsiasi, è una morte preparata secondo le leggi, preparata dai poteri terreni – sia quelli sacri che quelli profani – e voluta anche dalla folla che ad un certo punto, integrata nella ideologia dei potenti, si associa alla trama dei nemici di Gesù e dice: «Crocifiggilo».
È una morte voluta dalla società intera in cui Gesù era passato annunciando il regno.
Da qui il carattere di catastrofe che ha questo fatto.
L’uomo che spira sul monte del Cranio aveva sollevato entusiasmo nei poveri, aveva promesso il possesso della terra ai miti, aveva dato adempimento alle speranze inestinguibili che si erano trascinate lungo i secoli nascoste e represse.
Quest’uomo, in cui i discepoli avevano creduto appassionatamente, viene eliminato.
Il terremoto è come la traduzione cosmica dell’evento: è veramente la catastrofe delle speranze umane.
Gli spiriti più attenti, che non sono stati in grado di cogliere in questo evento nessun annuncio di salvezza, hanno sempre addotto la croce come il segno che per gli uomini giusti in questo mondo non c’è posto, che la giustizia di un uomo lo rende escluso o condannato.
È una verità che con il passare dei secoli non si è per niente appannata.
Noi sappiamo che è così.
Solo attraverso compromessi, più o meno dignitosi, ci è possibile immaginare un giusto che sopravvive e se ci mattiamo nella categoria dobbiamo riconoscere che sicuramente se non siamo esclusi è perché qualche peccato c’è, o in noi o nel mondo a cui apparteniamo.
Siamo sorretti dalle complicità che ci precedono, che ci sovrastano ed il cui peso ricade sulle vittime dell’ingiustizia, della persecuzione, della repressione politica, della fame, che sono sempre presenti in questo mondo.
La passione che abbiamo ascoltato continua in proiezione cosmica.
Quando rileggo e medito questo evento sono preso da un’impressione forte, che potrei tradurre con le stesse parole che Gesù disse prima di essere condotto via dall’orto del Getsemani: «Questa è la vostra ora, è l’impero delle tenebre».
L’imperio delle tenebre ha il suo acme nel momento in cui Egli spira, in cui il crimine è stato compiuto.
Dal punto di vista dei valori, dal punto di vista di una prospettiva positiva della storia umana quello è il punto zero, perché ciò che è avvenuto avviene per tutti i secoli dei secoli.
La croce è, innanzitutto, la memoria – semmai ci scappasse di mente –della inevitabilità della catastrofe della morte.
La fede cristiana non scavalca la morte, non la circonda con favole, ma vi si precipita, l’assume come misura di tutte le cose. L’ora delle tenebre continua, la portiamo in noi, respira nelle nostre cellule, prepara le sue trame.
Mettersi nel buio di quest’ora è per noi stare nella verità.
Ma questo evento non riguarda soltanto il nostro destino individuale chiuso dentro la parabola inevitabile degli anni, riguarda l’intera storia dell’umanità che ha al sua ora delle tenebre in cui tutto è azzerato: tutto ciò che fu gloria e grandezza è nulla.
Un aspetto singolarissimo di questo racconto – che non vi sarà fuggito – è come, veduto dalla parte del condannato, la storia degli uomini – quella di Pilato, con l’impero che ha dietro, di Caifa con l’epopea di salvezza del popolo giudaico, di Erode il furbo potente che giudica Gesù Cristo come un pazzo e come tale lo rimanda a Pilato – è segnata da una terribile ironia sulle espressioni istituzionali.
Mi vengono in mente le parole di un imperatore romano: «Fabula acta est» (la commedia è finita).
Le trame di Caifa, Pilato, Erode e di ciò che è dietro di loro sono una commedia.
Il potere che Gesù descrive ai suoi discepoli in maniera così precisa quando li esorta a non comportarsi come i potenti di questo mondo appare veramente come una smisurata commedia.
C’è, nel potere, la menzogna, la falsità la presunzione degli uomini di poter decidere del destino degli altri, il gusto satanico del comando e finalmente il trionfo attraverso il rispetto delle regole della legge che danno la presunzione di compiere un crimine con innocenza.
Tutto questo appare come una tragica commedia.
L’occhio della croce rimane in noi quando osserviamo la storia di cui siamo partecipi.
Questi potenti che fanno follie (che non sembrano tali perché anche noi siamo omologati alla follia), che sperperano capitali per le loro grandezze, che preparano guerre impossibili, dissanguando per questo i popoli, a questo sguardo essenziale, che azzera la storia rivelano una loro intima comica tragicità.
Momento grande della sapienza della croce.
Di fronte a questo sguardo non resiste nulla: né il Vaticano, né la Casa Bianca, né il Cremino perché tutto è commedia. A meno che – e qui comincia il linguaggio della fede – questa vanità che finalmente si discopre senza appelli possibili – perché il nulla non ha confini – si capovolga del tutto .
È questa la fede cristiana: la morte si capovolge in vita…
balducciErnesto Balducci – da: “Gli ultimi tempi” – volume 3 – anno C

Fede, forza e tenerezza nell'omelia di Papa Francesco nella Messa di inzio del Ministero Petrino.

www.chiesadicefalu.it.comwww.chiesadicefalu.it.comPapa Francesco tra la gente, nel giorno dell’inizio del Ministero Petrino, più volte ha rotto il ” protocollo “, e l’ha fatto per abbracciare i piccoli e gli indifesi.
Nell’omelia  non un programma  del suo pontificato ; Papa Francesco ha parlato della fede, della forza e della tenerezza di un santo a cui è devotissimo e che la Chiesa ieri ricordava: Giuseppe, sposo di Maria.
Di seguito il testo dell’omelia. Cliccando sulle due immagini del post è possbile aprire dei video significativi della giornata.
Cari fratelli e sorelle!
Ringrazio il Signore di poter celebrare questa Santa Messa di inizio del ministero petrino nella solennità di San Giuseppe, sposo della Vergine Maria e patrono della Chiesa universale: è una coincidenza molto ricca di significato, ed è anche l’onomastico del mio venerato Predecessore: gli siamo vicini con la preghiera, piena di affetto e di riconoscenza.
Con affetto saluto i Fratelli Cardinali e Vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i religiosi e le religiose e tutti i fedeli laici. Ringrazio per la loro presenza i Rappresentanti delle altre Chiese e Comunità ecclesiali, come pure i rappresentanti della comunità ebraica e di altre comunità religiose. Rivolgo il mio cordiale saluto ai Capi di Stato e di Governo, alle Delegazioni ufficiali di tanti Paesi del mondo e al Corpo Diplomatico.
Abbiamo ascoltato nel Vangelo che «Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’Angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24). In queste parole è già racchiusa la missione che Dio affida a Giuseppe, quella di essere custos, custode. Custode di chi? Di Maria e di Gesù; ma è una custodia che si estende poi alla Chiesa, come ha sottolineato il beato Giovanni Paolo II: «San Giuseppe, come ebbe amorevole cura di Maria e si dedicò con gioioso impegno all’educazione di Gesù Cristo, così custodisce e protegge il suo mistico corpo, la Chiesa, di cui la Vergine Santa è figura e modello» (Esort. ap. Redemptoris Custos, 1).
Come esercita Giuseppe questa custodia? Con discrezione, con umiltà, nel silenzio, ma con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprende. Dal matrimonio con Maria fino all’episodio di Gesù dodicenne nel Tempio di Gerusalemme, accompagna con premura e tutto l’amore ogni momento. E’ accanto a Maria sua sposa nei momenti sereni e in quelli difficili della vita, nel viaggio a Betlemme per il censimento e nelle ore trepidanti e gioiose del parto; nel momento drammatico della fuga in Egitto e nella ricerca affannosa del figlio al Tempio; e poi nella quotidianità della casa di Nazaret, nel laboratorio dove ha insegnato il mestiere a Gesù.
Come vive Giuseppe la sua vocazione di custode di Maria, di Gesù, della Chiesa? Nella costante attenzione a Dio, aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio; ed è quello che Dio chiede a Davide, come abbiamo ascoltato nella prima Lettura: Dio non desidera una casa costruita dall’uomo, ma desidera la fedeltà alla sua Parola, al suo disegno; ed è Dio stesso che costruisce la casa, ma di pietre vive segnate dal suo Spirito. E Giuseppe è “custode”, perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge. In lui cari amici, vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo! Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato!
La vocazione del custodire, però, non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. E’ il custodire l’intero creato, la bellezza del creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo. E’ il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. E’ l’aver cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori. E’ il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene. In fondo, tutto è affidato alla custodia dell’uomo, ed è una responsabilità che ci riguarda tutti. Siate custodi dei doni di Dio!
E quando l’uomo viene meno a questa responsabilità di custodire, quando non ci prendiamo cura del creato e dei fratelli, allora trova spazio la distruzione e il cuore inaridisce. In ogni epoca della storia, purtroppo, ci sono degli “Erode” che tramano disegni di morte, distruggono e deturpano il volto dell’uomo e della donna.
Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà: siamo “custodi” della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente; non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo! Ma per “custodire” dobbiamo anche avere cura di noi stessi! Ricordiamo che l’odio, l’invidia, la superbia sporcano la vita! Custodire vuol dire allora vigilare sui nostri sentimenti, sul nostro cuore, perché è proprio da lì che escono le intenzioni buone e cattive: quelle che costruiscono e quelle che distruggono! Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza!
E qui aggiungo, allora, un’ulteriore annotazione: il prendersi cura, il custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza. Nei Vangeli, san Giuseppe appare come un uomo forte, coraggioso, lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza, che non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all’altro, capacità di amore. Non dobbiamo avere timore della bontà, della tenerezza!
Oggi, insieme con la festa di san Giuseppe, celebriamo l’inizio del ministero del nuovo Vescovo di Roma, Successore di Pietro, che comporta anche un potere. Certo, Gesù Cristo ha dato un potere a Pietro, ma di quale potere si tratta? Alla triplice domanda di Gesù a Pietro sull’amore, segue il triplice invito: pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle. Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio e che anche il Papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice luminoso sulla Croce; deve guardare al servizio umile, concreto, ricco di fede, di san Giuseppe e come lui aprire le braccia per custodire tutto il Popolo di Dio e accogliere con affetto e tenerezza l’intera umanità, specie i più poveri, i più deboli, i più piccoli, quelli che Matteo descrive nel giudizio finale sulla carità: chi ha fame, sete, chi è straniero, nudo, malato, in carcere (cfr Mt 25,31-46). Solo chi serve con amore sa custodire!
Nella seconda Lettura, san Paolo parla di Abramo, il quale «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza» (Rm 4,18). Saldo nella speranza, contro ogni speranza! Anche oggi davanti a tanti tratti di cielo grigio, abbiamo bisogno di vedere la luce della speranza e di dare noi stessi la speranza. Custodire il creato, ogni uomo ed ogni donna, con uno sguardo di tenerezza e amore, è aprire l’orizzonte della speranza, è aprire uno squarcio di luce in mezzo a tante nubi, è portare il calore della speranza! E per il credente, per noi cristiani, come Abramo, come san Giuseppe, la speranza che portiamo ha l’orizzonte di Dio che ci è stato aperto in Cristo, è fondata sulla roccia che è Dio.
Custodire Gesù con Maria, custodire l’intera creazione, custodire ogni persona, specie la più povera, custodire noi stessi: ecco un servizio che il Vescovo di Roma è chiamato a compiere, ma a cui tutti siamo chiamati per far risplendere la stella della speranza: Custodiamo con amore ciò che Dio ci ha donato!
Chiedo l’intercessione della Vergine Maria, di san Giuseppe, dei santi Pietro e Paolo, di san Francesco, affinché lo Spirito Santo accompagni il mio ministero, e a voi tutti dico: pregate per me! Amen.

Carlos Murias, prete ucciso dal regime: Il primo beato di Papa Francesco ?

Carlos-de-Dios-MuriasTra i primi beati di papa Francesco potrebbe esserci un suo connazionale, un frate francescano che si ispirava alla teologia della liberazione, ucciso e torturato dalla dittatura argentina.
  Si chiama Carlos de Dios Murias, un giovane frate francescano torturato e ammazzato brutalmente dai militari della provincia di La Rioja, nel 1976.
«La causa per la canonizzazione ‐ ci racconta padre Carlos Trovarelli, provinciale dei francescani in Argentina e Uruguay ‐ l’ha firmata proprio Bergoglio, nel maggio del 2011. E lo ha fatto con discrezione, per evitare che fosse bloccata da altri vescovi argentini, ancora contrari a simili iniziative basate sull’impegno sociale dei sacerdoti».
Carlos Murias era nato nel 1945 a Cordoba. Il padre era un ricco agente immobiliare e un politico assai noto nella regione. Per suo figlio aveva immaginato una carriera da soldato, e lo aveva iscritto al Liceo Militare, ma subito dopo gli studi Carlos era entrato in seminario e poco dopo era stato ordinato sacerdote da Enrique Angelelli, il vescovo militante di La Rioja, famoso per la sua pastorale dei campesinos.
La situazione in quella provincia era un ritratto fedele degli squilibri dell’intero Paese: poche famiglie ricchissime che controllavano tutto, e una marea di lavoratori ridotti quasi in schiavitù. Angelelli si era messo di traverso, e Murias era stato inviato ad aiutare i contadini di un paesino chiamato El Chamical, insieme al prete francese Gabriel Longueville. Doveva fondare una comunità francescana, quando i militari fecero il golpe.
Cominciò a ricevere avvertimenti, convocazioni in caserma, dove i soldati gli spiegavano che «la tua non è la chiesa in cui noi crediamo».
Carlos tirò dritto e il 18 luglio del 1976 venne rapito insieme a Gabriel. Fu rinchiuso nella Base de la Fuerza Aérea di Chamical, e due giorni dopo il suo cadavere fu trovato in mezzo ad un campo: gli avevano cavato gli occhi e tagliato le mani, prima di fucilarlo.
Angelelli celebrò il funerale attaccando i militari: «Hanno colpito dove sapevano che avrebbe fatto più male. Carlos lo avevo ordinato io, e io lo avevo messo in condizione di pericolo».
Due settimane dopo una Peugeot 404 affiancò l’auto di monsignor Angelelli, mentre viaggiava a La Rioja: la macchina del vescovo si ribaltò e lui morì.
La polizia archiviò l’episodio come un incidente, la magistratura ora sta finalmente indagando come se fosse un omicidio.
La parte meno conosciuta di questa storia è quella svolta da Bergoglio, che adesso è stata rivelata da padre Miguel La Civita, stretto collaboratore di Angelelli: «Lo avevo conosciuto durante gli studi. Pochi giorni dopo gli omicidi, prese i nostri seminaristi e li nascose al Colegio Máximo dei gesuiti, di cui era il provinciale. Non sono storie che ho sentito raccontare: le ho vissute, in prima persona. E sia chiara una cosa: io ero l’esatto prototipo di quelli che allora venivano chiamati preti terzomondisti, teologia della liberazione. Con la scusa dei ritiri spirituali, il Colegio era diventata una centrale per aiutare i perseguitati: li nascondevano, preparavano i documenti falsi e li facevano fuggire all’estero. Bergoglio era convinto che i militari non avrebbero mai avuto il coraggio di violare il Máximo».
Lo conferma anche Alicia Oliveira, famosa magistrata perseguitata dai militari e diventata poi attivista dei diritti umani: «Bergoglio propose anche a me di nascondermi in seminario: gli risposi che preferivo essere arrestata dai militari, piuttosto che vivere con dei preti. Si mise a ridere e disse che ero scema: a posteriori, riconosco che aveva ragione lui. Di sicuro so che una volta diede ad un uomo che gli somigliava i suoi documenti veri, e un vestito da sacerdote, per farlo scappare in Brasile. Se questo non significa mettere tutto in gioco, sotto la dittatura militare, spiegatemi voi cosa lo è».
La morte di Carlos Murias, però, è rimasta dentro a Bergoglio.
Difficile capire come certi episodi segnano l’animo umano, in situazioni dove il pericolo estremo diventa quotidianità.
«I gesuiti ‐ spiega Trovarelli ‐ sono  l’avanguardia totale. Credo che la curia generale avesse ordinato attenzione a Bergoglio, e lui dovette trovare il modo di salvare le vite senza esporre troppo quelle dei colleghi».
Fatto sta che appena la diocesi di La Rioja ha avviato la pratica per la canonizzazione, il cardinale l’ha firmata subito.
Era il maggio del 2011, dunque in tempi non sospetti: nessuna campagna papale all’orizzonte.
«Bergoglio firmò e ci consigliò di essere discreti: molti vescovi argentini, soprattutto quelli più anziani, si oppongono alle cause basate sull’impegno sociale. Grazie alla sua cautela, il processo è andato avanti: le testimonianze sono finite e siamo arrivati alla preparazione della positio. E adesso Bergoglio è papa. La volontà di Dio fa miracoli: sarebbe commovente se il primo beato di Francesco fosse Carlos».

PAOLO MASTROLILLI

Papa Francesco: Vorrei una Chiesa per i poveri, che difenda la pace e sia attenta al Creato.

www.chiesadicefalu.it “Ho scelto il nome di Francesco d’Assisi, perché vorrei una Chiesa per i poveri, che difenda la pace e sia attenta al Creato” : sono le straordinarie parole che Papa Francesco ha pronunciato a braccio, stamani, nell’udienza agli oltre 6 mila giornalisti di tutto il mondo ricevuti in Aula Paolo VI.
Poi, a braccio, alcuni particolari del conclave appena concluso.
Racconta che al Conclave sedeva vicino a lui il cardinale Hummes che, una volta raggiunto il numero di voti necessari per essere eletto e dopo l’applauso degli altri cardinali, si è accostato al nuovo Papa e gli ha sussurrato: “Non dimenticare i poveri”:
‘Non dimenticarti dei poveri!’. E quella parola è entrata qui: i poveri, i poveri. Poi, subito in relazione ai poveri ho pensato a Francesco d’Assisi. Poi, ho pensato alle guerre, mentre lo scrutinio proseguiva, fino a tutti i voti. E Francesco è l’uomo della pace. E così, è venuto il nome, nel mio cuore: Francesco d’Assisi. L’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il Creato, in questo momento in cui noi abbiamo con il Creato una relazione non tanto buona, no? E’ l’uomo che ci dà questo spirito di pace, l’uomo povero … Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!”.
Poi alcune  battute riguardanti la scelta del suo nome da Papa:
‘Ma tu dovresti chiamarti Adriano, perché Adriano VI è stato il riformatore, bisogna riformare …’. E un altro mi ha detto: ‘No, no: il tuo nome dovrebbe essere Clemente’. ‘Ma perché?’. ‘Clemente XV: così ti vendichi di Clemente XIV che ha soppresso la Compagnia di Gesù!’. Sono battute … Vi voglio tanto bene, vi ringrazio per tutto quello che avete fatto.”
 Prima di salutare di persona alcuni operatori della comunicazione, ha impartito la sua benedizione, parlando per la prima volta in pubblico in spagnolo, la sua lingua madre, da quando è stato eletto alla Cattedra di Pietro:
Muchos de ustedes no pertenece…
Molti di voi non appartengono alla Chiesa cattolica, altri non sono credenti. Di cuore impartisco questa benedizione, nel silenzio, a ciascuno di voi, rispettando la coscienza di ciascuno, ma sapendo che ciascuno di voi è figlio di Dio. Che Dio vi benedica

I concili nei secoli
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I° CONCILIO DI NICEA



I° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



I° CONCILIO DI EFESO



I° CONCILIO DI CALCEDONIA



II° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



III° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



II° CONCILIO DI NICEA



IV° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



LETTERA A DIOGNETO


I° CONCILIO LATERANENSE



II° CONCILIO LATERANENSE



II° CONCILIO LATERANENSE



IV° CONCILIO LATERANENSE



I° CONCILIO DI LIONE



II° CONCILIO DI LIONE



CONCILIO DI VIENNA



CONCILIO DI COSTANZA



CONCILIO DI BASILEA



V CONCILIO LATERANENSE


CONCILIO DI TRENTO



CONCILIO VATICANO I°

Incontri sulla Dei Verbum
Incontri sulla “ DEI VERBUM” Comunità Itria dal 26 Novembre 2018. Per accedervi click sull’icona che scorre di seguito .
Introduzione alla lectio divina
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