Attualità
A 11 anni dalla strage delle torri gemelle
11 anniversario della strage dell’11 Settembre.
Oggi non ci saranno presidenti, né discorsi politici per celebrare la memoria.
Verranno letti solo i nomi delle vittime e si allungheranno i momenti di silenzio. Alcuni studi indicano in oltre mille le vittime del post 11 settembre e tra i 20.000 e i 40.000 i volontari e i lavoratori che hanno subito interventi sanitari.
I vigili del fuoco la settimana scorsa hanno inciso altri 9 nomi di pompieri morti in seguito alle esalazioni respirate durante il crollo delle torri.
Scriveva Enzo Bianchi l’anno scorso sulla “Stampa”
“Nulla sarà più come prima!”. Quante volte sentimmo ripetere questa frase e altre simili all’indomani dell’11 settembre 2001.
Quante voci si aggiunsero al coro dei profeti di sventura che consideravano ineluttabile uno scontro di civiltà alimentato dall’integralismo religioso. Quante letture di qualsivoglia fenomeno sociale vennero fatte sotto l’unica prospettiva di un terrorismo globale. Quanto spesso è stata data per scontata e puntuale una svolta storica che avrebbe stabilito un “prima” e un “dopo” assoluti nell’approccio ai problemi più complessi, che fossero di natura geopolitica o economica, di globalizzazione o di confronto tra mondi culturali o religiosi, di giustizia internazionale o di concezione della guerra.
Ma oggi … possiamo interrogarci con un minimo di distanza critica da quei tragici eventi, che in realtà proprio per la loro gravità richiederebbero un giudizio storico ancor più decantato: “Davvero il mondo non è più stato lo stesso?”. Se giudichiamo a partire dalle risposte immediate date all’attacco terroristico alle Torri gemelle e dai molti effetti che queste reazioni continuano a produrre, potremmo dire che ben poco è cambiato: come in ogni guerra tradizionale fin dai tempi più antichi dell’umanità, a violenza si è risposto con la violenza; come sempre la verità è stata la prima vittima del conflitto; analogamente a quanto così spesso è accaduto nella storia, si è cercato di motivare religiosamente la propria attività bellica; ancora una volta l’operazione di demonizzazione dell’avversario ha identificato qualsiasi membro del gruppo sociale, etnico o religioso antagonista in un nemico da contrastare a prescindere da qualsiasi responsabilità personale: anche per questo, come ormai tragicamente scontato a partire dal secondo conflitto mondiale, il numero di vittime civili è diventato enormemente superiore a quello dei militari belligeranti. In questo senso l’11 settembre ha magari mutato l’estensione geografica, la complessità dei mezzi e dei metodi di combattimento, la composizione dello spettro delle alleanze in una tipologia di conflitto apparentemente inedita, ma questi mutamenti sono attribuibili anche ad altri fenomeni – la globalizzazione, specie nel campo delle informazioni e della tecnologia; il crollo di un muro che divideva il mondo in due blocchi antagonisti, l’ingiustizia nella ripartizione delle risorse del pianeta e la loro progressiva scarsità… – che non sono certo nati con l’attacco al cuore simbolico della prima potenza del mondo “occidentale”. Del resto, lo stesso terrorismo di matrice islamica non era certo nato in un rifugio segreto dell’Afghanistan o nella cabina di pilotaggio di un aereo civile.
Eppure, molte cose sono cambiate dopo l’11 settembre, anche se in una direzione diversa di quella preconizzata – o addirittura auspicata – da alcuni in quei tragici giorni. Innanzitutto si è affrontato con lucido coraggio un discernimento sulla violenza di cui le religioni possono essere – o sono state – portatrici e strumento. In questo va riconosciuto il ruolo profetico e trainante svolto da papa Giovanni Paolo II fin dall’indomani dell’attacco alla Torri gemelle: le sue iniziative, a partire dall’incontro delle religioni per la pace ad Assisi nel gennaio 2002, hanno costituito un antidoto alla dispersione e alla divisione di Babele. Così, in un mondo sempre tentato di rifuggire le differenziazioni e di esaltare le contrapposizioni, il fatto che uomini di ogni lingua, razza, popolo, nazione e religione continuino ancora oggi ad incontrarsi e a lavorare per affermare con risolutezza il loro desiderio di pace è un segno di grande speranza e costituisce un evidente cambiamento nell’approccio alle tante situazioni di conflitto che non sono certo scomparse dall’orizzonte dell’umanità. “Convivere in pace … è il volere di Dio, ed è il nostro dovere su questa terra”, ricordava anche Obama nel suo memorabile discorso rivolto dal Cairo all’insieme della “comunità” musulmana, invocando un’assunzione condivisa delle responsabilità etiche nella consapevolezza di appartenere a un’unica comunità umana.
Né si può dimenticare come, proprio all’alba del nuovo millennio, prendeva l’avvio l’ambizioso progetto del Consiglio ecumenico della chiese di un “decennio per vincere la violenza” in tutte le sue forme, grazie al quale i cristiani hanno non solo potenziato le loro attività sul terreno per sconfiggere la violenza con metodi nonviolenti, ma hanno anche proseguito l’elaborazione di una teologia della “pace giusta”, capace di porre fine alla teoria della “guerra giusta”, troppo a lungo alimentata anche in ambito cristiano.
E come tacere la “novità nella continuità” testimoniata da società civili e dalle loro istanze laiche che, come la Norvegia dopo l’orribile massacro dell’isola di Utoya, decidono di perseverare in atteggiamenti e legislazioni aperte e dialogiche, nonostante la tragica “sconfitta” patita in quell’evento? È la tenace affermazione del fatto che un certo modo di vivere lo si è consapevolmente assunto perché lo si ritiene il più consono all’autentica qualità della convivenza umana e della dignità di tutti: ci si rifiuta di rispondere alla barbarie con la barbarie e ci si impegna nella valorizzazione dell’umanità presente in tutti gli esseri umani, anche in quelli dal comportamento più abietto.
Che molte cose siano cambiate in questi dieci anni, ma non nell’ineluttabile direzione conflittuale intravista allora, lo dimostrano anche le due macroscopiche problematiche che affrontiamo in questi mesi nella loro fase acuta: la crisi finanziaria e la cosiddetta “primavera araba”. Di questi fenomeni complessi e dalle radici ben più profonde di quanto siamo riusciti fin qui a discernere, tutto si può dire, ma non che si muovono nel filone della contrapposizione in base a categorie religiose o dello scontro di civiltà, a meno di non credere che la finanza sia la longa manus per l’affermazione di un credo fideistico o di voler annoverare i giovani arabi nel numero degli “occidentali” solo perché fanno uso anche di tecnologie ormai globali.
Davvero possiamo affermare che oggi più che mai il dialogo resta un’istanza che abita l’immensa maggioranza degli abitanti del pianeta terra, divenuto villaggio globale: un’istanza ineludibile nella nostra vita quotidiana, fatta ormai di un intreccio di esistenze tra simili e diversi. Per questo va richiesto a chi ha autorità e autorevolezza all’interno del proprio mondo religioso e culturale, e va praticato da ciascuno nel proprio ambito per cercare di tradurre un dato sociologico irreversibile in nuove articolazioni della convivenza civile, della giustizia e del rispetto dei diritti di ogni persona. Il nostro vissuto, infatti, non è determinato da proclami o da scontri di civiltà, ma dall’intersecarsi quotidiano di rapporti personali e familiari, di lavoro, di svago, di attese e di fatiche per un futuro migliore per sé e per le generazioni a venire.
C. M. Martini: "Teologia della comunicazione" nella lettera pastorale Effatà
Nel brano del Vangelo di domenica prossima ( XXIII del T.O. ) la guarigione del sordomuto.
Nella lettera pastorale del 26 Marzo 1996, che affronta l’azione tipica della chiesa: il comunicare , C. M. Martini propone una sorta di teologia della comunicazione a partire dall’autocomunicazione di Dio all’uomo.
La comunicazione dell’uomo, piena di difficoltà, non può che ispirarsi alla comunicazione di Dio quale viene espressa dal mistero della Trinità. ….. Oggetto di particolare attenzione sono le forme di comunicazione non verbale della fede, quali il canto e la musica, la comunicazione simbolica e il linguaggio proprio della Chiesa.
Aprendo il link accanto ( C.M.Martini Lettera Pastorale Effatà ) si potrà leggere la lettera nella sua interezza dalla quale abbiamo estrapolato una piccola parte che potrà essere utile nella lettura del brano evangelico.
“Contempliamo Gesù nel momento in cui sta facendo uscire un uomo dalla sua incapacità a comunicare. Si tratta della guarigione del sordomuto raccontata in Mc 7, 31-37. S. Ambrogio chiama questo episodio – e la sua ripetizione nel rito battesimale – “il mistero dell’apertura”: “Cristo ha celebrato questo mistero nel Vangelo, come leggiamo, quando guarì il sordomuto” (I misteri, I, 3).
Dividiamo il racconto in tre tempi: la descrizione del sordomuto, i segni e gesti di apertura, il miracolo e le sue conseguenze.
1. La narrazione evangelica precisa anzitutto il disagio comunicativo di quest’uomo. E’ uno che non sente e che si esprime con suoni gutturali, quasi con mugolii, di cui non si coglie il senso. Non sa neanche bene cosa vuole, perché è necessario che gli altri lo portino da Gesù. Il caso è in sé disperato (7, 31-32).
2. Ma Gesù non compie subito il miracolo. Vuole anzitutto far capire a quest’uomo che gli vuol bene, che si interessa del suo caso, che può e vuole prendersi cura di lui. Per questo lo separa dalla folla, dal luogo del vociferare convulso e delle attese miracolistiche. Lo porta in disparte e con simboli e segni incisivi gli indica ciò che gli vuol fare: gli introduce le dita nelle orecchie come per riaprire i canali della comunicazione, gli unge la lingua con la saliva per comunicargli la sua scioltezza. Sono segni corporei che ci appaiono persino rozzi, scioccanti.
Ma come comunicare altrimenti con chi si è chiuso nel proprio mondo e nella propria inerzia ?
Come esprimere l’amore a chi è bloccato e irrigidito in sé, se non con qualche gesto fisico?
Notiamo anche che Gesù comincia, sia nei segni come poi nel comando successivo, con il risanare l’ascolto, le orecchie. Il risanamento della lingua sarà conseguente.
A questi segni Gesù aggiunge lo sguardo verso l’alto e un sospiro che indica la sua sofferenza e la sua partecipazione a una così dolorosa condizione umana.
Segue il comando vero e proprio, che abbiamo scelto come titolo di questa lettera: “Effatà” cioè “Apriti!” (7, 34). E’ il comando che la liturgia ripete prima del Battesimo degli adulti: il celebrante, toccando con il pollice l’orecchio destro e sinistro dei singoli eletti e la loro bocca chiusa, dice: “Effatà, cioè: apriti, perché tu possa professare la tua fede a lode e gloria di Dio” (Rito dell’Iniziazione Cristiana degli Adulti, n. 202).
3. Ciò che avviene a seguito del comando di Gesù è descritto come apertura (“gli si aprirono le orecchie”), come scioglimento (“si sciolse il nodo della sua lingua”) e come ritrovata correttezza espressiva (“e parlava correttamente”). Tale capacità di esprimersi diviene contagiosa e comunicativa: “E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano”.
La barriera della comunicazione è caduta, la parola si espande come l’acqua che ha rotto le barriere di una diga. Lo stupore e la gioia si diffondono per le valli e le cittadine della Galilea: “E, pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”“ (7, 35-37).
In quest’uomo, che non sa comunicare e viene rilanciato da Gesù nel vortice gioioso di una comunicazione autentica, noi possiamo leggere la parabola del nostro faticoso comunicare interpersonale, ecclesiale, sociale.”
Nominati i nuovi parroci di Petralia Soprana e Alimena
“Ho cercato di servire tutti con amore e dedizione ma l’obbedienza non è un concetto astratto bensì una scelta di vita e, quindi, anche se non sono stato io a dimettermi accetterò il trasferimento. Pregate per me e per la mia nuova comunità e preparatevi ad accogliere il nuovo parroco con il rispetto e la collaborazione di cui siete capaci. I preti passano ma Gesù resta … un abbraccio a tutta la comunità alimenese per la solidarietà e l’affetto manifestatomi in questi tanti anni di cammino spirituale“.
Con queste parole Don Salvatore Mocciaro si conceda da Alimena.
Con la CelebrazioneEucaristica presieduta da S.E. Mons. Vincenzo Manzella, Vescovo di Cefalù, Sabato 8 Settembre 2012 alle ore 17:30, Don Salvatore Mocciaro inizierà il ministero pastorale di Parroco nella Parrocchia SS. Apostoli Pietro e Paolo di Petralia Soprana.
Ad Alimena arriverà Don Giuseppe Cigno, dopo 9 anni trascorsi a servire la comunità di Castellana Sicula, dove si era insediato la vigilia della festa dell’Immacolata del 2003.
Inizierà il ministero pastorale di Parroco nella Parrocchia S. Maria Maddalena di Alimena domenica 9 Settembre 2012 alle ore 18 con la Celebrazione Eucaristica presieduta da S.E. Mons. Vincenzo Manzella.
Grazie, Signore, per la testimonianza data alla Tua chiesa attraverso il Tuo amato figlio Carlo Maria Martini
E’ morto ieri pomeriggio, all’età di 85 anni, il cardinale Carlo Maria Martini, profeta del nostro tempo, disponibile a mettersi in discussione e stimolare la chiesa ad essere sempre più aperta e dialogante facendosi portavoce della sofferenza degli “ esclusi “ invitandola ad essere misericordiosa per essere sempre più credibile.
Le sue condizioni erano gravissime e giudicate irreversibili gia’ da giovedi’ sera. E chi gli e’ stato accanto sapeva che gli restavano solo “poche ore” di vita.
Cosi’ come Giovanni Paolo II, anche Martini soffriva del morbo di Parkinson. Ed era ospite dal 2008 del collegio Aloisianum di Gallarate (Varese)
“Il cardinale Carlo Maria Martini ha servito generosamente il Vangelo e la Chiesa“, ha detto Benedetto XVI in un messaggio al cardinale Scola, attuale successore di Martini, esprimendo la propria “tristezza” per la morte del porporato gesuita “dopo lunga malattia, vissuta con animo sereno e fiducioso abbandono in Dio”.
Tra i tanti meriti di Martini, Benedetto XVI ricorda “il competente e fervido servizio reso alla Parola di Dio, aprendo sempre piu’ alla comunita’ ecclesiale i tesori della Scrittura“.
Nel novembre 1980 ha introdotto nella Diocesi di Milano la “Scuola della Parola” che consiste nell’aiutare il popolo di Dio ad accostare la Scrittura secondo il metodo della lectio divina.
Uomo del dialogo, nel 1983 fu scelto come interlocutore dai militanti di Prima Linea in una “conferenza di organizzazione” che si tenne nel carcere Le Vallette di Torino, dove erano concentrati la gran parte degli imputati del “maxiprocesso” che era in corso contro l’organizzazione, che decisero di far consegnare proprio all’arcivescovo Carlo Maria Martini le armi ancora in disponibilita’ dei piellini rimasti liberi.
A 75 anni esatti si dimette da ogni incarico, e l’11 luglio 2002 si trasferisce a Gerusalemme dove riprende gli studi biblici. E là lo si vedeva passeggiare con il panama bianco e un bastone elegante nella citta’ vecchia, tra la Porta di Damasco e quella di Jaffa, un itinerario che compiva spesso per recarsi dalla casa dei gesuiti biblisti al Santo Sepolcro.
Il Parkinson poi lo costringe qualche anno fa a rientrare in Italia, a Gallarate, da dove, non potendosi spostare facilmente, grazie a internet inizia la sua collaborazione con diverse testate, tra le quali il Corriere della Sera che ogni 15 giorni gli dava una pagina per rispondere ai lettori sui temi della fede e della morale.
Riportiamo la testimonianza del priore di Bose Enzo Bianchi apparsa sulla “ Stampa” di oggi.
Se n’è andato accompagnato dalla preghiera di tutta la diocesi, dei suoi confratelli gesuiti, di quanti lo hanno amato e gli sono stati vicini durante il suo ministero pastorale e gli ultimi anni segnati dalla malattia e dal progressivo affievolirsi della voce e delle forze. Se n’è andato accompagnato anche dal pensiero grato – forse anche dalla preghiera – di tanti che cristiani non sono e nemmeno credenti, ma che hanno trovato in lui un pastore, un padre, un amico, un confidente.
Ci ha lasciato da un letto di malattia, luogo dove aveva voluto chiudere il suo ministero di vescovo a Milano: negli ultimi mesi del suo episcopato si recava ogni giorno, nel silenzio e nella discrezione, a salutare uno per uno i suoi presbiteri ammalati, andandoli a trovare nelle loro case, negli ospedali, nei luoghi di cura…
Del resto, proprio dagli ammalati aveva voluto iniziare la sua missione a Milano: la prima parrocchia da lui visitata fu quella della Madonna di Lourdes, in occasione della giornata del malato: segno tangibile della sua consapevolezza di essere pastore in quanto discepolo fedele del Signore venuto come medico per i malati e non per i sani, sollecito verso i peccatori più che verso i giusti.
Uomo della Scrittura, tra i più autorevoli studiosi del Nuovo Testamento, è stato uomo della Parola nel senso più profondo del termine: letta, studiata, meditata, pregata, amata, la parola di Dio per Martini era “lampada per i suoi passi, luce per il cammino” ed era anche, e proprio per questo, chiave di lettura del proprio e dell’altrui agire, luogo di ascolto, di discernimento, di visione profetica.
La sua prima lettera pastorale volle dedicarla a “La dimensione contemplativa della vita”, a quella ricerca dell’essenziale attraverso uno sguardo lungimirante, desideroso di assumere la visione stessa di Dio sulle persone e sugli eventi, uno sguardo che solo l’assiduità con la parola di Dio arriva ad affinare. E uomo, cristiano, vescovo della Parola, Martini lo è stato anche per la sua grande capacità di ascolto: incontrarlo era sperimentare di persona cosa è un orecchio attento e un cuore accogliente, cosa significa pensare e pregare prima di formulare una risposta, cogliere il non detto a partire dalle poche parole proferite dall’interlocutore, capirne i silenzi.
Dall’ascolto attento, della Parola e dell’altro, nasceva nel card. Martini la capacità di gesti profetici, la sollecitudine per la chiesa e per la sua unità, la vicinanza ai poveri, il farsi prossimo ai lontani, il dialogo con i non credenti fino a considerarli propri maestri cui affidare cattedre per la ricerca del senso delle cose e della dignità delle persone. E questa docilità alla Parola ha fatto di lui uno dei rari ecclesiastici in cui non si trovavano né tattiche, né strategie, né calcoli di governo, ma la parresia evangelica di chi si affida al Signore.
Tra i numerosi incontri avuti con lui nel corso di una lunga amicizia – nata nell’inverno del 1977, quando entrambi sostavamo a Gerusalemme – vorrei in questo momento ricordare l’ultima sua visita a Bose, quando le forze già cominciavano ad abbandonarlo senza minimamente intaccare la sua lucidità e la sua passione per il Vangelo e per la “corsa della Parola” tra gli uomini e le donne del nostro tempo.
“Vedo ormai davanti a me la vita eterna – ci disse con grande semplicità e forza – sono venuto per darvi il mio ultimo saluto, il mio grazie al Signore per questa lunga amicizia nel Suo nome: conto sulla vostra preghiera e sul vostro affetto”.
E così, come un padre pieno di sollecitudine, ci parlò della morte e del morire, della risurrezione e della vita: “Si muore soli! Tuttavia, come Gesù, chi muore in Dio si sa accolto dalle braccia del Padre che, nello Spirito, colma l’abisso della distanza e fa nascere l’eterna comunione della vita. Nella luce della risurrezione di Gesù possiamo intuire qualcosa di ciò che sarà la risurrezione della carne. L’anticipazione vigilante della risurrezione finale è in ogni bellezza, in ogni letizia, in ogni profondità della gioia che raggiunge anche il corpo e le cose”.
Sì, aver conosciuto e amato il card. Martini, aver avuto il grande dono della sua amicizia è stata occasione di questa letizia e gioia profonda, ha significato comprendere perché i padri della chiesa erano soliti dire che i discepoli autentici del Signore sono sequentiae sancti Evangelii, brani del Vangelo, narrazioni dell’amore di Dio per l’umanità tutta. Per questo il sentimento di gratitudine al Signore per il dono che è stato padre Carlo Maria Martini, come semplicemente si faceva chiamare in questi ultimi anni, abita i cuori di tanti, ben al di là dei confini della diocesi ambrosiana.
Oltre alla testimonianza di Enzo Bianchi riportiamo l‘ultima intervista: «Chiesa indietro di 200 anni. Perché non si scuote, perché abbiamo paura? » a cura di Georg Sporschill e Federica Radice Fossati Confalonieri ( da il “Corriere della Sera” del 1 settembre 2012 )
(Padre Georg Sporschill, il confratello gesuita che lo intervistò in Conversazioni notturne a Gerusalemme , e Federica Radice hanno incontrato Martini l’8 agosto: «Una sorta di testamento spirituale. Il cardinale Martini ha letto e approvato il testo». )
Come vede lei la situazione della Chiesa?
«La Chiesa è stanca, nell’Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l’apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. Queste cose però esprimono quello che noi siamo oggi? (…) Il benessere pesa. Noi ci troviamo lì come il giovane ricco che triste se ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo discepolo. Lo so che non possiamo lasciare tutto con facilità. Quanto meno però potremmo cercare uomini che siano liberi e più vicini al prossimo. Come lo sono stati il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador. Dove sono da noi gli eroi a cui ispirarci? Per nessuna ragione dobbiamo limitarli con i vincoli dell’istituzione».
Chi può aiutare la Chiesa oggi?
«Padre Karl Rahner usava volentieri l’immagine della brace che si nasconde sotto la cenere.
Io vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza.
Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell’amore?
Per prima cosa dobbiamo ricercare questa brace.
Dove sono le singole persone piene di generosità come il buon samaritano? Che hanno fede come il centurione romano? Che sono entusiaste come Giovanni Battista? Che osano il nuovo come Paolo? Che sono fedeli come Maria di Magdala?
Io consiglio al Papa e ai vescovi di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali. Uomini che siano vicini ai più poveri e che siano circondati da giovani e che sperimentino cose nuove. Abbiamo bisogno del confronto con uomini che ardono in modo che lo spirito possa diffondersi ovunque».
Che strumenti consiglia contro la stanchezza della Chiesa?
«Ne consiglio tre molto forti.
Il primo è la conversione: la Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal Papa e dai vescovi.
Gli scandali della pedofilia ci spingono a intraprendere un cammino di conversione.
Le domande sulla sessualità e su tutti i temi che coinvolgono il corpo ne sono un esempio.
Questi sono importanti per ognuno e a volte forse sono anche troppo importanti. Dobbiamo chiederci se la gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale.
La Chiesa è ancora in questo campo un’autorità di riferimento o solo una caricatura nei media?
Il secondo la Parola di Dio. Il Concilio Vaticano II ha restituito la Bibbia ai cattolici. (…) Solo chi percepisce nel suo cuore questa Parola può far parte di coloro che aiuteranno il rinnovamento della Chiesa e sapranno rispondere alle domande personali con una giusta scelta.
La Parola di Dio è semplice e cerca come compagno un cuore che ascolti (…).
Né il clero né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo.
Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti.
Per chi sono i sacramenti? Questi sono il terzo strumento di guarigione.
I scramenti non sono uno strumento per la disciplina, ma un aiuto per gli uomini nei momenti del cammino e nelle debolezze della vita.
Portiamo i sacramenti agli uomini che necessitano una nuova forza?
Io penso a tutti i divorziati e alle coppie risposate, alle famiglie allargate. Questi hanno bisogno di una protezione speciale.
La Chiesa sostiene l’indissolubilità del matrimonio. È una grazia quando un matrimonio e una famiglia riescono (…). L’atteggiamento che teniamo verso le famiglie allargate determinerà l’avvicinamento alla Chiesa della generazione dei figli.
Una donna è stata abbandonata dal marito e trova un nuovo compagno che si occupa di lei e dei suoi tre figli. Il secondo amore riesce. Se questa famiglia viene discriminata, viene tagliata fuori non solo la madre ma anche i suoi figli.
Se i genitori si sentono esterni alla Chiesa o non ne sentono il sostegno, la Chiesa perderà la generazione futura.
Prima della Comunione noi preghiamo: “Signore non sono degno…” Noi sappiamo di non essere degni (…).
L’amore è grazia. L’amore è un dono. La domanda se i divorziati possano fare la Comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?»
Lei cosa fa personalmente?
«La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall’aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l’amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l’amore vince la stanchezza. Dio è Amore.
Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?».
Il 3 Settembre i funerali . La Celebrazione eucaristica con il Rito delle Esequie è stata presieduta dall’Arcivescovo di Milano cardinale Angelo Scola che nella sua omelia ha ricordato il cardinal Martini con queste parole:
“La sua eredità è tutta nella sua vita e nel suo magistero e noi dovremo continuare ad attingervi a lungo. Ha, però, scelto la frase da porre sulla sua tomba, tratta dal Salmo 119-118: ‘Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino’. In tal modo, egli stesso ci ha dato la chiave per interpretare la sua esistenza e il suo ministero“.
E ancora: “Egli, che viveva eucaristicamente nella fede della risurrezione, ha sempre cercato di abbracciare tutto l’uomo e tutti gli uomini. Lo ha potuto fare proprio perché era ben radicato nella certezza incrollabile che Gesù Cristo, con la Sua morte e risurrezione, è perennemente offerto alla libertà di ognuno“.
Benedetto XVI rappresentato dal cardinale Angelo Comastri, ha inviato un messaggio letto all’inizio della celebrazione.
” Cari fratelli e sorelle, in questo momento desidero esprimere la mia vicinanza, con la preghiera e l’affetto, all’intera Arcidiocesi di Milano, alla Compagnia di Gesù, ai parenti e a tutti coloro che hanno stimato e amato il Cardinale Carlo Maria Martini e hanno voluto accompagnarlo per questo ultimo viaggio.
“Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” (Sal 118-117, 105): le parole del Salmista possono riassumere l’intera esistenza di questo Pastore generoso e fedele della Chiesa.
È stato un uomo di Dio, che non solo ha studiato la Sacra Scrittura, ma l’ha amata intensamente, ne ha fatto la luce della sua vita, perché tutto fosse “ad maiorem Dei gloriam”, per la maggior gloria di Dio.
E proprio per questo è stato capace di insegnare ai credenti e a coloro che sono alla ricerca della verità che l’unica Parola degna di essere ascoltata, accolta e seguita è quella di Dio, perché indica a tutti il cammino della verità e dell’amore.
Lo è stato con una grande apertura d’animo, non rifiutando mai l’incontro e il dialogo con tutti, rispondendo concretamente all’invito dell’Apostolo di essere “pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3, 15).
Lo è stato con uno spirito di carità pastorale profonda, secondo il suo motto episcopale, Pro veritate adversa diligere, attento a tutte le situazioni, specialmente quelle più difficili, vicino, con amore, a chi era nello smarrimento, nella povertà, nella sofferenza. In un’omelia del suo lungo ministero a servizio di questa Arcidiocesi ambrosiana pregava così: “Ti chiediamo, Signore, che tu faccia di noi acqua sorgiva per gli altri, pane spezzato per i fratelli, luce per coloro che camminano nelle tenebre, vita per coloro che brancolano nelle ombre di morte.
Signore, sii la vita del mondo; Signore, guidaci tu verso la tua Pasqua; insieme cammineremo verso di te, porteremo la tua croce, gusteremo la comunione con la tua risurrezione.
Insieme con te cammineremo verso la Gerusalemme celeste, verso il Padre” (Omelia del 29 marzo 1980). Il Signore, che ha guidato il Cardinale Carlo Maria Martini in tutta la sua esistenza accolga questo instancabile servitore del Vangelo e della Chiesa nella Gerusalemme del Cielo. A tutti i presenti e a coloro che ne piangono la scomparsa, giunga il conforto della mia Benedizione.
Da Castel Gandolfo, 3 Settembre 2012. BENEDICTUS PP. XVI