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Nominati i nuovi parroci della Parrocchia Cattedrale di Cefalù e di Finale di Pollina

Nominati altri due parroci: Mons. Cosimo Leone alla Parrocchia Cattedrale di Cefalù e Don Mauro Ciurca a Finale di Pollina
Mons. Cosimo Leone prenderà possesso canonico della Parrocchia Cattedrale il 5 Agosto nella Liturgia lucernale della Trasfigurazione del Signore, per iniziare il suo Ministero Pastorale.
Don Cosimo Leone , dottore in Sacra Scrittura, è ben conosciuto a Cefalù: è stato parroco della comunità parrocchiale nascente di Sant’Agata, al villaggio dei pescatori negli anni 84-85.Direttore Spirituale del seminario e poi Rettore,ha servito la Chiesa di Cefalù in diversi altri incarichi: cerimoniere del vescovi Rosario Mazzola ed Emanuele Catarinicchia, delegato vescovile per la pastorale giovanile e le confraternite. Poi dal 1994 al 2008 parroco di Valledolmo e , negli ultimi anni, di Petralia Soprana.
Don Mauro Ciurca, Succede a don Sandro Orlando.A Cefalù arriva nel 2009 all’insediamento del Vescovo Mons. Vincenzo Manzella, che ha seguito dalla diocesi di Caltagirone a quella di Cefalù.Nel giugno del 2004 è stato nominato vicario parrocchiale delle parrocchie san Nicolò – SS. Salvatore e Santa Maria della Stella di Militello in Val di Catania, per diventare nel giugno 2007 amministratore parrocchiale delle stesse.
A Roma ha conseguito la specializzazione in Ecclesiologia.
All’arrivo a Cefalù nel dicembre dello stesso anno 2009 viene inviato ad Alia nella parrocchia di Sant’Anna dove il primo febbraio del 2011 viene chiamato a succedere a don Rosolino La Mendola come amministratore parrocchiale.
 

Don Giuseppe Dossetti, uomo pasquale


[ fonte ” L’Osservatore Romano – Emanuela Ghini ]
E’ possibile parlare di Giuseppe Dossetti, e l’hanno fatto anche il card. Biffi e il card.Martini, come di un profeta.
Un uomo che ha avuto una coscienza del suo tempo e del Cristianesimo di una lucidità eccezionale, coniugando profezia religiosa e civile, in uno straordinario ascolto del Vangelo e della storia.
Una storia iniziata per lui a Cavriago (Reggio Emilia), pochi mesi dopo la nascita a Genova (13-02-1913), e da subito cristiana, per una fede ricevuta nel battesimo e sviluppata prima da una madre dolcissima e forte — Ines Ligabue –, in seguito da un sacerdote, Dino Torregiani, che avvia il piccolo Giuseppe alla scoperta di tutte le povertà, inizio di quel guardare lontano che connoterà la sua vita.
E’ possibile — è stato fatto e lo sarà sempre più — accostare Giuseppe Dossetti da tante prospettive; per richiamarne solo alcune: il docente di diritto ecclesiastico, il politico, deputato alla Costituente e alla Camera, il vicesegretario della DC di De Gasperi, il fondatore, con La Pira, Lazzati, Fanfani, della rivista “Cronache sociali, voce nuova nel mondo culturale italiano (1947-1951).
In seguito, dal 1952, dopo l’allontanamento dalla politica e dall’Università, il fondatore a Bologna del Centro di Documentazione, che mons. Carlo Colombo definì all’epoca la migliore biblioteca teologica d’Europa, il fondatore a Monteveglio (Bologna) della Piccola Famiglia dell’Annunziata (1955), il sacerdote (1959), il segretario del cardinal Lercaro, poi nominato da Paolo VI perito conciliare al Concilio Ecumenico Vaticano II [1962-65]
Considerare i molteplici aspetti dell’attività di Giuseppe Dossetti togliendoli dalla loro radice unificante, porta ad assolutizzare espressioni importanti e affascinanti dell’uomo eccezionale che è stato e continua ad essere, ma comporta il rischio di perdere di vista il nucleo centrale della sua straordinaria personalità, ciò che l’ha reso, secondo il card. Silvestrini, una delle voci più alte per la vita spirituale della Chiesa nell’epoca contemporanea.
Questo nucleo è costituito da un lato dal battesimo, le energie di grazia accolte da uno spirito proteso all’ascolto e all’ assoluta coerenza alle sue esigenze, in risposta al dono della fede; dall’altro, e in dipendenza da essa, dalla coscienza del fine affermata a 27 anni con una lucidità che illuminerà la sua esistenza: Occorre che io ritorni sempre alla considerazione del mio fine: solo essa mi può dare l’idea esatta dell’uso che sto facendo della mia vita.
E’ l’anima di quella tensione escatologica che informerà tutta la vita di Dossetti, dall’appartenenza all’Istituto Milites Christi Regis di Lazzati alla fondazione di una comunità monastica.
Fede obbediente
“La fede obbediente del silenzio e della parola” che Oscar Luigi Scalfaro ha visto in Dossetti l’ha orientato fin da giovanissimo, tra i 23 e i 28 anni, verso una consacrazione totale a Dio.
Impressiona seguire negli Appunti spirituali dal 1939 al 1955, diario di una coscienza di straordinaria integrità, la tensione al fine a cui viene orientato e subordinato tutto, con una inflessibilità mite ma irremovibile, che nel 1949-50 lo condurrà ad affermare: La vocazione religiosa deve essere il grande fatto, l’evento centrale della mia vita. Definitivo e continuamente rinnovato. Tutto ne dipende… Tutto il resto è mezzo. In particolare è mezzo la vita politica.
Il suo ingresso in politica nel drammatico periodo postbellico ha un unico scopo, espresso da lui stesso: contenere le azioni comuniste arbitrarie, le uccisioni selvagge, la scomparsa di tante gente.
Il fine, escatologico, ma anticipabile in qualche misura nella storia, ha condotto Giuseppe Dossetti a un incessante progredire, quasi suo malgrado, verso un distacco sempre più radicale da ogni impegno operativo (prima dalla politica, poi dall’Università, poi perfino dallo studio, almeno di tipo scientifico). Sono parole sue, sintesi di uno spogliamento crescente e inarrestabile..
Giacomo Biffi ha visto nella fede di Dossetti “una assolutezza di donazione e di amore che può davvero essere paragonata a quella di Abramo, disposto a sacrificare alla volontà trascendente di Dio addirittura il figlio della promessa”…
La radicalità dell’impegno in un cammino di fede senza sconti, come amava dire, ha la sua fonte nella frequentazione incessante della Scrittura. Letta, studiata, scrutata, ruminata, soprattutto pregata. Assimilata in una lectio continua, quotidiana, alla luce della Tradizione della Chiesa, in un rapporto che sfocia nell’eucaristia, che della Chiesa è fonte e vertice, come lo è di tutta la preghiera.
Da qui ha origine il magistero spirituale di questo padre non solo dei figli della comunità da lui fondata, ma di chiunque si rivolgesse a lui per aiuto in un discernimento che trovata in questo scrutatore dei cuori accoglienza immediata, e un accompagnamento destinato a non finire nel tempo.
Molteplicità nell’unità
Questì richiami alla centralità del carisma di Giuseppe Dossetti, quasi il fulcro da cui irradiavano e irradiano le sue inesauribili energie di intelligenza, di cultura, di capacità di governo, di conoscenza profonda dell’uomo, della storia, della vastità dei mondi in cui abita e di quelli infinti a cui tende sono suscitati, o risvegliati in chi ha avuto il dono di conoscerlo, da una sintesi della vicenda complessa e unitaria di Giuseppe Dossetti — Fabrizio Mandreoli, Giuseppe Dossetti, Il Margine –, che l’autore presenta come “introduzione alla vita di un protagonista significativo della vita del nostro Paese e della Chiesa”.
Di fatto, è un’introduzione che apre all’ascolto di tutto l’uomo, compiuta con una partecipazione e passione che restituiscono il testimone che Dossetti è stato nella completezza del suo servizio a Dio e agli uomini. Egli ha sempre richiamato e vissuto l’intensità di una dedizione che coinvolga tutto l’essere e sia perseguita con tutte le forze.
Quale che ne sia il fine, essa apre a Dio. Al contrario, una concezione dell’esistenza che enfatizzi le esperienze – di qualsiasi genere siano, anche spirituali – si disperde in esse, si depaupera fino allo smarrimento.
Ma le convinzioni profonde e le azioni che hanno segnato un’esistenza dai molteplici volti e dall’unica mèta hanno un valore ben superiore agli ambiti in cui si sono espresse, Sporgono dal tempo e assumono connotati perenni. Fabrizio Mandrioli rileva come, “una volta recepite e rielaborate in contesti nuovi, siano dei vettori e delle prospettive importanti per i nostri giorni e la vita della Chiesa, dei cristiani, della politica italiana e, più in generale, della convivenza sociale nel nostro Paese”.
Una norma di vita valida in ogni ambito dell’agire umano, dal pensiero all’azione, è guardarsi dal fare per il fare, dal divenire preda di un attivismo agitato e alla fine sterile. Il rischio del pelagianesimo insidia tutti, i cattolici devono fare affidamento non sulle proprie iniziative, per quanto possano apparire elevate e intese al bene di tutti, ma sulla grazia. L’eredità di Antonio Rosmini, che Dossetti aveva letto da giovane, è spesso sottesa ad alcune sue tesi.
Dal 1952 i vari distacchi che egli va compiendo in progressione e che lo condurranno sempre più lontano lo aprono a una stagione ecclesiale animata e palpitante, di cui sono frutto la nascita della Famiglia spirituale e la partecipazione al Concilio e al postconcilio.
La sua immersione sempre integrale — con tutte le forze –, in ogni evento al quale è chiamato a partecipare matura in lui la lucida consapevolezza della fine di una cultura, del venir meno di maestri, della crisi globale di una civiltà. E insieme la convinzione che la riforma della Chiesa e della società possa nascere solo da un’ adesione sempre più completa alla Parola di Dio, e al suo cuore più intimo, il Vangelo, vissuto in una sequela integrale a Gesù Cristo. Per vie diverse da quelle progettate personalmente, in una continua conversione, una purificazione perenne, una fatica aperta all’illuminazione.
Nel cuore della Chiesa
1968: il card. Lercaro lascia ll governo della diocesi di Bologna; nello stesso anno muore la madre di “don Giuseppe”, divenuta dal 1959 madre anche delle sorelle della Piccola Famiglia. In seguito alla rottura di questi ormeggi, Dossetti si reca a Bangkok a un congresso mondiale sul monachesimo, e torna dopo un lungo pellegrinaggio in India e in vari paesi del Medio Oriente.
L’esperienza, vissuta nella grande Asia, di mondi diversi, di civiltà antichissime dalle radici intensamente spirituali induce Dossetti a riflessioni profonde e in primo luogo all’esperienza di una grande umiliazione: la verifica della piccolezza dell’Occidente e al contrario della grandezza della sua presunzione, la convinzione che tutti i problemi che lo agitano sono poca cosa: sono stato potentemente umiliato, ho patito le più grandi e più concrete, profonde, spirituali umiliazioni della mia vita.
Questo drastico ridimensionamento di problemi, anche di natura ecclesiale, ha su Dossetti un influsso decisivo, lo convince dell’ urgenza di risalire alle origini più profonde del Cristianesimo, a un modo nuovo di viverlo. Il suo desiderio di sempre di una Chiesa povera, incentrata sulla Scrittura e l’Eucaristia, dispensatrice di amore e di speranza, si coagula, per così dire, nel cuore della Chiesa, a monte di ogni possibile mediazione con un mondo disinteressato ad essa ma affamato comunque di Cristo.
Se l’esperienza dell’incontro con altri mondi l’aveva condotto a una visione di grande pace, essa l’induce anche a ridimensionare la fiducia in tentativi di riforma della Chiesa di cui avverte la scarsa efficacia davanti al messaggio essenziale del Cristianesimo: Cristo, realtà inesauribile, abisso in cui cadere con tutto l’essere – intelligenza, volontà, sentimento – per attingere vita e parola di discepolo.
Da qui lo sprofondarsi nella preghiera, prima inderogabile necessità del cristiano e del monaco, immersione silenziosa nell’universo della sofferenza umana..
La vita monastica
Dossetti considererà la vita e le attività precedenti alla fondazione della sua Piccola famiglia dell’Annunziata come preparazione alla vita che, come quella monastica nelle sue varie forme, non si sceglie, ma per la quale si è scelti e nella quale egli vede la ricapitolazione di ogni tappa del suo cammino.
La viita monastica che, come per i padri del deserto, è semplicemente vita cristiana vissuta con coerenza, vita in Cristo e nello Spirito, che prega il Padre in ogni coscienza anche inconsapevole. Non fuga dal mondo, ma anzi inserimento più radicale e più esigente nel cuore del mondo. In grado di dare alla Chiesa e alla comunità degli uomini un contributo importante, tanto maggiore quanto più nascosto.
Il monastero è un laboratorio.in cui si vivono esperienze e si tessono fili di comunione, di solidarietà, di pace. A un livello povero, nell’ambito di una carità da persona a persona.
La vita monastica non come unica modalità di servizio — la regola della Piccola Famiglia dell’Annunziata è seguita anche da famiglie guidate da norme proprie — ma come richiamo forte all’essenza del Cristianesimo.
Nella sua Piccola Famiglia, tra i sui figli amatissimi, Dossetti muore, il 15 dicembre 1996, a Monteveglio (Bologna), lasciando un’eredità di pensiero e la forza di una testimonianza che passeranno alla storia civile, politica, soprattutto cristiana ed ecclesiale.Come, a soli due anni dalla morte, la sua difesa dei principi etici informatori della Costituzione, compiuta con l’umile forza del vecchio monaco che veglia sulla città degli uomini.
Fabrizio Mandreoli, con la competenza dello storico e la sensibilità del cristiano, ha reso un valoroso, esauriente, documentato contributo alla conoscenza di un testimone di rara purezza evangelica.
Se fosse possibile racchiudere una vita entro un’inclusione, ripeteremmo che i due estremi di quella di Giuseppe Dossetti sono, come è stato detto, il suo sguardo di giovanissimo nel 1931 alla Sindone, in cui la madre colse la sua consegna totale al Signore Gesù, e quello del “grande vecchio” nel 1996 al Crocifisso, nell’offerta ultima della vita. Tra i due estremi l’umile risolutezza dell’adesione, per un amore assoluto alla Chiesa e all’umanità, alla croce gloriosa di Gesù Cristo

La preghiera fragile dei vecchi vicino a Dio


« So che posso dire come Isacco io sono vecchio e ignoro il giorno della mia morte» (Gen 27,2), ma di questo non ho ancora tratto le conclusioni.
 Cerco comunque di chiarirmi le idee riflettendo un po’ sull’ argomento.
 Mi pare che si possa parlare in due modi della preghiera dell’ anziano. Si può considerare l’ anziano nella sua crescente debolezza e fragilità, secondo la descrizione metaforica (ed elegante) del Qohèlet:
 

“ Ricòrdati del tuo creatore
nei giorni della tua giovinezza,
 prima che vengano i giorni tristi
e giungano gli anni di cui dovrai dire:
«Non ci provo alcun gusto»,
prima che si oscuri il sole,
la luce, la luna e le stelle
e ritornino le nubi dopo la pioggia;
quando tremeranno i custodi della casa
e si curveranno i gagliardi
e cesseranno di lavorare le donne che macinano,
perché rimaste in poche,
e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre
e si chiuderanno le porte sulla strada;
quando si abbasserà il rumore della mola
e si accentuerà il cinguettio degli uccelli
e si affievoliranno tutti i toni del canto;
quando fiorirà il mandorlo
e la locusta si trascinerà a stento
e il cappero non avrà più effetto,
quando si avrà paura delle alture
e degli spauracchi della strada;
poiché l’uomo se ne va nella dimora eterna
e i piagnoni si aggirano per la strada;
prima che si rompa il cordone d’argento
e la lucerna d’oro s’infranga
e si rompa l’anfora alla fonte
e la carrucola cada nel pozzo
e ritorni la polvere alla terra, com’era prima,
e lo spirito torni a Dio che lo ha dato.
Vanità delle vanità, dice Qoèlet,
e tutto è vanità.”

In questo caso il tema sarà la preghiera (qui evocata dalle parole «Ricordati del tuo Creatore») di colui che è debole e fragile, di colui che sente il peso della fatica fisica e mentale e si stanca facilmente.La salute e l’ età non consentono più di dedicare alla preghiera i tempi lunghi di una volta: si sonnecchia facilmente e ci si appisola.Mi pare quindi sia necessario imparare a utilizzare al meglio il poco tempo di preghiera di cui si è in grado di disporre.
Non riuscendo più a dedicare alla preghiera lo stesso tempo di quando si avevano più energie, e sentendola spesso come un po’ distante e poco consolante, è possibile che il proprio spirito venga catturato da un certo senso di scoraggiamento. Allora la tentazione sarà di accorciare ulteriormente i tempi da consacrare alla preghiera, limitandosi allo strettamente necessario. Tuttavia questo accorciare i tempi dell’ orazione potrebbe essere molto pericoloso. Infatti la preghiera, per dare qualche conforto, deve essere di norma un po’ prolungata.
Se si restringe il tempo, anche le consolazioni sorgeranno con maggiore difficoltà e si creerà una sorta di circolo vizioso, che porterà a pregare sempre meno.
Ma la preghiera dell’ anziano potrebbe anche essere considerata la preghiera di qualcuno che ha raggiunto una certa sintesi interiore tra messaggio cristiano e vita, tra fede e quotidianità.
Quali saranno allora le caratteristiche di questa preghiera? Non è facile stabilirlo in astratto e aprioristicamente: occorrerebbe piuttosto riflettere sull’ esperienza dei santi, in particolare dei santi anziani.
Perciò bisognerebbe dedicare, con pazienza, un po’ di tempo alla ricerca.
Anzitutto nella Bibbia. In molti Salmi si parla apertamente dell’ anziano e della sua condizione con espressioni molto significative e suggestive.
Ad esempio: «Sono stato fanciullo e ora sono vecchio; non ho mai visto il giusto abbandonato né i suoi figli mendicare il pane» (Sal 36,25). Si veda anche l’ esortazione del Salmo 148,12: «I vecchi insieme ai bambini lodino il nome del Signore».
La Scrittura ci offre anche preghiere tipiche di un anziano. La più nota è la preghiera dell’ anziano Simeone al tempio quando prende tra le sue deboli braccia il piccolo Gesù: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli» (Lc 2,29 ss.).
La ricerca dovrebbe allargarsi ai Padri apostolici, come Ignazio e Policarpo, quindi ai Padri del deserto e ai grandi oranti di tutti i secoli.
Non essendo qui possibile percorrere una tale via analitica, mi limiterò ad alcune riflessioni generali, aiutato anche dalla testimonianza di qualche confratello più anziano di me.
Mi chiederò, cioè, quali potrebbero essere alcune caratteristiche positive nella preghiera di un anziano. Mi pare che possano emergere tre aspetti:
* un’ insistenza sulla preghiera di ringraziamento;
* uno sguardo di carattere sintetico sulla propria vita ed esperienza;
* infine una forma di preghiera più contemplativa e affettiva, una prevalenza della preghiera vocale sulla preghiera mentale.
Sul primo di questi tre punti riporto la testimonianza di un confratello: «Riguardo ai contenuti della mia preghiera in questi anni di vecchiaia – ho 85 anni – si distingue la preghiera di ringraziamento. Si sono sviluppati due motivi per ringraziare Dio: anzitutto per avermi concesso un tempo in cui mi posso dedicare (vorrei quasi dire “a tempo pieno”) a prepararmi alla morte. E ciò non è dato a tutti. In secondo luogo per avermi mantenuto finora nel pieno dominio delle risorse mentali e, largamente, anche di quelle fisiche».
Là dove invece non c’ è questo vigore fisico e/o mentale la preghiera si colorerà soprattutto di pazienza e di abbandono nelle mani di Dio, sull’ esempio di Gesù che muore dicendo: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46).
È così che i Salmi ci insegnano a pregare: «Tu salvi dai nemici chi si affida alla tua destra» (Sal 16,7); «Mi affido alle tue mani: tu mi riscatti, Signore, Dio fedele» (Sal 30,6); «Lo salverò, perché a me si è affidato» (Sal 90,14).
Chi ha raggiunto una certa età è anche nelle condizioni di volgere uno sguardo sintetico sulla propria vita, riconoscendo i doni di Dio, pur attraverso le inevitabili sofferenze.
Veniamo quindi invitati a una lettura sapienziale della nostra storia e di quella del mondo da noi conosciuto.
E beati coloro che riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio, non lasciandosi andare a giudizi negativi sui tempi vissuti o anche sul tempo presente in confronto con quelli passati!
La terza caratteristica della preghiera dell’ anziano dovrebbe essere un crescere della preghiera vocale (e quindi una diminuzione della preghiera mentale) insieme a un inizio di semplice contemplazione che esprime con mezzi molto poveri la propria dedizione al Signore.
Diminuisce la preghiera mentale per la minore capacità di concentrazione dell’anziano. Ma contemporaneamente bisogna aver cura di aumentare la preghiera vocale. Anche se un po’ assonnata o distratta, essa è comunque un mezzo per avvicinarci al Dio vivente.
Sarebbe ideale arrivare a contemplare molto semplicemente il Signore che ci guarda con amore, oppure pensare a Gesù che ha bisogno di noi per rendere piena la sua lode al Padre.
Ma qui sarà lo Spirito Santo che si farà nostro maestro interiore. A noi non resterà che seguirlo docilmente.
( © 2009 Arnoldo Mondadori Editore – CARLO MARIA MARTINI )

 
 

Cardinale Carlo Maria Martini: ci sono cose che vorrei dire alla Chiesa


Dall’articolo su “ Repubblica” di Zita Dazzi [ 05/06/2008) (http://www.repubblica.it/2008/05/sezioni/esteri/benedettoxvi-21/martini-vizi/martini-vizi.html) sottolineiamo alcuni passaggi del Card. C.M. Martini, affetto da M di Parkinson , dagli esercizi spirituali predicati a sacerdoti nella casa dei Gesuiti di Galloro.
E’ un impegno che vuole onorare a tutti i costi “Devo farlo perché sarà l’ultimo ritiro, fa parte delle scelte che fa una persona anziana e in dirittura d’arrivo, ci sono cose che devo dire alla Chiesa. “
Commentando alcuni brani della lettera di Paolo ai Romani [ Rm 12, 2: Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto. etc …], la dove si parla del peccato, con monito austero, lancia delle piste di riflessioni:
“Tutti questi peccati, nessuno escluso, sono stati commessi nella storia del mondo, ma non solo. Sono stati commessi anche nella storia della Chiesa. Da laici, ma anche da preti, da suore, da religiosi, da cardinali, da vescovi e anche da papi. Tutti “
L‘inganno che per me è anche fingere una religione che non c’è. Fare le cose come se si fosse perfettamente osservanti ma senza nessuna interiorità“.
L’invidia, vizio clericale per eccellenza, “Che cosa ho fatto io di male perché il tale fosse nominato vescovo e io no “.
La calunnia: “beate quelle diocesi dove non esistono lettere anonime. Quando io ero arcivescovo davo il mandato di distruggerle. Ma ci sono intere diocesi rovinate dalle lettere anonime, magari scritte da Roma.“
Il vanto di fare gruppo , “ di coloro che credono di fare molti proseliti, di portare gente perché così si conta di più. Questo difetto grave è molto presente anche nella Chiesa di oggi. Come il vizio della vanagloria, del vantarsi. Ci piace più l’applauso del fischio, l’accoglienza della resistenza. E potrei aggiungere che grande è la vanità nella Chiesa. Grande! Si mostra negli abiti. Un tempo i cardinali avevano sei metri di coda di seta. Ma continuamente la Chiesa si spoglia e si riveste di ornamenti inutili. Ha questa tendenza alla vanteria“.
“Anche nella Curia romana ciascuno vuole essere di più. Ne viene una certa inconscia censura nelle parole. Certe cose non si dicono perché si sa che bloccano la carriera. Questo è un male gravissimo della Chiesa, soprattutto in quella ordinata secondo gerarchie perché ci impedisce di dire la verità. Si cerca di dire ciò che piace ai superiori, si cerca di agire secondo quello che si immagina sia il loro desiderio, facendo così un grande disservizio al Papa stesso“.
“Purtroppo ci sono preti che si pongono punto di diventare vescovi e ci riescono. Ci sono vescovi che non parlano perché sanno che non saranno promossi a sede maggiore. Alcuni che non parlano per non bloccare la propria candidatura al cardinalato. Dobbiamo chiedere a Dio il dono della libertà. Siamo richiamati a essere trasparenti, a dire la verità. Ci vuole grande grazia. Ma chi ne esce è libero“.
 

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