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A 11 anni dalla strage delle torri gemelle
11 anniversario della strage dell’11 Settembre.
Oggi non ci saranno presidenti, né discorsi politici per celebrare la memoria.
Verranno letti solo i nomi delle vittime e si allungheranno i momenti di silenzio. Alcuni studi indicano in oltre mille le vittime del post 11 settembre e tra i 20.000 e i 40.000 i volontari e i lavoratori che hanno subito interventi sanitari.
I vigili del fuoco la settimana scorsa hanno inciso altri 9 nomi di pompieri morti in seguito alle esalazioni respirate durante il crollo delle torri.
Scriveva Enzo Bianchi l’anno scorso sulla “Stampa”
“Nulla sarà più come prima!”. Quante volte sentimmo ripetere questa frase e altre simili all’indomani dell’11 settembre 2001.
Quante voci si aggiunsero al coro dei profeti di sventura che consideravano ineluttabile uno scontro di civiltà alimentato dall’integralismo religioso. Quante letture di qualsivoglia fenomeno sociale vennero fatte sotto l’unica prospettiva di un terrorismo globale. Quanto spesso è stata data per scontata e puntuale una svolta storica che avrebbe stabilito un “prima” e un “dopo” assoluti nell’approccio ai problemi più complessi, che fossero di natura geopolitica o economica, di globalizzazione o di confronto tra mondi culturali o religiosi, di giustizia internazionale o di concezione della guerra.
Ma oggi … possiamo interrogarci con un minimo di distanza critica da quei tragici eventi, che in realtà proprio per la loro gravità richiederebbero un giudizio storico ancor più decantato: “Davvero il mondo non è più stato lo stesso?”. Se giudichiamo a partire dalle risposte immediate date all’attacco terroristico alle Torri gemelle e dai molti effetti che queste reazioni continuano a produrre, potremmo dire che ben poco è cambiato: come in ogni guerra tradizionale fin dai tempi più antichi dell’umanità, a violenza si è risposto con la violenza; come sempre la verità è stata la prima vittima del conflitto; analogamente a quanto così spesso è accaduto nella storia, si è cercato di motivare religiosamente la propria attività bellica; ancora una volta l’operazione di demonizzazione dell’avversario ha identificato qualsiasi membro del gruppo sociale, etnico o religioso antagonista in un nemico da contrastare a prescindere da qualsiasi responsabilità personale: anche per questo, come ormai tragicamente scontato a partire dal secondo conflitto mondiale, il numero di vittime civili è diventato enormemente superiore a quello dei militari belligeranti. In questo senso l’11 settembre ha magari mutato l’estensione geografica, la complessità dei mezzi e dei metodi di combattimento, la composizione dello spettro delle alleanze in una tipologia di conflitto apparentemente inedita, ma questi mutamenti sono attribuibili anche ad altri fenomeni – la globalizzazione, specie nel campo delle informazioni e della tecnologia; il crollo di un muro che divideva il mondo in due blocchi antagonisti, l’ingiustizia nella ripartizione delle risorse del pianeta e la loro progressiva scarsità… – che non sono certo nati con l’attacco al cuore simbolico della prima potenza del mondo “occidentale”. Del resto, lo stesso terrorismo di matrice islamica non era certo nato in un rifugio segreto dell’Afghanistan o nella cabina di pilotaggio di un aereo civile.
Eppure, molte cose sono cambiate dopo l’11 settembre, anche se in una direzione diversa di quella preconizzata – o addirittura auspicata – da alcuni in quei tragici giorni. Innanzitutto si è affrontato con lucido coraggio un discernimento sulla violenza di cui le religioni possono essere – o sono state – portatrici e strumento. In questo va riconosciuto il ruolo profetico e trainante svolto da papa Giovanni Paolo II fin dall’indomani dell’attacco alla Torri gemelle: le sue iniziative, a partire dall’incontro delle religioni per la pace ad Assisi nel gennaio 2002, hanno costituito un antidoto alla dispersione e alla divisione di Babele. Così, in un mondo sempre tentato di rifuggire le differenziazioni e di esaltare le contrapposizioni, il fatto che uomini di ogni lingua, razza, popolo, nazione e religione continuino ancora oggi ad incontrarsi e a lavorare per affermare con risolutezza il loro desiderio di pace è un segno di grande speranza e costituisce un evidente cambiamento nell’approccio alle tante situazioni di conflitto che non sono certo scomparse dall’orizzonte dell’umanità. “Convivere in pace … è il volere di Dio, ed è il nostro dovere su questa terra”, ricordava anche Obama nel suo memorabile discorso rivolto dal Cairo all’insieme della “comunità” musulmana, invocando un’assunzione condivisa delle responsabilità etiche nella consapevolezza di appartenere a un’unica comunità umana.
Né si può dimenticare come, proprio all’alba del nuovo millennio, prendeva l’avvio l’ambizioso progetto del Consiglio ecumenico della chiese di un “decennio per vincere la violenza” in tutte le sue forme, grazie al quale i cristiani hanno non solo potenziato le loro attività sul terreno per sconfiggere la violenza con metodi nonviolenti, ma hanno anche proseguito l’elaborazione di una teologia della “pace giusta”, capace di porre fine alla teoria della “guerra giusta”, troppo a lungo alimentata anche in ambito cristiano.
E come tacere la “novità nella continuità” testimoniata da società civili e dalle loro istanze laiche che, come la Norvegia dopo l’orribile massacro dell’isola di Utoya, decidono di perseverare in atteggiamenti e legislazioni aperte e dialogiche, nonostante la tragica “sconfitta” patita in quell’evento? È la tenace affermazione del fatto che un certo modo di vivere lo si è consapevolmente assunto perché lo si ritiene il più consono all’autentica qualità della convivenza umana e della dignità di tutti: ci si rifiuta di rispondere alla barbarie con la barbarie e ci si impegna nella valorizzazione dell’umanità presente in tutti gli esseri umani, anche in quelli dal comportamento più abietto.
Che molte cose siano cambiate in questi dieci anni, ma non nell’ineluttabile direzione conflittuale intravista allora, lo dimostrano anche le due macroscopiche problematiche che affrontiamo in questi mesi nella loro fase acuta: la crisi finanziaria e la cosiddetta “primavera araba”. Di questi fenomeni complessi e dalle radici ben più profonde di quanto siamo riusciti fin qui a discernere, tutto si può dire, ma non che si muovono nel filone della contrapposizione in base a categorie religiose o dello scontro di civiltà, a meno di non credere che la finanza sia la longa manus per l’affermazione di un credo fideistico o di voler annoverare i giovani arabi nel numero degli “occidentali” solo perché fanno uso anche di tecnologie ormai globali.
Davvero possiamo affermare che oggi più che mai il dialogo resta un’istanza che abita l’immensa maggioranza degli abitanti del pianeta terra, divenuto villaggio globale: un’istanza ineludibile nella nostra vita quotidiana, fatta ormai di un intreccio di esistenze tra simili e diversi. Per questo va richiesto a chi ha autorità e autorevolezza all’interno del proprio mondo religioso e culturale, e va praticato da ciascuno nel proprio ambito per cercare di tradurre un dato sociologico irreversibile in nuove articolazioni della convivenza civile, della giustizia e del rispetto dei diritti di ogni persona. Il nostro vissuto, infatti, non è determinato da proclami o da scontri di civiltà, ma dall’intersecarsi quotidiano di rapporti personali e familiari, di lavoro, di svago, di attese e di fatiche per un futuro migliore per sé e per le generazioni a venire.
Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini? ( da una riflessione di C.M. Martini )
Nel brano del Vangelo di domenica prossima ( XXIV del T.O. ) Pietro non accetta il mistero della Croce.
Da “Ritrovare se stessi ” di C. M. Martini il tema del “ combattimento spirituale ” abbiamo extrapolato un piccola parte che potrà essere utile nella lettura del Vangelo di domenica prossima.
Aprendo il link accanto (” RITROVARE SE STESSI – Il combattimento spirituale”) si potrà leggere la “ riflessione “ nella sua interezza.
” Ci lasciamo aiutare dalla figura di Pietro che non accetta il mistero della croce…. Sempre a proposito di Pietro, leggiamo in Marco:
« Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarea di Filippo; e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: “Chi dice la gente che io sia?”. Ed essi gli risposero: “Giovanni il Battista, altri poi Elia e altri uno dei profeti”. Ma egli replicò: “E voi chi dite che io sia?”. Pietro gli rispose: “Tu sei il Cristo”. E impose loro severamente di non parlare di lui a nessuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare.
Gesù faceva questo discorso apertamente. Allora Pietro lo prese in disparte, e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: “Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” » (Marco 8, 27-33).
L’episodio è diviso chiaramente in due parti: la prima comprende le domande di Gesù ai discepoli; la seconda, il discorso della croce fatto da Gesù e la reazione negativa di Pietro.
– Il contesto geografico del brano di Marco ci è dato rapidamente: Gesù parte, con i discepoli, verso i villaggi intorno a Cesarea di Filippo. Una zona che non è nominata altrove nei vangeli, e abitata, almeno sembra, da pagani. Gesù non è conosciuto in quei luoghi e nessuno si accorge di lui. Per questo può tranquillamente occuparsi dei suoi discepoli dedicandosi alla loro formazione.
– L’interrogazione. Gesù li forma non solo attraverso insegnamenti, ma con esercizi pratici, facendo emergere da ciascuno degli apostoli qualcosa di importante. Qui, fa una domanda decisiva: «Chi dice la gente che io sia?» (v. 27).
– La risposta evoca alcune figure di uomini di Dio, persone che parlano in nome del Signore, come appunto Giovanni Battista, Elia, altri profeti. La gente interpreta giustamente Gesù, secondo una categoria religiosa e profetica: è un uomo che è tra noi in nome di Dio.
– La replica. Egli tuttavia insiste: «Ma voi chi dite che io sia?» (v. 29). Fin dove giunge, cioè, la vostra conoscenza di me? Possiamo pensare che alla nuova domanda segua un silenzio un po’ imbarazzato, timoroso, da parte degli apostoli. A un certo punto, però, c’è la folgorazione di Pietro: «Tu sei il Cristo». Gli altri sono profeti parziali, mediatori per tempi contingenti della storia; tu sei il mediatore assoluto, tu sei la chiave della storia, sei colui che riassume in sé tutta la storia precedente e spiega quella che verrà.
La risposta di Pietro è altissima, è un grande atto di fede. Gesù però non è soddisfatto. Non nega l’affermazione, ma vuole che non si parli di lui prima che abbia chiarito bene che cosa si deve intendere dicendo: “il Cristo”. Viene alla mente il discorso della Montagna: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Matteo 7) 21). Chi mi proclama Cristo non può pensare di essere salvo, se non comprende il significato di tale parola.
– «Cominciò a insegnare che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire» (v. 31).
Si entra nella seconda parte del brano e Gesù inizia un insegnamento nuovo, mai fatto prima e che continuerà in seguito.
Nel cuore degli apostoli si crea smarrimento, perché “Figlio dell’uomo” è un titolo tratto da una famosa pagina del profeta Daniele, in cui il Figlio dell’uomo appariva dalle nubi del cielo, come il termine glorioso del cammino del popolo di Dio, come la risoluzione di tutte le tragedie storiche in una glorificazione dell’opera divina (cfr. Daniele 7, 13-14).
Secondo Gesù, invece, questo Figlio dell’uomo «doveva molto soffrire». La parola è dura, anche se rimane vaga, ed evoca dolore; il Cristo non ha anzitutto un destino di successo, di capacità di rovesciare tutto a suo favore.
E la sofferenza viene specificata: soffrirà nel senso che sarà riprovato. E brutto per un uomo essere respinto; possiamo avere delle malattie dolorose e però gli altri ci stanno vicini, ci accettano. La sofferenza di Gesù è più dolorosa perché si tratta di sperimentare la divisione, l’ostracismo, il rifiuto della gente.
Un rifiuto non da parte dei peccatori, di persone svagate che non conoscono Dio, ma da parte di tre categorie di uomini: gli anziani, i sommi sacerdoti, gli scribi. In termini a noi comprensibili, da parte del potere politico, religioso, intellettuale e culturale. Verrà messo al bando da tutto ciò che rappresenta il prestigio, la responsabilità pubblica e civile.
– E «poi venire ucciso». Gesù viene addirittura eliminato, e la sua missione si chiude così.
«E, dopo tre giorni, risuscitare». Ora il discorso è difficilissimo e travalica tutte le esperienze possibili. Perché soffrire tanto per poi risuscitare? Che cosa vuol dire risuscitare?
– Gesù «faceva questo discorso apertamente» (v. 32).
Le parole riversate nei cuori smarriti dei discepoli, fanno loro intendere che forse il Maestro aveva già accennato velatamente al tema. Cominciano a capire, ad esempio, le parabole precedenti: il regno di Dio è come un seme che viene calpestato dalla gente, soffocato dalle spine, beccato dagli uccelli. Gesù parlava della Parola, ma parlava anche di sé, della sua via alla croce. Il Regno dei cieli è come un granello di senapa, che nessuno considera, che si butta via, e a un tratto cresce, inaspettatamente. Gesù parlava di sé (cfr. Marco 4, 1-7.30-32).
Il discorso del regno di Dio si va chiarendo: è il discorso di Cristo, Messia, Signore, Salvatore, che passa attraverso la povertà e l’insignificanza spiegate in riferimento al Regno.
Gesù riprenderà continuamente, nel resto della sua vita, questo tema e lo riprenderà dopo la sua morte, in particolare nel vangelo di Luca parlando ai discepoli di Emmaus: «O stolti e tardi di cuore a credere a quanto avevano detto i profeti! Non bisognava che il Cristo soffrisse ed entrasse nella sua gloria? E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Luca 24,25-27).
Non è dunque un discorso di poche parole: soffrire, essere respinto, venire ucciso, risorgere. E sintetico e si può allargarlo richiamando l’insegnamento di Mosè e dei profeti.
E il discorso cristiano per eccellenza: tutta la Bibbia è da leggere come riassunta in Gesù crocifisso e risorto. «”Queste erano le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi”. Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture e disse: “Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno”» (Luca 24,44-46). Ecco il modo in cui le Scritture presentano Gesù. Ecco che cosa significano le parole: «Faceva questo discorso apertamente».
La Chiesa primitiva lo riprenderà, Paolo lo ripeterà, e costituisce l’affermazione centrale del Credo: «Per noi si fece uomo, patì sotto Ponzio Pilato, morì, fu sepolto, risuscitò secondo le Scritture».
Quando noi diciamo: Gesù è la soluzione di tutti i problemi umani, forse non comprendiamo davvero. Gesù risolve i problemi umani mediante la sua sofferenza, la sua morte, la sua risurrezione, e solo se lo seguiamo su questa strada con fiduciosa dedizione possiamo dire con verità quella espressione.
– «Pietro lo prese in disparte, e si mise a rimproverarlo».
Che Gesù venga rimproverato da un apostolo è un caso unico nei vangeli. Un episodio simile accade nella casa di Betania, quando Marta rimprovera il Maestro perché la sorella non l’aiuta; ma Marta, in quel momento, è nervosa, irritata e butta fuori ciò che le viene in mente al primo colpo. Pietro, invece, no; Pietro ha fatto una professione chiarissima di fede. Tuttavia non fino a quel punto.
Che cosa avrà detto Pietro nel rimproverarlo? Penso ad argomenti che possiamo trovare, per esempio, nel libro di Giobbe: «Perché mi hai tratto dal seno materno? Fossi morto e nessun occhio m’avesse mai visto!»(Giobbe 10, 18). Oppure alle parole dei discepoli di Emmaus: Credevamo che costui redimesse Israele, che ci desse vittoria, trionfo, successo, e invece niente di tutto questo (cfr. Luca 24,21).
Pietro avrà avvertito Gesù che stava perdendo gli amici, che parlando così non si sarebbe fatto conoscere, che stava presentando un’immagine di sé e di Dio che gli apostoli non avrebbero accettato. Dio, diceva Pietro, è il Dio della gloria, il Dio della capacità di rovesciare i nemici, mentre tu parli di essere respinto, di perdere.
Siamo al momento drammatico del discorso della croce, perché l’uomo, anche l’uomo ecclesiastico come Pietro, vuole un Dio che sia solo successo, trionfo, e non accetta il seme che cade nella terra e muore, non accetta il lievito nella pasta, non accetta il granello di senapa.
– «Ma Gesù, voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: “Lungi da me, satana!”» (v. 33).
È inaudito che nei vangeli il Signore chiami qualcuno “satana”. Non l’aveva mai fatto, neanche con i più grandi peccatori, neanche con gli scribi e i farisei. La sua è una parola incredibile, tagliente.
Che cosa intende dire? Intende dire che Pietro, respingendo il discorso della croce, rifiuta di aprire all’umanità le vie della vita. Proprio come satana che non vuole il bene dell’uomo, perché è dal principio omicida, invidioso, è colui che apre all’uomo le vie della morte.
C’è di più: tu, Pietro, – continua Gesù – credi di interpretare Dio, ma il mio Dio, il mio Padre ama l’uomo fino a dare il suo Figlio nella morte. Dio Padre ama tanto l’uomo da dare il suo Figlio anche se l’uomo lo respinge, ama tanto l’uomo da offrirgli ugualmente il perdono.
Qui è in gioco l’immagine stessa di Dio; un’immagine che in Pietro è ancora un po’ falsata, caricaturata, confusa, e che pure in noi, di fatto, è un po’ falsata portandoci spesso a conclusioni sbagliate sulla vita.
Noi, che professiamo nel Credo «Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra», non abbiamo la vera immagine di Dio fino a quando non abbiamo fatto questo passo cristiano-evangelico dell’ accoglienza della via della croce.
– «Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».
Viene richiamata la grande parola di Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (55, 8).
Pietro vuole distorcere le vie di Dio, gli dice come deve essere, come si aspetta che sia Dio. Ma è Dio che si rivela all’uomo: lo sono per te, sono con te, io sono Gesù crocifisso e risorto.
Dio si identifica con la figura del Crocifisso risorto, non con un qualunque idolo vittorioso, con un qualunque simbolo di benessere, con una qualunque promessa pseudo-messianica. Dio si identifica solo con Gesù, crocifisso, morto e risorto.
Il salto di qualità nella fede, richiesto a Pietro, è proposto a ciascuno di noi.
L’esistenza cristiana non significa offrirsi allo scacco, all’insuccesso, per un certo gusto masochistico della sofferenza. Esige invece una completa disponibilità del cuore, che accetti di essere rifiutata dagli altri e sia perseverante fino all’ultimo. Ne deriva che il cristiano non è coinvolto nella passione di Gesù per il mondo solo perché aiuta chi soffre, perché serve, perché è efficiente nella lotta contro l’ingiustizia, ma perché è disposto a lasciarsi mettere in questione come persona, a lasciarsi travolgere dalla vocazione evangelica fino a diventare egli stesso Parola rifiutata, messa a tacere.
Il massimo servizio che il cristiano può compiere è quello di Gesù: offrire la disponibilità di Dio per l’uomo, vivere la disponibilità dell’ ascolto e dell’ amore accettandone tutte le conseguenze.
In altre parole, il sacrificio cristiano è lasciarsi versare in libagione come scrive Paolo nella seconda Lettera a Timoteo (4,6) -, è l’offerta della propria vita e del proprio impegno.
Questo paradosso, difficile da esprimere, e delle cui formulazioni non dobbiamo mai abusare per facili ragionamenti, non è frutto dei nostri sforzi, ma è suscitato in noi dallo Spirito. E va però chiesto nella preghiera, nella supplica, nella quale soltanto giungiamo a comprendere qualcosa della passione di Gesù), della sua vita attraversata da tentazioni e da prove. E la tappa decisiva della conversione, che ci permette di entrare nella passione del mondo, dando un senso alle fatiche dell’uomo per migliorare il cammino dell’umanità. È il frutto del quotidiano combattimento spirituale.
C. M. Martini: "Teologia della comunicazione" nella lettera pastorale Effatà
Nel brano del Vangelo di domenica prossima ( XXIII del T.O. ) la guarigione del sordomuto.
Nella lettera pastorale del 26 Marzo 1996, che affronta l’azione tipica della chiesa: il comunicare , C. M. Martini propone una sorta di teologia della comunicazione a partire dall’autocomunicazione di Dio all’uomo.
La comunicazione dell’uomo, piena di difficoltà, non può che ispirarsi alla comunicazione di Dio quale viene espressa dal mistero della Trinità. ….. Oggetto di particolare attenzione sono le forme di comunicazione non verbale della fede, quali il canto e la musica, la comunicazione simbolica e il linguaggio proprio della Chiesa.
Aprendo il link accanto ( C.M.Martini Lettera Pastorale Effatà ) si potrà leggere la lettera nella sua interezza dalla quale abbiamo estrapolato una piccola parte che potrà essere utile nella lettura del brano evangelico.
“Contempliamo Gesù nel momento in cui sta facendo uscire un uomo dalla sua incapacità a comunicare. Si tratta della guarigione del sordomuto raccontata in Mc 7, 31-37. S. Ambrogio chiama questo episodio – e la sua ripetizione nel rito battesimale – “il mistero dell’apertura”: “Cristo ha celebrato questo mistero nel Vangelo, come leggiamo, quando guarì il sordomuto” (I misteri, I, 3).
Dividiamo il racconto in tre tempi: la descrizione del sordomuto, i segni e gesti di apertura, il miracolo e le sue conseguenze.
1. La narrazione evangelica precisa anzitutto il disagio comunicativo di quest’uomo. E’ uno che non sente e che si esprime con suoni gutturali, quasi con mugolii, di cui non si coglie il senso. Non sa neanche bene cosa vuole, perché è necessario che gli altri lo portino da Gesù. Il caso è in sé disperato (7, 31-32).
2. Ma Gesù non compie subito il miracolo. Vuole anzitutto far capire a quest’uomo che gli vuol bene, che si interessa del suo caso, che può e vuole prendersi cura di lui. Per questo lo separa dalla folla, dal luogo del vociferare convulso e delle attese miracolistiche. Lo porta in disparte e con simboli e segni incisivi gli indica ciò che gli vuol fare: gli introduce le dita nelle orecchie come per riaprire i canali della comunicazione, gli unge la lingua con la saliva per comunicargli la sua scioltezza. Sono segni corporei che ci appaiono persino rozzi, scioccanti.
Ma come comunicare altrimenti con chi si è chiuso nel proprio mondo e nella propria inerzia ?
Come esprimere l’amore a chi è bloccato e irrigidito in sé, se non con qualche gesto fisico?
Notiamo anche che Gesù comincia, sia nei segni come poi nel comando successivo, con il risanare l’ascolto, le orecchie. Il risanamento della lingua sarà conseguente.
A questi segni Gesù aggiunge lo sguardo verso l’alto e un sospiro che indica la sua sofferenza e la sua partecipazione a una così dolorosa condizione umana.
Segue il comando vero e proprio, che abbiamo scelto come titolo di questa lettera: “Effatà” cioè “Apriti!” (7, 34). E’ il comando che la liturgia ripete prima del Battesimo degli adulti: il celebrante, toccando con il pollice l’orecchio destro e sinistro dei singoli eletti e la loro bocca chiusa, dice: “Effatà, cioè: apriti, perché tu possa professare la tua fede a lode e gloria di Dio” (Rito dell’Iniziazione Cristiana degli Adulti, n. 202).
3. Ciò che avviene a seguito del comando di Gesù è descritto come apertura (“gli si aprirono le orecchie”), come scioglimento (“si sciolse il nodo della sua lingua”) e come ritrovata correttezza espressiva (“e parlava correttamente”). Tale capacità di esprimersi diviene contagiosa e comunicativa: “E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano”.
La barriera della comunicazione è caduta, la parola si espande come l’acqua che ha rotto le barriere di una diga. Lo stupore e la gioia si diffondono per le valli e le cittadine della Galilea: “E, pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”“ (7, 35-37).
In quest’uomo, che non sa comunicare e viene rilanciato da Gesù nel vortice gioioso di una comunicazione autentica, noi possiamo leggere la parabola del nostro faticoso comunicare interpersonale, ecclesiale, sociale.”
Nominati i nuovi parroci di Petralia Soprana e Alimena
“Ho cercato di servire tutti con amore e dedizione ma l’obbedienza non è un concetto astratto bensì una scelta di vita e, quindi, anche se non sono stato io a dimettermi accetterò il trasferimento. Pregate per me e per la mia nuova comunità e preparatevi ad accogliere il nuovo parroco con il rispetto e la collaborazione di cui siete capaci. I preti passano ma Gesù resta … un abbraccio a tutta la comunità alimenese per la solidarietà e l’affetto manifestatomi in questi tanti anni di cammino spirituale“.
Con queste parole Don Salvatore Mocciaro si conceda da Alimena.
Con la CelebrazioneEucaristica presieduta da S.E. Mons. Vincenzo Manzella, Vescovo di Cefalù, Sabato 8 Settembre 2012 alle ore 17:30, Don Salvatore Mocciaro inizierà il ministero pastorale di Parroco nella Parrocchia SS. Apostoli Pietro e Paolo di Petralia Soprana.
Ad Alimena arriverà Don Giuseppe Cigno, dopo 9 anni trascorsi a servire la comunità di Castellana Sicula, dove si era insediato la vigilia della festa dell’Immacolata del 2003.
Inizierà il ministero pastorale di Parroco nella Parrocchia S. Maria Maddalena di Alimena domenica 9 Settembre 2012 alle ore 18 con la Celebrazione Eucaristica presieduta da S.E. Mons. Vincenzo Manzella.