Vangelo Domeniche e Festività
XVIII Domenica del T.O. – L'Eucaristia non è un evento sacrale scisso dalle dinamiche stesse con cui l'umanità cresce facendosi se stessa, è un sacramento, che ha rapporti e col futuro ultimo e con le condizioni presenti.
Questo pasto comunitario nato dal miracolo di Gesù è una profezia. Ed è una profezia eucaristica.
Come viene comunemente riconosciuto, nella sua stesura il racconto di Marco ha riflessi che ci richiamano all’Ultima Cena.
L’ultima Cena di Gesù non fu un fatto isolato, nato all’improvviso dalla Sua generosità amorosa, fu l’epilogo di una serie di segni – a cominciare dal primo, quello delle Nozze di Cana – nei quali il disegno del Padre circa il giorno ultimo, quello dell’avvento del Regno, si manifesta nella gioia conviviale e nello scambio fervido, amoroso con cui si può celebrare un convivio nel quale si soddisfa la fame fisica, ma più ancora si soddisfa il bisogno delle creature di vivere nello scambio di doni, nel gesto che offre e nel gesto che accoglie.
L’Eucaristia non è un evento sacrale scisso dalle dinamiche stesse con cui l’umanità cresce facendosi se stessa, è un sacramento, cioè un segno (celebrato secondo i modi che il Signore ha voluto), che ha rapporti e col futuro ultimo e con le condizioni presenti. Quindi le nostre Eucaristie sono anticipazioni del futuro di Dio.
Quando noi ci raccog1iamo per ascoltare, come fece la turba, e poi per cibarci, insieme, noi vogliamo anticipare nell’oggi il domani di Dio, quindi vogliamo ravvivare la nostra speranza, spezzare le stanche chiusure su noi stessi, i nostri individualismi, le nostre segregazioni individuali di classe, di popolo, in una specie di apertura, piena di respiro, sull’orizzonte di Dio.
La speranza apre le ali quando noi ascoltiamo e spezziamo il Pane Eucaristico.
E questa cena, su cui batte la luce del futuro ultimo di Dio, è anche un convivio i cui termini, i cui contenuti, i cui limiti, le cui ombre derivano dal presente, che non è affatto rassomigliante al futuro di Dio che abbiamo descritto, utilizzando le visioni profetiche.
Qui, noi siamo una umanità divisa, omicida, disuguale, rapinatrice (che senso ha celebrare questo rito?).
Può bastare quel dono di consolazione di cui ho parlato, quello stimolo alla speranza perché si apra verso il futuro con occhi sicuri, può bastare tutto questo per giustificare un banchetto che noi celebriamo nella illegittimità?
La risposta è semplice.
Noi viviamo questo conflitto in condizioni di peccato.
Il peccato consiste nella disparità clamorosa, tangibile tra ciò che facciamo in fraternità e ciò che siamo realmente nella nostra vita feriale.
All’interno del tessuto di questo mondo noi siamo portatori di divisione, noi utilizziamo i vantaggi della divisione.
Non possiamo dimenticarcelo. È proprio in questo divario che la potenza delle tenebre ha la sua vittoria.
Allora, celebrare questo convivio vuol dire anche prendere coscienza del nostro stato d’illegittimità in vista di un progetto di cambiamento che elimini questa contraddizione, che ci permetta di compiere il rito eucaristico in autentica pace e amore.
Ecco perché il banchetto eucaristico provoca nel nostro interno non solo la speranza che apre le ali per volare verso il futuro, ma la volontà morale di cambiare il mondo, di far sì che il mondo sia davvero un’assemblea nella quale chiunque possa mangiare e bere, chiunque possa liberamente cantare, chiunque possa liberamente esprimere se stesso in una concordia discorde in cui si rifletta, nel finito, l’infinito di Dio.
Questa coniugazione delicata, ma insieme vigorosa, tra le ragioni della speranza e le ragioni della lotta è il ,segreto del mistero che stiamo celebrando ed è qui che la vita cristiana ha le sue pulsazioni creative, fecondanti.
Ecco perché spesso la cornice del rito con le sue leggi rigorose, con la sua logica di reiterazioni immutabili spesso quasi ci fa soffrire.
Noi vorremmo dare a questa nostra certezza una collocazione più immediata e vitale dentro la realtà del mondo in cui siamo.
Gesù celebrò il Suo banchetto in un prato con la turba seduta sull’erba. Noi vorremmo poterlo celebrare nelle officine, nelle piazze, nelle famiglie, nelle carceri, dovunque l’uomo ama e soffre. Perché solo allora le ragioni del camminare, dell’andare avanti si dischiudono all’interno delle effettive aggregazioni umane, dove invece si moltiplicano le ragioni della disperazione e della chiusura su di sé.
Celebrare i nostri riti al lato dell’uomo, fuori degli spazi in cui si svolge normalmente la vita dell’uomo, è, certo (o, meglio, è, forse) una necessità, ma è un’amara necessità. Queste riflessioni hanno lo scopo esclusivo di dischiudere alla nostra coscienza il senso profondo, non certamente superato dal tempo, di ciò che stiamo facendo.
Anzi, è proprio in questo tempo in cui la ,speranza è moribonda, che l’Eucaristia è necessaria.
È in questo tempo, in cui lo spettacolo della disparità all’interno del genere umano è insopportabile, che noi abbiamo bisogno di ritrovare le ragioni della nostra lotta, dei nostri impegni, anche politici.
Quindi il nesso tra il gesto del Signore (che, in una concreta dimensione del tempo e dello spazio ha fatto vibrare, attraverso il miracolo, il cuore delle turbe di gioia, di speranza) e lo spettacolo ultimo che il profeta Isaia ci descrive, questo nesso è l’asse stesso dell’esperienza cristiana e insieme il fondamento incrollabile della ragion d’essere della Chiesa nel mondo.
Ernesto Balducci – da: “Il mandorlo e il fuoco” vol. 1
XVII Domenica del T.O. – La sequela di Gesù, che esige un pronto e radicale distacco, nasce dall’aver trovato un dono inaspettato: il regno dei cieli fattosi vicinissimo in Gesù stesso.
In ogni Eucaristia noi citiamo il Regno, per esempio recitando il Padre nostro: Padre nostro, venga il tuo Regno!
E al termine della preghiera eucaristica proclamiamo: “Tuo è il Regno, tua la potenza e la gloria nei secoli!”.
E questo Regno è il tema fondamentale della predicazione di Gesù fin dall’inizio. Da quando, cioè, Gesù, dopo che Giovanni fu arrestato, fu trasferito da Nazaret a Cafarnao.
Dicono i vangeli che Gesù cominciò allora a predicare e a dire: “Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino!” (Mt 4,17) .
Questa è il tema fondamentale della predicazione di Gesù.
In Mt 4,23 troviamo questa frase sintetica: “Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando la buona novella del Regno e curando ogni sorta di malattia e di infermità nel popolo”.
Notiamo anche la differenza tra i verbi: insegnando (didàschein); predicando, proclamando il Regno (Kerissèin) e curando i malati.
Le tre cose fanno come una unità.
Gesù, dunque, parla molto spesso del Regno di Dio, soprattutto nei sinottici; l’espressione non ricorre quasi mai in Giovanni; mentre nei sinottici è l’espressione corrente.
Tuttavia sappiamo anche che non è facile definire il Regno, perché Gesù non conchiude mai in una definizione teorica che cosa è il Regno. Si contenta di alludervi con paragoni e con parabole.
Il Regno è come un seme,
è simile ad una rete,
è simile ad una perla preziosa,
è simile a un tesoro nascosto in un campo…
Sono paragoni che descrivono alcuni aspetti del Regno, senza che mai se ne dia una definizione precisa e completa.
E qui c’è qualcosa di misterioso, tanto è vero che lo stesso Gesù in Mc 4,11, parla di “mistero del Regno”.
Non dice ai discepoli: “A voi è stato dato il Regno!”, ma “A voi è stato dato il mistero del Regno!”.
C’è quindi un mistero in questa parola “Regno”, almeno come è pronunciata agli inizi del ministero di Gesù, che lo rende necessariamente, da una parte affascinante e dall’altra un po’ enigmatico. E non poteva che essere enigmatico fino allo svelamento che avverrà appunto con la morte e la risurrezione di Gesù. …
… E allora il venire del Regno significa che Dio viene a mettere le cose a posto, viene a mettere ordine, a sconfiggere i nemici, a punire i peccatori, a instaurare di fatto quel potere sulla storia che era da sempre suo di diritto.
Ed era questa anche l’attesa degli ebrei devoti, che credevano e speravano in Dio, attesa che si trova in molti salmi e in molte altre pagine della Bibbia, …..
Ma noi sappiamo che le cose non sono così semplici.
Gesù nella sua rivelazione progressiva del Regno, non rivela come un semplice giudizio di condanna e di distruzione dei malvagi; anzi, a poco a poco, fa capire, in maniera anche un po’ enigmatica, che il regnare di Dio non significa che Dio voglia schiacciare i peccatori, ma che Dio intende piuttosto perdonarli e salvarli.
Questo è certamente un fatto nuovo e perciò Gesù comincia con il prendere su di sé il male del mondo: questa è la novità assoluta della rivelazione di Gesù.
…. Gesù si rivela sempre più chiaramente come colui che assume su di sé il peccato del mondo.
E questo diventa sempre più chiaro nel percorso di Gesù verso Gerusalemme, soprattutto come previsione della passione o con espressioni come quelle che troviamo in Marco 10,45: Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti.
Così egli chiarisce a poco a poco il senso di come egli intende l’esercizio della regalità di Dio: non schiacciare i nemici, ma dare la sua vita per il perdono dei nemici, per il riscatto di molti.
…. Gesù attua dunque il Regno, anzitutto nella prima parte della sua vita, sconfiggendo le malattie, le infermità, ma facendo intuire misteriosamente che egli vuole a un certo punto assumersele.
Le infermità e le malattie sono conseguenze e immagine del peccato; Gesù perdona i peccati, ma soprattutto offre in debolezza, in povertà, in infermità la sua vita per noi, nella morte in croce e risorge per darci la certezza del perdono di Dio.
Ecco dunque come il Regno si svela a poco a poco.
Per cui il Regno non è come una macchina già fatta che viene dall’alto e si instaura sulla terra; il Regno è qualcosa che si manifesta progressivamente nella vita di Gesù.
Possiamo dire: è Gesù il Regno che viene, è lui!
E in noi il Regno si attua qui attraverso un processo, un processo di rigenerazione che parte dal cuore dell’uomo, dall’interno dell’uomo, che ha inizio con la nascita – il Battesimo – che va verso la crescita, verso la pienezza della manifestazione definitiva di Gesù nella nostra umanità salvata.
Dunque, il Regno lo incontriamo anzitutto in Gesù che è il Regno per eccellenza.
Il regno si attua nella sua vita, morte e risurrezione.
Il Regno si attua in tutta la sua vita, dall’annunciazione all’ascensione, si attua nella sua morte, si attua nella sua risurrezione.
E poi il Regno si attua gradualmente in tutti noi, in tutti coloro che entrano negli atteggiamenti e nelle relazioni di Gesù, vivendo come lui ha vissuto, offrendo la propria vita come lui l’ha offerta. … (Il presente testo è tratto da una meditazione tenuta dal card. C.M.Martini ai preti del settore Sud di Roma, su invito di S.E.mons. Paolo Schiavon, nella Quaresima 2005, il 24 febbraio )
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Nelle prime due parabole di questa domenica sono due figure diverse in scena, un bracciante agricolo e un ricco gioielliere: sono loro ad agire, eppure non sono i protagonisti del racconto.
I veri protagonisti sono piuttosto il tesoro e la perla, che con la loro sola presenza causano le azioni dei due uomini.
Il contadino, che probabilmente non è ricco, trova un tesoro in un campo non suo; allora con molta sapienza «lo nasconde subito; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo».
Il gioielliere, che è in cerca di perle preziose, quando «ne trova una di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra».
Uno non è ricco, l’altro è molto ricco, ma entrambi – ed è questo che è decisivo – vendono tutto quello che possiedono per potersi impadronire del tesoro e della perla.
In loro non c’è nessun rimpianto, non fanno un sacrificio, bensì un affare!
Ciò che accade a queste due persone accade a tanti altri uomini e donne: il Regno è da essi intravisto, è trovato quando si manifesta all’improvviso oppure quando è cercato, e la scelta sapiente è quella di vendere tutto per entrarne in possesso.
Così hanno fatto i discepoli di Gesù: chiamati da lui, «abbandonato tutto lo seguirono» ,così non ha fatto il giovane ricco. …
La sequela di Gesù, che esige un pronto e radicale distacco, nasce dall’aver trovato un dono inaspettato: il regno dei cieli fattosi vicinissimo in Gesù stesso.
Chi segue lui non dice: «Ho lasciato», ma: «Ho trovato un tesoro»; e non umilia nessuno, non si sente migliore degli altri, ma è semplicemente nella gioia per aver trovato tale tesoro.
Davvero la misura dell’essere discepolo di Gesù non è il distacco dalle cose, bensì l’appartenenza a lui che è il tesoro vero, la perla preziosa: come dice Paolo, «a causa sua ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3,8). …
… Nella parabola della rete gettata nel mare … è fondamentale accogliere l’interpretazione fornita da Gesù: «Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni».
Ancora una volta egli ci ammonisce sul fatto che questa separazione avverrà solo nel giorno del giudizio, e spetterà a Dio e a nessun altro: se al presente «il Padre fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni» (Mt 5,45), poiché è paziente e misericordioso e non vuole che alcuno perisca ma piuttosto si converta (cf. 2Pt 3,9), chi siamo noi per ergerci a giudici degli altri?
Finché siamo in tempo dovremmo piuttosto pensare a convertirci per accogliere il Regno che viene, ricordando le parole di Agostino: «Nell’ultimo giorno molti che si ritenevano dentro si scopriranno fuori, mentre molti che pensavano di essere fuori saranno trovati dentro»…
A conclusione del suo lungo discorso quando dice: «ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che trae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche.. ci affida la grande responsabilità di interpretare il tesoro delle Sante Scritture alla luce del Regno vissuto e annunciato da lui: «in Cristo», infatti, «sono nascosti tutti i tesori della sapienza di Dio» (Col 2,3).(E. Bianchi )
XVI Domenica del T.O. – La sapienza di Dio si manifesta come pazienza che avvolge la storia.
Gesù continua a parlare attraverso parabole, ama parlare attraverso parabole, perché in questo modo non rinchiude il messaggio in formule, non deve ricorrere ad affermazioni apodittiche, non consegna verità munite di uno splendore che abbaglia chi le ascolta…
Le parabole sono frutto di un attento vedere da parte di Gesù, di un profondo pensare, di un puntuale discernimento, di un vero esercizio di intelligenza delle realtà più umili, semplici e quotidiane.
Solo una grande attenzione alle cose e ai fatti forniva a Gesù la sapienza delle parabole.
Per questo chi le ascolta giunge a discernere realtà che gli sono abitualmente nascoste, le quali causano in lui una semplice constatazione: ciò che Gesù dice è così umano, così terreno, eppure io non ci avevo mai pensato!
Ma se questa comprensione delle parabole da parte dell’ascoltatore è così facile, ascoltando Gesù è altrettanto facile, forse per la semplicità intrinseca alle parabole, lasciar cadere le sue parole e non tenerne conto.
Ne è un caso esemplare la parabola più lunga tra quelle contenute nel brano evangelico odierno, una parabola che conosciamo a memoria e che facilmente smentiamo con il nostro comportamento. …
Le tre parabole che ascoltiamo oggi … sono introdotte dall’espressione: «Il regno dei cieli si può paragonare a…», da intendersi come: «Avviene al regno dei cieli ciò che avviene a…».
Ovvero, Gesù crea immagini di vita, perché sa che il Regno è una realtà viva, un evento dinamico che si sviluppa grazie all’agire di Dio. …
Nella parabola della zizzania … il Signore, farà l’ azione di separazione; non prima e non noi, suoi servi!
…Di fronte alla dolorosa scoperta di questa compresenza di grano e zizzania la reazione sbagliata è quella di cedere alla tentazione dell’impazienza, pretendendo di operare noi il giudizio che spetta a Dio e al Figlio dell’uomo quando verrà nella sua gloria (cf. Mt 25,31-46)
Ci sono sempre nella chiesa coloro che si presumono giusti e, accecati dalle loro certezze, vorrebbero una comunità di puri: ma Dio solo conosce i veri giusti e nel giorno del giudizio, della mietitura (cf. Gl 4,13; Ap 14,15-16), li rivelerà e li accoglierà nel suo Regno!
Al presente la sua pazienza, il suo sentire in grande è per noi occasione di convertirci per accogliere la salvezza (cf. 2Pt 3,15)…
Nella parabola del granellino di senapa … l’attenzione cade sullo sviluppo straordinario del seme, sullo scarto tra la sua piccolezza iniziale e la sua grandezza finale.
Lo stesso accade per il Regno: nel nostro oggi appare una realtà piccola, ma alla fine dei tempi sarà manifestata la sua grandezza.
Il discepolo di Gesù Cristo deve guardare al contrasto tra l’oggi e il futuro, ma deve anche capire che il futuro dipende proprio dalla piccolezza dell’oggi.
Il suo Maestro gli ha infatti rivelato che i criteri della grandezza e dell’apparire non devono essere applicati al regno dei cieli: la forza del Regno non va confusa con il fascino della grandezza, declinabile volta per volta come numero, prestigio, potere…
Per ribadire questa realtà Gesù si serve di un’altra similitudine:
una donna mette poco lievito in una grande quantità di farina; anzi, il testo dice che la donna «nasconde» il lievito, per sottolineare che la presenza del Regno è velata, non si impone.
Eppure l’insospettata forza del lievito fa fermentare tutta la pasta. L’attenzione si concentra qui sulla potenza del lievito: piccola cosa, ma capace di causare una grande trasformazione.
È proprio così: la vita di Gesù era piccola cosa, pressoché sconosciuta agli storici del tempo; ma in lui, l’uomo su cui Dio ha regnato totalmente, era celata la potenza del Regno, offerto a tutti gli uomini…
Siamo dunque chiamati alla pazienza, alla piccolezza, al nascondimento: nel vivere con libertà e intelligenza queste realtà sta la nostra possibilità di accogliere il Regno annunciato da Gesù, cioè di fare obbedienza a lui, chicco di grano caduto a terra e morto per portare molto frutto. Questa dinamica di morte e resurrezione è già primizia del Regno, se sappiamo assumerla nella nostra vita e testimoniarla nella compagnia degli uomini. (E.Bianchi)
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…La pazienza di Dio si libra sulla storia degli uomini connettendo al suo disegno (che noi non conosciamo ma che è disegno di amore) anche quei momenti negativi che per me rimangono irrimediabilmente tali.
Questo scandalo io non lo posso non vivere con tutta la mia umanità.
La fede spesso crea una specie di contatto soffice con la realtà, allo scopo di eluderla, circoscriverla, senza mai entrarci dentro.
La fede che è secondo lo Spirito ci butta invece dentro la realtà, ma non perché poi ne usciamo come ragionieri sapienti a render conto agli indotti che cosa Dio ha voluto.
La sapienza di Dio si manifesta come pazienza che avvolge la storia.
Questa pazienza di Dio, diventa, nell’uomo di fede, mitezza, la grande mitezza di cui il Signore ci ha dato testimonianza.
Se io non so quale sia l’esito di una creatura ma so che Dio lo sa, allora io rimetto a Lui la presunzione del giudicare.
Il mio giudizio non potrà essere che mite, perché, al di là di tutte le cose, so che la pazienza di Dio è una sola cosa con il suo amore.
E può anche essere che nella gloria eterna io mi trovi di fronte al mio peggiore nemico pacificato con Lui.
Il Dio che amo non è il Dio che fa giustizia secondo le mie pretese.
La sua giustizia sorpassa il diritto e il torto e avvolge tutto in una conciliazione che ci porta oltre i nostri limiti di creature.
Chi crede così non ha una bandiera per cui combattere, perché a livello della storia il luogo in cui Dio mi attende e mi interpella è l’uomo vivente.
Il mio vero modo di onorare Dio è di combattere per l’uomo e di essere mite con l’uomo.
Questa mitezza non è dunque ignavia né inerzia interiore, poiché è una mitezza dialettica, drammatica, che rinasce costantemente.
Che mi importa sapere se uno è ateo o non è ateo?
Chi sono io, io che, se ho fede davvero, so che quando parlo di Dio non so quel che dico?
Potrò davvero ridurre il mio confronto con i non credenti ai livelli delle dottrine scritte sui libri, nelle enunciazioni concettuali?
La negazione violenta dell’ateismo è molto consustanziale alla fede.
Un certo ateismo che nasce in nome dell’uomo, è un contributo alla fede, perché una fede che sì sviluppa contro l’uomo è sicuramente l’opposto della fede.
Come possiamo noi allora usurpare la potenza di Dio per metterla al servizio delle «legioni cristiane»?
Se dovessimo davvero, per un momento, tentar di distinguere chi è zizzania o no, nel campo del mondo, non sapremmo che dire.
Forse là dove si alzano i labari cristiani c’è molta zizzania e là dove si alzano i labari dell’ateismo c’è molto grano buono.
Chi potrà decidere?
E chi vorrà allora chiamarci a combattere?
Contro chi?
Ecco quali sono gli interrogativi che nascono dopo che la fede si è reimmersa nelle proprie origini, dove sono le sue vere misure. (Ernesto Balducci da “Il mandorlo e il fuoco” voi 1-anno A )
XV Domenica del T.O. – Per narrare la parabola del seminatore Gesù ha misurato la grande fatica necessaria per seminare la parola e il piccolo risultato ottenuto ….
Nel capitolo 13 del vangelo secondo Matteo leggiamo il terzo grande discorso tenuto da Gesù durante il suo ministero.
Dopo il discorso della montagna (cf. Mt 5-7) e quello rivolto ai discepoli nell’inviarli in missione (cf. Mt 10), siamo di fronte a un discorso costituito da parabole: “Egli parlò alla folla di molte cose con parabole”.
Alla folla Gesù le racconta, ai discepoli poi, in casa, le spiega.
Cosa ha vissuto Gesù per narrare la parabola del seminatore, quella che ci è proposta dal brano evangelico odierno?
Ha vissuto una serie di fallimenti, ha misurato la grande fatica necessaria per seminare la Parola e il piccolo risultato ottenuto, ha constatato che i tentativi rinnovati e a caro prezzo possono essere letti come una serie di scacchi, di insuccessi: tanto seme – che sembra sprecato! –, tanta fatica per gettarlo, tanta attesa, ma poi il risultato è scarsissimo.
E nonostante questo, il seme caduto nella terra buona dà un raccolto… Ecco cosa occorre vedere, constatare, per riaccendere la fede nel seme e la speranza della mietitura. Ci sono mille ragioni che imporrebbero di lasciar perdere, di concludere che non ne valeva la pena; ma, nonostante tutto, è possibile vedere il grano che cresce in un angolo di terreno e che dà un raccolto piccolo ma significativo. Pronunciata la parabola, Gesù avverte: “Chi ha orecchi, ascolti”, cioè: “State attenti, perché c’è da capire più di quanto si pensi”. E subito i discepoli interrogano Gesù, chiedendogli conto del suo parlare in parabole: “Perché parli alla folla in parabole?”.
La risposta è semplice. Di fronte alle parole di Gesù, sempre si delineano due campi: quello in cui i discepoli vogliono comprendere e seguono Gesù, fino a fare parte della sua comunità, assumendo un modo di vedere che è proprio di quelli che si collocano “dentro”; vi è poi l’altro campo in cui stanno “quelli di fuori” (Mc 4,11), quelli che, non sentendosi implicati dalle parole di Gesù, in esse sentono solo enigmi, non sono in grado di capirle, e così stanno fuori dalla comunione con lui. Gesù soffre di fronte a questo risultato, ma rispetta la libertà dei suoi ascoltatori, non li forza in nulla: propone, non impone! È così facile cadere in questo intontimento di fronte a Gesù: basta lasciar cadere qualche sua parola, non prestarvi attenzione, non guardare, non ascoltare, non comprendere.
Così a poco a poco l’orecchio del cuore che è in noi si fa calloso, insensibile, con il risultato che la parola di Gesù non ci penetra più, non ci ferisce più. È l’enigma dell’accecamento già intravisto dal profeta Isaia (cf. Is 6,9-10), della durezza di cuore così frequente tra noi credenti, che più ascoltiamo senza volere comprendere, più induriamo il cuore! Eppure molti profeti e molti giusti sono stati arsi dal desiderio di vedere ciò che gli ascoltatori di Gesù vedevano e hanno atteso con tutte le loro forze di poter ascoltare il messaggio che i contemporanei di Gesù ascoltavano…
I discepoli però conoscono questa grande grazia: vedono un uomo, Gesù, e nella sua reale e vera umanità vedono il Profeta, il Messia, il Figlio di Dio. Vedere nella fede che nell’umanità di un uomo ci sono le tracce di Dio: questo è il dono più grande riservato a ciascuno di noi, a ogni discepolo di Gesù Cristo. La parte finale del testo, quella che contiene la spiegazione delle parabole, suscita in noi domande semplici ma decisive, corrispondenti ai quattro tipi di terreno evocati. Perché la parola del Regno può essere ascoltata senza che ci sentiamo da essa interessati e coinvolti?
Siamo noi “uomini di un istante”, “senza radici”, e perciò in balia di ogni vento, di ogni minaccia? Che cosa ci interessa davvero nel nostro quotidiano; e, soprattutto, la ricchezza ci seduce fino a trascinarci dietro a essa, idolo muto ma così allettante? Infine, c’è anche la possibilità di essere terra buona, capace di recepire un seme e di fornirgli tutte le condizioni perché germogli e fruttifichi: siamo terra su cui lo Spirito santo può covare (cf. Gen 1,2) e dunque generare la vita in abbondanza? ( E. Bianchi )