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I Poveri: primi destinatari del messaggio di salvezza.
Tra i protagonisti del concilio Vaticano II sicuramente c’è il cardinale di Bologna, Giacomo Lercaro, esperto liturgista e noto per aver scelto di condividere la sua casa con giovani lavoratori e studenti bisognosi.
Pur impegnato al Concilio sul fronte della riforma liturgica, aiutato dal suo consulente don Giuseppe Dossetti – venuto a Roma a sostituirlo agli incontri del gruppo della “Chiesa dei poveri”, che si riuniva al Collegio Belga, animato da Paul Gauthier e presieduto dal card. Pierre Paul-Marie Gerlier -, il 6 dicembre 1962 decise di intervenire pronunciando un famoso discorso dove espose il problema dell’identità della Chiesa in una prospettiva inedita, indicando nella concreta problematica della povertà che affliggeva la stragrande maggioranza dell’umanità il luogo teologico obbligante e la chiave di volta della ricomprensione e del rinnovamento della Chiesa.
La povertà, come condivisione e liberazione dei poveri, ritorna ad essere un “luogo teologico”, rivelativo del Dio che Gesù di Nazaret ha reso visibile e “incarnato” nella vicenda storica degli uomini. Essa costituisce una dimensione essenziale e imprescindibile del mistero di Cristo che l’ha scelta come segno e modo preferenziale della sua missione. Gesù, perché così è piaciuto a Dio, inaugura il regno messianico evangelizzando i poveri, primi e diretti destinatari della storia della salvezza.
( Per chi volesse leggere il discorso del Cardinale Lercaro basta aprire il seguente link: Chiesa e povertà )
Possiamo sognare un Concilio Vaticano III ?
Monsignor Luigi Bettazzi è tra le figure più significative del cattolicesimo italiano.
Vescovo emerito di Ivrea, ha partecipato al Concilio Vaticano II in quanto ausiliare del Cardinale Lercaro (uno dei quattro moderatori dell’assise conciliare).
Per diversi anni è stato Presidente di Pax Christi. Nel 1976 scrisse una lettera a Enrico Berlinguer, allora segretario del Pci, che fece molto discutere l’opinione pubblica italiana.
Non rinuncia al gusto della battuta, nè alle barzellette. «Una mattina», racconta, «il cardinale Ottaviani si svegliò tardi. Chiamò un taxi: “Portami in fretta al Concilio”. Salito in auto, si riaddormentò.Quando finalmente si destò scoprì con suo grande stupore di trovarsi in aperta campagna. “Ma dove mi porti?”. Il taxista: “Al Concilio di Trento. Dove se no?”».
E Mons. Bettazzi al Concilio c’era
«Sì, io c’ero. Tra gli italiani lo possiamo dire in cinque: i cardinali Fiorenzo Angelini e Giovanni Canestri, monsignor Felice Leonardo di Cerreto Sannita-Telese-Sant’Agata de’ Goti e monsignor Salvatore Nicolosi di Noto. Anzi, siamo rimasti in sei. Non va infatti dimenticato don Giovanni Franzoni, allora abate di San Paolo fuori le Mura».
«Entrai in Concilio durante la seconda sessione, nell’autunno 1963, una settimana dopo esser stato consacrato vescovo ausiliare del cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna. Capii allora che cos’era l’universalità della Chiesa. Incontrai, infatti, confratelli nati e cresciuti in Africa, nell’America meridionale, in Asia. Con le loro storie, con le loro culture quei vescovi rendevano il Concilio antropologicamente “ecumenico”.
Mi colpì, poi, il dinamismo.
Emergevano idee, c’era dibattito, si maturava insieme, passo a passo. Papi compresi.
I documenti scritti dalle commissioni preparatorie, presiedute da cardinali di Curia, furono sostituiti da testi elaborati dalle nuove commissioni, in cui le Conferenze episcopali avevano nominato vescovi e teologi di loro fiducia».
«Compresi così l’intuizione di papa Giovanni che volle indire un Concilio non “dogmatico” (per definire, cioè, nuove verità di fede, scomunicando – anathema sit! –quanti non le avessero accolte), ma “pastorale”, nell’intento di presentare la verità di sempre in modo comprensibile e più facilmente accettabile».
Cos’è rimasto?
«La rivoluzione copernicana contenuta nella Gaudium et spes (non l’umanità per la Chiesa, ma la Chiesa per l’umanità) e quella della Lumen gentium (non i fedeli per la gerarchia, ma la gerarchia per i fedeli) stentano ad affermarsi.
Mentre le altre due (il primato della parola di Dio, esplicitato nella Dei Verbum, e la riforma liturgica, che, grazie alla Sacrosanctum concilium, è più partecipata di un tempo sono sostanzialmente riuscite.
Purtroppo le esagerazioni seguite al Sessantotto permisero a quelli che erano preoccupati dei cambiamenti di dire: “Vedete cos’è successocon il Concilio?”. C’era chi a Messa pretendeva di leggere Che Guevara al posto della Scrittura… Insieme all’acqua sporca, però, si è corso e si corre il rischio di buttare via anche il bambino».
Possiamo sognare un Concilio Vaticano III ?
Può sembrare strano che a una domanda del genere si risponda con esitazione. Eppure la fanno a me, che ho avuto la grande grazia di poter partecipare di persona al Concilio Vaticano II, dal secondo al quarto periodo, di averlo fatto come Vescovo Ausiliare del mio Arcivescovo, il Card. Giacomo Lercaro, allora divenuto uno dei quattro Moderatori chiamando a Roma don Giuseppe Dossetti, fra l’altro esperto – come il suo collaboratore, il prof. Giuseppe Alberigo – proprio dei Concili Ecumenici nella storia della Chiesa. A me, tanto entusiasta del Concilio da aver scritto su di esso – soprattutto sui Documenti fondamentali, le quattro Costituzioni – due opuscoli e di avere risposto su di esso a molte interviste, l’ultima delle quali, tradotta in un libro con il commento di un vaticanista della TV (A.M. Valli – L. Bettazzi “Difendere il Concilio” Ed S. Paolo), reca come commento al titolo una frase del giornalista: “Quando parla del Concilio, del suo Concilio, mons. Bettazzi è come un fiume in piena”. A me che nel libro in via di pubblicazione (“In dialogo con i lontani – Memorie e riflessioni di un vescovo un po’ laico”, Ed Aliberti) tratto a lungo del Concilio documentando molte vicende della vita di quell’Assemblea, così come ha fatto Dom Helder Camara nel suo eccezionale Diario del Concilio (“Roma, due del mattino”, Ed S. Paolo), di cui sono stato invitato a scrivere la prefazione. E allora?
Sembra anche che le mie esitazioni contrastino con l’auspicio di un nuovo Concilio, fatto nientemeno che dal Card. Carlo M. Martini. Se non fosse che proprio il Card. Martini, nella sua acutezza e saggezza, in realtà non ebbe a chiedere un nuovo Concilio, bensì assemblee generali di tutto l’episcopato su punti particolari della dottrina teologica o della vita morale (es. i problemi della bioetica o della sessuologia, o la situazione e la pastorale dei divorziati) sui quali tutto l’episcopato venga coinvolto, con l’autorevolezza quindi di un Concilio Ecumenico, ma senza la prospettiva di allargare la visuale a tutte le problematiche ecclesiali (come fece appunto il Concilio Vaticano II), nel timore – certo ingiustificato, data l’azione dello Spirito Santo, sempre sorprendente – di un ritorno all’indietro del cammino fatto dal Vaticano II, per le spinte – innegabili – a ricuperi e ridimensionamenti. Il Concilio Vaticano I infatti fu gestito completamente dal gruppo che non voleva cambiamenti (pare che Pio IX l’avesse convocato anche per avere suggerimenti “se” e “come” rinunciare allo Stato della Chiesa) fino all’anticipazione della definizione sul primato e l’infallibilità del Papa (ed è la gestione centralizzata che continua negli attuali Sinodi episcopali e li rende meno “collegiali” e forse meno efficaci).
In realtà l’efficacia del Vaticano II è derivata dall’essere giunto all’improvviso, deciso da Papa Giovanni XXIII senza aver consultato i suoi collaboratori (Pio XII, che aveva proposto l’idea di un Concilio, ne venne dissuaso proprio dai suoi collaboratori!), convinto dell’importanza di un Concilio ma forse senza avere ben chiaro quali avrebbero dovuto essere i suoi risultati (pare che fosse già soddisfatto della settantina di Documenti che le Commissioni preparatorie avevano approntato). Il secondo motivo di positività fu che Papa Giovanni lo indisse non come un Concilio “dogmatico”, che cioè definisse alcune verità (i dogmi) comminando “anatemi” su quanti non li accettassero (cioè scomunicandoli), bensì come un Concilio “pastorale”, che parte cioè dalle persone e dai popoli del nostro tempo, dalle loro culture, dalle loro storie, dalle loro mentalità per condurli verso il regno di Dio, il mondo come Dio lo vuole (che dà “gloria a Dio e pace in terra”), di cui la Chiesa è “sacramento”, cioè segno sensibile e strumento efficace. Ma la ragione più forte della sua positività fu che papa Giovanni fece capire fin dall’inizio che il Concilio era nelle mani dei Vescovi, concedendo ai vescovi il tempo di modificare totalmente la composizione delle Commissioni di studio preparate dalla Segreteria – espressione delle strutture centrali – e rimandando d’autorità a rielaborare il Documento su “le fonti della Rivelazione”, che la maggioranza aveva respinto, ma senza giungere ai due terzi dei Padri conciliari, come il Regolamento esigeva per riscrivere un Documento. E Paolo VI che nel primo periodo, come Arcivescovo di Milano, s’era reso conto del pericolo che il Concilio venisse…addormentato da chi, appellandosi alla tradizione, temeva troppi cambiamenti, accolse la proposta che il Concilio fosse guidato da Vescovi membri dell’Assemblea, e nominò quattro Cardinali Moderatori che furono in grado di assecondare l’esigenza di rinnovamento che emergeva con forza dall’insieme dei Vescovi.
Chi incolpa il Concilio di aver creato le premesse per le crisi di religiosità di cui sembra soffrire la cristianità (mentre forse ha anticipato la diagnosi della crisi salvando la possibilità di affrontarla e di superarla), accusa di faziosità quanti esaltano le novità del Concilio, in particolare la cosiddetta “Officina bolognese”, cioè l’Istituto di Scienze religiose fondato a Bologna da don Dossetti, che sotto la direzione del prof. Alberigo ha pubblicato la monumentale Storia del Concilio Vaticano II (cinque volumi, tradotti nelle principali lingue del mondo), contestata dagli ambienti più tradizionalisti. (il Card. Ruini l’ha praticamente paragonata alla “Storia del Concilio di Trento” del Sarpi, indicata abitualmente come un esempio di faziosità), forse proprio perché documenta il faticoso cammino del Concilio, tra le aperture della maggioranza ed i freni della minoranza. L’appellarsi – come è stato fatto – all’attenzione di Paolo VI nei confronti delle richieste della minoranza non comporta che “il Concilio vada interpretato secondo la mente riduttiva della minoranza”, bensì che così come è stato stabilito con il contributo di tutti e confermato dal Papa, praticamente con l’unanimità dei vescovi, va accolto e vissuto come un dono dello Spirito Santo. E’ nei testi stessi lo “spirito del Concilio”, solo che li si voglia leggere e interpretare con animo aperto.
Limitandoci appunto alle quattro Costituzioni penso al grande respiro aperto alla fede dall’aver richiamato l’importanza della Bibbia come tramite della Parola di Dio rivolta proprio oggi a tutta la Chiesa e ad ogni cristiano; penso ad una liturgia viva in cui ogni cristiano si unisca a Cristo, presente nella sua preghiera eterna; penso ad una Chiesa che si apra all’umanità già riscattata dalla Pasqua di Cristo, “primogenito di ogni creatura” (Col 1, 15), riconoscendovi tutti i “germi del Verbo” (come dice la “Gaudium et spes”), da alimentare e sviluppare innanzitutto con la propria testimonianza; e penso ad una Chiesa sempre meno arroccata passivamente intorno alla gerarchia, bensì “popolo di Dio”, con la responsabilità dei fedeli di far lievitare nel mondo il “regno di Dio”, regno di coscienza e di pace, con una gerarchia che si impegni sempre più ad essere “ministero”, cioè servizio.
Quando parlo di “arroccare”, alludo alla tendenza a chiuderci in difesa, finendo forse così coll’aggravare il clima di crisi provocato da una società sempre più superficiale e consumistica. Il fatto che ad oltre quarant’anni dal Concilio il Papa abbia sentito la necessità di convocare un Sinodo episcopale sulla Parola di Dio, oggetto della Costituzione del Concilio che più di tutte le altre sottolinea la vocazione della Chiesa a sentirsi aperta a Dio e quindi aperta all’umanità, può diventare anche il riconoscimento che forse ci andavamo nuovamente rinchiudendo nelle fortezze dei nostri dogmatismi, nella sicurezza dei nostri progetti culturali, timorosi forse che il dominio della Parola di Dio ed una liturgia troppo partecipata potessero sollecitare troppe speranze e troppi rinnovamenti.
Quando parlo del Concilio Vaticano II lo commento sempre con un “già e non ancora”: ha già dato molto, ma ha ancora molto da dare. Ed è per questo che anziché sognare un Concilio Vaticano III, io sto sognando che si attui pienamente il Concilio Vaticano II!
+ Luigi Bettazzi
Vescovo emerito di Ivrea
Padre conciliare del Concilio Vaticano II
Don Giuseppe Dossetti : spiritualità e politica
Non si può sostenere una compatibilità di principio tra esperienza di fede e politica, nè una incompatibilità assoluta; ci può essere invece un servizio episodico, più o meno lungo, ma sempre limitato nell’arco dell’esistenza. La realtà dei politici di professione, che sono tali da trenta o quarantanni, credo che non la si possa ammettere. Non si tratta di una ragione moralistica, ma di un principio. […]
La vita politica è una vita molto dispersiva. Ho fatto una grande fatica per tenermi in mano. Sono episodi personali, ma che parlano, proprio per questo, da sè.
La vita politica è un servizio totale, globale, estenuante, con orari impossibili; anche se si disciplina seriamente, richiede una disponibilità ad lavoro che è logorante, logorante lo spirito. Accadeva, faccio un esempio, che il buon Gonella fissasse la direzione del partito alle dieci di sera; si cominciava e si andava avanti sfiniti, fino alla quattro del mattino […].
Ero estenuato anche dal merito dei problemi trattati. Al mattino andavo a messa, l’unica cosa che potevo fare era di piantarmi lì, nel banco, e ascoltare. Magari ascoltavo anche due o tre messe, ma proprio come un somaro, come il giumento del salmo. Pur tenendomi in mano così, non potevo resistere per molto tempo; a meno di non prendere tutto con una superficialità suprema. Allora si può vivere anche degli anni in politica, ma non si fa più politica.
Il pensiero, la responsabilità, il tormento, il ritorno continuo sui problemi supremi, tutto ciò si incrocia, si accavalla.
Il Signore si può servire per un momento di noi. Dobbiamo appunto pensare che Lui fa come con i limoni spremuti, ci butta poi nel cestino. A questo dobbiamo essere prontissimi.
La politica, per contro, educa a un bisogno di fare, a una necessità di comandare, ad una mentalità che sancisce il primato dell’azione e della gestione, che è contraddittoria con una vita spirituale comunque concepita
. Però nonostante tutto dico: non c’è incompatibilità di principio tra fede e politica, può accadere che a volte siamo chiamati a fare politica, in una circostanza, in un determinato momento, per un certo breve periodo, episodicamente.
È un servizio che in un certo momento può esserci chiesto, purché noi siamo ben convinti che il servizio deve poi durare poco.
Ci sono amici in parlamento, che hanno pensato il loro servizio, anche per confidenze che ho avuto, come un servizio quarantennale.
Rispetto alla grande battaglia che si combatteva in quegli anni, io ho perduto.
Non è questo che conta.
Io ritengo che, per certi aspetti, anche politici, quello che è stato fatto, abbia avuto una certa efficacia in un certo momento.
Non è stata la delusione per l’insuccesso personale a convincermi che dovevo andarmene.
Questo l’ho detto più volte, e lo confermo oggi più a ragion veduta.
A convincermi che dovevo andarmene sono stati dei giudizi storici su una certa situazione della politica in Italia. Essi non riguardavano soltanto l’inefficacia della politica che si stava facendo e alla quale non credevo di poter consentire. Vedevo già allora con chiarezza dove si poteva andare a finire, perché certi pericoli, che adesso sono diventati delle catastrofi, li avevo visti nettissimamente nel 1946.
Quando ho lasciato l’attività politica nel 1951 ero convinto che non si poteva operare diversamente in quelle condizioni del nostro Paese e del mondo cattolico italiano . L’ostacolo maggiore stava in una certa cattolicità che c’era in Italia; i motivi dell’insuccesso fatale venivano da lì.
Anche nella Chiesa non mi facevo illusioni.
Per la mia professione di canonista sapevo cosa era la Chiesa e cosa poteva essere in determinate situazioni. Non c’è stata delusione, neanche lì, neanche nella Chiesa. Ne prendevo atto con semplicità, e non mi stupivo di niente. Di fatto non mi sono mai lamentato con nessuno.
La decisione di smettere ogni attività politica è venuta dalla convinzione che bisognasse operare più profondamente, a monte, in una cultura del tutto nuova e in una vita cristiana coerente. Poi il passaggio è stato radicalizzato; è passata anche la cultura e rimasta solo la vita cristiana.
Spesso questo rapporto tra fede e politica diventa lacerante. Capisco come da una parte si senta una responsabilità immediata che non si può lasciare, dall’altra ci sia l’urgenza di una scelta diversa. Anche io, quando sono stato membro della commissione della Costituente, ho sentito questo bisogno. Fatta la Costituzione me ne volevo andare, però ho ricevuto l’imposizione di proseguire, di rinnovare il mandato, che non ho tuttavia portato a termine.
Viviamo in una crisi epocale. Io credo che non siamo ancora al fondo, neppure alla metà di questa crisi. Sempre più ci sto pensando. Sono convinto che lo scenario culturale, intellettuale, politico non ha ancora esplicitato tutte le sue potenzialità. Noi dobbiamo considerarci sempre di più alla fine della terza guerra mondiale; una guerra che non è stata combattuta con spargimento di sangue nell’insieme, ma che pure c’è stata in questi decenni.[…]
Il rimescolio dei popoli, delle culture, delle situazioni è molto più complesso di quello che non fosse nel 1918. È un rimescolio totale. In più c’è la grande incognita dell’Islam, una incognita in qualche modo imprevedibile. [… ]
Siamo dinnanzi all’esaurimento delle culture.
Non vedo nascere un pensiero nuovo né da parte laica, né da parte cristiana. Siamo tutti immobili, fissi su un presente, che si cerca di rabberciare in qualche maniera, ma non con il senso della profondità dei mutamenti. Non è catastrofica questa visione, è reale; non è pessimista, perché io so che le sorti di tutti sono nelle mani di Dio.
La speranza non vien meno, la speranza che attraverso vie nuove e imprevedibili si faccia strada l’apertura a un mondo diverso, un pochino più vivibile, certamente non di potere. Questa speranza, globale in un certo senso, è speranza per tutto il mondo, perché la grazia di Dio c’è, perché Cristo c’è , e non la localizza in niente, tanto meno in noi.
L’unico grido che vorrei fare sentire oggi è il grido di chi dice: aspettatevi delle sorprese ancora più grosse e più globali e dei rimescolii più totali, attrezzatevi per tale situazione. Convocate delle giovani menti che siano predisposte per questo e che abbiano, oltre che l’intelligenza, il cuore, cioè lo spirito cristiano. Non cercate nella nostra generazione una risposta , noi siamo veramente solo dei sopravvissuti.
Don Giuseppe Dossetti e il Concilio Ecumenico Vaticano II
L’11 febbraio 1962 si apre il concilio ecumenico Vaticano II, e in novembre don Giuseppe è chiamato a Roma dal cardinale Lercaro. La sua collaborazione sarà preziosa per la conoscenza delle questioni teologiche e pastorali che il Concilio affrontava, ma si rivelerà decisiva per un altro profilo: l’esperienza fatta negli anni dell’impegno politico, la preparazione giuridica e canonistica, la conoscenza dei meccanismi assembleari gli permisero infatti di fornire all’assemblea conciliare gli strumenti per esprimere le proprie intuizioni di rinnovamento.
Riportiamo alcuni passi della prolusione inaugurale per l’anno accademico 1994-’95 dello Studio teologico interdiocesano di Reggio Emilia sul Concilio Vaticano II.
“Ecco dunque come il cuore di Papa Giovanni ha concepito, ha pensato, ha voluto il Concilio: non tanto come un’assise normativa, ma piuttosto come uno spettacolo cosmico, un evento, un’anticipazione dell’eterna e universale liturgia, un grande atto di culto, di rendimento di grazie a Dio e di implorazione per tutti: per i fratelli in Cristo e per l’universa umanità.
Ma intanto i Padri ebbero modo di conoscersi, di responsabilizzarsi e di organizzarsi in raggruppamenti, avviando il processo più importante e più duraturo del Vaticano Il, la formazione cioè di una coscienza assembleare e collegiale e facendo uscire il vescovo medio dagli orizzonti ristretti ai quali era assuefatto per sentirsi effettivamente coinvolto nel servizio della Chiesa universale .
E d’altra parte il Papa, per conto suo, provvedeva con vari suoi atti alla concentrazione dei troppi schemi preparatori in venti argomenti, alla disciplina del lavoro durante l’intersessione, alla nomina per questo di una commissione permanente di coordinamento, a disporre un Ordo agendorum per il futuro e a ribadire i punti centrali della sua Allocuzione inaugurale.
Il che consentì al Concilio di continuare ordinatamente i suoi lavori anche dopo la morte del Papa e la successione di Paolo VI: conservando, per quanto era possibile, l’ispirazione iniziale giovannea, e così restando, sia pure non in tutto e non sempre con piena coerenza, fedele al grande balzo in avanti (auspicato dalla Gaudet Mater Ecclesia) che doveva portare la Chiesa fuori dell’epoca tridentina e avviarla per nuove vie più conformi alle istanze ecclesiali, espresse e coltivate negli ultimi decenni, soprattutto dal movimento biblico, dal movimento liturgico e da quello ecumenico: e con questo rendere il sacro deposito sempre più efficace rispetto ai nuovi problemi e ai nuovi bisogni.”
Per chi volesse leggere il testo della prolusione di Don Giuseppe Dossetti nella sua interezza basta aprire il seguente link: Prolusione inaugurale Studio Teologico Interdiocesano di Reggio Emilia