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Omelia S. Messa del Crisma – Basilica Cattedrale – Giovedì santo 2017
La Messa crismale del Giovedì Santo ci riunisce ogni anno come popolo di Dio non solo per benedire gli oli in funzione dei sacramenti ma anche per celebrare il nostro sacerdozio, sia il sacerdozio comune dei fedeli, sia soprattutto il sacerdozio ordinato.
Saluto tutti affettuosamente nella gioia del Signore che ci convoca in comunione sacramentale: Vescovo e presbiteri, laici e fedeli provenienti da ogni parte della Diocesi.
Vedo con piacere tanti ragazzi che saluto con particolare attenzione.
Il nostro saluto raggiunga quanti impediti non possono lodare e ringraziare il Signore assieme a noi; raggiunga, il nostro saluto, S. E. Mons. Rosario Mazzola, i tanti sacerdoti anziani, malati, sofferenti che certamente sarebbero ben lieti di presenziare a questa santa liturgia. Penso anche a
quanti celebrano significativi anniversari di ordinazione sacerdotale come: i venticinque anni di don Francesco Casamento e don Rosario Dispenza; i cinquant’anni di don Antonio D’Angelo, di don Santino Di Gangi e di p. Giorgio Marino dei Padri Giuseppini; i sessant’anni di don Antonino
Di Sclafani; i settant’anni di don Giovanni D’Angelo e don Giovanni Glorioso.
Il nostro saluto e la nostra gratitudine raggiunga il Vescovo di Locri-Gerace, S. E. Mons. Francesco Oliva che com’è consuetudine ci ha fatto pervenire il profumo di bergamotto che useremo per la consacrazione del Sacro Crisma.
È il profumo di Cristo che deve segnare la nostra vita, accompagnare la nostra crescita perchè venga emanato attorno a noi e in ogni nostra azione.
Questa santa liturgia è accompagnata dal suono melodioso dell’antico organo del 1612 appena restaurato e restituito al culto e al lustro di questa Basilica Cattedrale.
Ufficialmente è la prima volta che ascoltiamo il suo suono.
Ho voluto dedicare a voi questa inaugurazione riservandola al Giovedì santo e al Sacerdozio di Cristo.
Cosa devo dirvi carissimi fratelli e figli, e sopratutto a voi carissimi presbiteri che assieme a me oggi celebrate la nascita del vostro sacerdozio.
Quello che riuscirò a dire a voi varrà anche per me che come voi benedico e ringrazio il Signore per il dono del sacerdozio.
Portiamo questo grande dono in vasi di creta, siamo chiamati dunque a custodire gelosamente sia il dono, sia il vaso perchè non si rompa: bisogna imballarlo bene perché resista agli inevitabili urti del viaggio della vita e delle strade impervie e dissestate che siamo chiamati a percorrere
per svolgere il nostro ministero.
Dietro ognuno di noi e davanti a noi c’è una storia iniziata il giorno della chiamata e destinata a non
concludersi mai perchè “sacerdoti in eterno”.
Per noi la parola “fine” non ha luogo, non trova spazio, non può essere scritta. È tutta un’avventura la nostra, un’avventura senza ritorno perchè essere preti non è un “mestiere”, è un “mistero” che non può essere vissuto da soli perchè non saremmo capaci di contenerlo, è un “mistero” partecipato, condiviso che non può conoscere chiusura o solitudine.
Quanto significativo il numero 8 della Presbyterorum Ordinis che così recita: “Tutti i presbiteri, costituiti nell’ordine del presbiterato mediante l’ordinazione, sono uniti tra di loro da un’intima fraternità sacramentale; ma in modo speciale essi formano un unico presbiterio nella diocesi al cui servizio sono ascritti sotto il proprio vescovo.
Infatti, anche se si occupano di mansioni differenti, sempre esercitano un unico ministero sacerdotale in favore degli uomini”.
Storia, la nostra, fatta di slanci, di entusiasmi, di stanchezza, di delusioni, di peccato, di grazia, di gioie e di dolori, ma soprattutto di speranza alimentata ogni giorno dall’Eucarestia che celebriamo e dalla fede alla quale ci aggrappiamo.
“Se qualcuno vuol venire dietro di me, prenda la sua croce e mi segua” (Lc 9,23). Accogliendo questa parola ci siamo messi alla sua sequela.
Gesù non costringe nessuno, non impone a nessuno la sequela. Soltanto nell’esercizio della libertà abbiamo scelto di andare dietro di lui e noi sappiamo che egli non ci ha ingannati, non ci ha fatto promesse fasulle, non ci ha illusi. È stato crudo con noi fino alla fine. Non ha usato mezzi termini e non ci ha promesso sconti. Chi vuole seguirlo deve rinnegare se stesso, prendere la croce e andargli dietro.
Il Signore non ci ha ingannati. Noi sapevamo tutto questo perchè ce l’ha detto lui prima che accogliessimo la sua proposta. Quel “se” equivale a “qualora”, qualora qualcuno decidesse di venire dietro di me… è un ipotetico lasciato alla libertà personale.
Una volta accettato l’invito entra in ballo la nostra coerenza, coerenza umana, parola data, parola d’uomo vero che non si nasconde dietro fraintendimenti o finzioni.
Il discepolo è uno che cammina dietro, che ricalca le orme di Gesù. Il sentiero è tracciato da lui e chi sta dietro non sa dove porta il sentiero; sa però quali sono le condizioni.
A volte noi pretendiamo di camminare avanti anziché dietro e portare il Signore dove vogliamo noi invece che lasciarci condurre da lui.
Io non lo so dove il Signore vuole portare questa
nostra Chiesa e questo nostro presbiterio. So soltanto quali sono le regole di questo gioco: devo rinnegare me stesso, prendere la croce e seguirlo.
Siamo ancora disposti ad accettare queste regole che il Signore ci propone?
Siamo ancora disposti a rinunciare a noi stessi, alle nostre fisime, ai nostri schemi, alle nostre
presunzioni, ai nostri generi letterali, ai nostri atteggiamenti irremovibili, per consegnarci totalmente a lui?
La risposta non datela a me, datela a Lui.
Il rito dell’Ordinazione sacerdotale prevede un appello, una chiamata nominativa; siamo stati chiamati per nome e prontamente abbiamo risposto: “eccomi!”.
Quell’“eccomi” ha significato consegna definitiva ed è memoriale di tutti gli “eccomi” che abbiamo pronunciato fino ad oggi e nello stesso tempo contiene tutti gli eccomi che ancora dovremo dire. Finchè vivremo ripeteremo ogni giorno nella fedeltà quella parola così piccola, così breve, ma che resta la consegna della nostra vita.
In un mondo che cambia velocemente sotto i nostri occhi, solo gli impegni presi con Dio non possono mutare.
Chi crede nei veri valori sa che ci sono valori non negoziabili, e la fedeltà agli impegni assunti rientra certamente tra questi.
San Paolo nella lettera ai Romani (13,11-12) ci offre un prezioso suggerimento che suona anche come avvertimento: “la notte è avanzata, il giorno è vicino.
Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce”. Le armi della luce le intendo come le qualità necessarie per portare avanti il nostro compito pastorale che non è quello di fare proselitismo e neppure quello di svelare il mistero, ma è l’impegno della santità.
La salvezza non è programmabile con i piani pastorali o con i progetti di vicariato. Noi possiamo programmare la formazione, il culto, gli incontri, le assemblee, le analisi, le verifiche, ma non ci è dato di programmare l’incontro di Dio con il cuore dell’uomo.
La storia della salvezza oggi si costruisce con la preghiera e la santità della vita, con le armi della luce e la forza della Parola di Dio.
Le nostre liturgie siano sobrie e decorose, non spettacolo. “La liturgia non è uno show”, diceva il
Cardinale Ratzinger. A volte si ha l’impressione di assistere ad una sorta di intrattenimento religioso dove non si riesce a cogliere il confine tra la spettacolarizzazione e il mistero che si celebra.
I nostri fedeli hanno diritto di pretendere da noi un servizio sacerdotale che li aiuti a compiere il cammino della perfezione cristiana con il riverbero della nostra testimonianza e con la nostra santità di vita.
La pastorale è un’arte che non si inventa alla giornata, con il “fai da te” improvvisando per la circostanza.
Ci vuole metodo, competenza, equilibrio, intuizione, passione, gioco di squadra.
Nelle ultime indicazioni pastorali di quest’anno in corso abbiamo insistito sulla necessità di una integrazione e collaborazione tra presbiteri e fedeli laici. Da soli non si va da nessuna parte.
Concludendo ho la gioia di rivolgervi due inviti significativi: il primo riguarda la concelebrazione del 28 aprile alle ore 17,30 a ricordo del 750° anniversario della dedicazione della nostra Cattedrale. Vorrei che questo evento fosse vissuto come un vero e proprio “pellegrinaggio diocesano” alla nostra Basilica Cattedrale.
Vorrei che si giungesse in cattedrale come pellegrini che cercano il volto del Signore per gustare la dolcezza del nostro Pantocratore.
Il secondo invito riguarda l’Ordinazione diaconale di due nostri seminaristi, Paolo Cassaniti e Gioacchino Notaro, il prossimo 30 maggio alle ore 18 in Cattedrale.
Se poi vi fa piacere partecipare alla Santa Messa che io celebrerò qui in Cattedrale il 29 giugno, alle ore 18, per ringraziare il Signore in occasione del mio 50° anniversario di Ordinazione sacerdotale, sarò felice di vedervi e di essere sostenuto dalla vostra preghiera. Siete, pertanto, tutti
invitati.
Mi è gradito, inoltre, a conclusione di questa celebrazione, consegnare ai presbiteri e ai diaconi gli atti del convegno “Ordinati al Presbiterio per una Chiesa in uscita”, tenutosi a Cefalù nel 2016, accompagnati da una lettera dei Vescovi Siciliani.
Anticipandovi i migliori auguri per una Santa Pasqua, affidiamo a Maria Santissima di Gibilmanna, la nostra Chiesa, il nostro impegno, e La preghiamo di intercedere presso il suo Figlio Gesù perchè ci mandi molti e santi sacerdoti.
Domenica della Palme e della Passione del Signore
La liturgia di questa domenica della Passione del Signore, detta anche delle Palme, prevede la lettura del racconto della passione secondo Matteo. L’evangelista non ci consegna innanzitutto una “cronaca”, ma ci fornisce l’interpretazione, scaturita dalla fede della chiesa, di quei fatti che hanno costituito la fine della vita di Gesù il Cristo. ( E. Bianchi )
L’annuncio della Passione del Signore, visto nella sua globalità, richiede che lo si accosti con linee scelte d’interpretazione.
Una di queste è il puntuale adempiersi delle Scritture. Tutto il testo è infatti costruito sulla trama dei testi scritturistici, soprattutto di quei testi che costituiscono il riferimento messianico più esplicito e la cui lettura nella Chiesa non ha bisogno di commento perché si sono attuati con evidenza in Gesù, quali il Salmo 21. Continua a leggere
V Domenica di Quaresima – Dio non fa scomparire il male magicamente, ma con-patisce la sofferenza, la fa propria e la trasforma abitandola.
Le Letture di oggi ci parlano del Dio della vita, che vince la morte. Soffermiamoci, in particolare, sull’ultimo dei segni miracolosi che Gesù compie prima della sua Pasqua, al sepolcro del suo amico Lazzaro.
Lì tutto sembra finito: la tomba è chiusa da una grande pietra; intorno, solo pianto e desolazione. Anche Gesù è scosso dal mistero drammatico della perdita di una persona cara: «Si commosse profondamente» e fu «molto turbato» (Gv 11,33). Poi «scoppiò in pianto» (v. 35) e si recò al sepolcro, dice il Vangelo, «ancora una volta commosso profondamente» (v. 38). È questo il cuore di Dio: lontano dal male ma vicino a chi soffre; non fa scomparire il male magicamente, ma con-patisce la sofferenza, la fa propria e la trasforma abitandola.
Notiamo però che, in mezzo alla desolazione generale per la morte di Lazzaro, Gesù non si lascia trasportare dallo sconforto. Pur soffrendo Egli stesso, chiede che si creda fermamente; non si rinchiude nel pianto, ma, commosso, si mette in cammino verso il sepolcro. Non si fa catturare dall’ambiente emotivo rassegnato che lo circonda, ma prega con fiducia e dice: «Padre, ti rendo grazie» (v. 41). Così, nel mistero della sofferenza, di fronte al quale il pensiero e il progresso si infrangono come mosche sul vetro, Gesù ci offre l’esempio di come comportarci: non fugge la sofferenza, che appartiene a questa vita, ma non si fa imprigionare dal pessimismo.
Attorno a quel sepolcro, avviene così un grande incontro-scontro. Da una parte c’è la grande delusione, la precarietà della nostra vita mortale che, attraversata dall’angoscia per la morte, sperimenta spesso la disfatta, un’oscurità interiore che pare insormontabile. La nostra anima, creata per la vita, soffre sentendo che la sua sete di eterno bene è oppressa da un male antico e oscuro. Da una parte c’è questa disfatta del sepolcro. Ma dall’altra parte c’è la speranza che vince la morte e il male e che ha un nome: la speranza si chiama Gesù. Egli non porta un po’ di benessere o qualche rimedio per allungare la vita, ma proclama: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà» (v. 25). Per questo decisamente dice: «Togliete la pietra!» (v. 39) e a Lazzaro grida a gran voce: «Vieni fuori!» (v. 43).
Cari fratelli e sorelle, anche noi siamo invitati a decidere da che parte stare. Si può stare dalla parte del sepolcro oppure dalla parte di Gesù. C’è chi si lascia chiudere nella tristezza e chi si apre alla speranza. C’è chi resta intrappolato nelle macerie della vita e chi, come voi, con l’aiuto di Dio solleva le macerie e ricostruisce con paziente speranza.
Di fronte ai grandi “perché” della vita abbiamo due vie: stare a guardare malinconicamente i sepolcri di ieri e di oggi, o far avvicinare Gesù ai nostri sepolcri. Sì, perché ciascuno di noi ha già un piccolo sepolcro, qualche zona un po’ morta dentro il cuore: una ferita, un torto subìto o fatto, un rancore che non dà tregua, un rimorso che torna e ritorna, un peccato che non si riesce a superare. Individuiamo oggi questi nostri piccoli sepolcri che abbiamo dentro e lì invitiamo Gesù. È strano, ma spesso preferiamo stare da soli nelle grotte oscure che abbiamo dentro, anziché invitarvi Gesù; siamo tentati di cercare sempre noi stessi, rimuginando e sprofondando nell’angoscia, leccandoci le piaghe, anziché andare da Lui, che dice: «Venite a me, voi che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). Non lasciamoci imprigionare dalla tentazione di rimanere soli e sfiduciati a piangerci addosso per quello che ci succede; non cediamo alla logica inutile e inconcludente della paura, al ripetere rassegnato che va tutto male e niente è più come una volta. Questa è l’atmosfera del sepolcro; il Signore desidera invece aprire la via della vita, quella dell’incontro con Lui, della fiducia in Lui, della risurrezione del cuore, la via dell’“Alzati! Alzati, vieni fuori!”. E’ questo che ci chiede il Signore, e Lui è accanto a noi per farlo.
Sentiamo allora rivolte a ciascuno di noi le parole di Gesù a Lazzaro: “Vieni fuori!”; vieni fuori dall’ingorgo della tristezza senza speranza; sciogli le bende della paura che ostacolano il cammino; ai lacci delle debolezze e delle inquietudini che ti bloccano, ripeti che Dio scioglie i nodi. Seguendo Gesù impariamo a non annodare le nostre vite attorno ai problemi che si aggrovigliano: sempre ci saranno problemi, sempre, e quando ne risolviamo uno, puntualmente ne arriva un altro. Possiamo però trovare una nuova stabilità, e questa stabilità è proprio Gesù, questa stabilità si chiama Gesù, che è la risurrezione e la vita: con lui la gioia abita il cuore, la speranza rinasce, il dolore si trasforma in pace, il timore in fiducia, la prova in offerta d’amore. E anche se i pesi non mancheranno, ci sarà sempre la sua mano che risolleva, la sua Parola che incoraggia e dice a tutti noi, a ognuno di noi: “Vieni fuori! Vieni a me!”. Dice a tutti noi: “Non abbiate paura”.
Anche a noi, oggi come allora, Gesù dice: “Togliete la pietra!”. Per quanto pesante sia il passato, grande il peccato, forte la vergogna, non sbarriamo mai l’ingresso al Signore. Togliamo davanti a Lui quella pietra che Gli impedisce di entrare: è questo il tempo favorevole per rimuovere il nostro peccato, il nostro attaccamento alle vanità mondane, l’orgoglio che ci blocca l’anima, tante inimicizie tra noi, nelle famiglie,… Questo è il momento favorevole per rimuovere tutte queste cose.
Visitati e liberati da Gesù, chiediamo la grazia di essere testimoni di vita in questo mondo che ne è assetato, testimoni che suscitano e risuscitano la speranza di Dio nei cuori affaticati e appesantiti dalla tristezza. Il nostro annuncio è la gioia del Signore vivente, che ancora oggi dice, come a Ezechiele: «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio» (Ez 37,12). ( Papa Francesco)
IV Domenica di Quaresima – Chi è cieco, incontrando colui che è la luce del mondo diventa “capace di vedere”, mentre quelli che vedono, incontrando Gesù restano abbagliati fino a rivelarsi ciechi, incapaci di vedere..
Anche in questa IV domenica di Quaresima la liturgia mette al centro alcuni temi con significato battesimale: l’elezione del consacrato (prima lettura) ed il passaggio dalle tenebre alla luce, con l’episodio del cieco nato (Vangelo).
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