Vangelo Domeniche e Festività
XIV Domenica del T.O. – La via evangelica è quella della partecipazione alla sofferenza degli umili.
…Per poter entrare nella conoscenza del mistero di Dio vale più una reale, pratica partecipazione alla tribolazione degli esclusi che non anni di studio teologico.
Se voi passate un’ora sola ad addossarvi la disperazione di un disperato, voi siete già entrati nel mistero di Dio la cui conoscenza non è di tipo concettuale, ma vitale.
Se io riesco a sopportare una situazione penosa, ad essere non già uno che fa le opere buone per sentirsi buono ma uno che cerca di capire le ragioni di una sofferenza, di una disperazione, allora io entro nel mistero del Regno di Dio e intanto comincio a capire che questo mondo è un mondo intollerabile.
I veri preamboli della fede non sono di tipo intellettuale, come insegnavano a me. I preamboli erano questi: che Dio esiste, che l’uomo è libero (c’è il libero arbitrio) e che l’anima è immortale. Partendo da essi si arriva a dimostrare che Cristo è Dio.
È una via intellettualistica maliziosa, perché evidentemente ci sono uomini semplici che non possono sapere che cos’è l’induzione e la deduzione.
Chi possiede questi strumenti logici si accaparra perfino la conoscenza di Dio.
Non è questa la via evangelica.
La via evangelica è quella della partecipazione alla sofferenza degli umili.
Il passare del tempo con la gente tribolata è conoscenza di Dio.
Capire che in questo mondo le persone più delicate, più pure, sono le più perseguitate, le più reiette, e i mascalzoni hanno successo, è un primo passo, il primo preambolo per conoscere Dio.
Se noi ci mettiamo di fronte a Dio con tutte le riserve che vengono dalla cultura filosofica restiamo dentro uno schema intellettuale che non ci consente di entrare nel mistero di Dio.
Anche le ricerche razionali hanno valore, purché non siano legate alla pregiudiziale intellettualistica che squalifica il rapporto con l’uomo.
Vale più amare sul serio i tribolati e gli oppressi che non studiare.
Un oppresso o anche semplicemente un sofferente ha qualcosa da insegnarci: anche se è un ateo può parlare del Regno di Dio senza che se ne accorga.
Mi premeva illustrare questa prassi della conoscenza di Dio soprattutto a chi si dibatte con più sofferenza dentro la crisi del dubbio.
La crisi del dubbio potrebbe essere un dono del Signore: potrebbe essere il passaggio da un certo modo – intellettualistico, nozionistico, astratto e, tutto sommato, complice dei poteri di questo mondo – a un nuovo modo di essere cristiani.
Perfino l’ateismo potrebbe essere una notte oscura attraverso cui si passa per una diversa conoscenza di Dio.
L’altra linea critica contro il «dominio della carne» riguarda coloro che mettono il giogo delle legge sulle spalle altrui fino a schiacciarli e si credono onesti.
Il Signore ha sempre esaltato gli umili anche se peccatori e contro i tutori dell’ordine morale ha detto parole dure: le prostitute, i pubblicani li giudicheranno nel Regno di Dio.
E così Egli toglieva di mano ai responsabili dell’ordine morale gli strumenti della loro egemonia.
Stiamo attenti a non reintrodurre nella nostra coscienza dei criteri di giudizio che non vengono dal Vangelo ma dalla morale delle classi dominanti.
Dobbiamo rimettere nel crogiuolo di una fede maturata sul Vangelo tutte le ricchezze della morale che abbiamo appreso, non per cadere nel lassismo morale ma per reimparare la perfetta identità tra norma morale e amore.
Anche qui, la via della rigenerazione passa attraverso la partecipazione alla vita di coloro che portano i pesi del giogo della legge.
Se in un ambiente per bene si parla delle prostitute, si fa presto a contare su un ribrezzo immediato.
Ma se poi parlate con una prostituta cominciate a dubitare dell’onestà delle donne per bene.
Se voi parlate della virtù fra gente virtuosa, avrete del vizio – che non vi riguarda, riguarda gli altri – una rappresentazione repellente. Ma se per caso andate fra le così dette persone viziose e ascoltate la loro storia, allora entrerà in voi una confusione, uno smarrimento, certo pericoloso, ma capace di introdurvi nella convinzione che quel che conta è davvero l’amore”. (Ernesto Balducci da “Il mandorlo e il fuoco” vol 1 – anno A)
SS. Pietro e Paolo Apostoli. – Il nostro vero rifugio è la fiducia in Dio.
….«Il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode» (At 12,11) .
Agli inizi del servizio di Pietro nella comunità cristiana di Gerusalemme, c’era ancora grande timore a causa delle persecuzioni di Erode contro alcuni membri della Chiesa.
C’era stata l’uccisione di Giacomo, e ora la prigionia dello stesso Pietro per far piacere al popolo.
Mentre egli era tenuto in carcere e incatenato, sente la voce dell’Angelo che gli dice: «Alzati in fretta! … Mettiti la cintura e legati i sandali … Metti il mantello e seguimi!» (At 12,7-8).
Le catene cadono e la porta della prigione si apre da sola. Pietro si accorge che il Signore lo «ha strappato dalla mano di Erode»; si rende conto che Dio lo ha liberato dalla paura e dalle catene.
Sì, il Signore ci libera da ogni paura e da ogni catena, affinché possiamo essere veramente liberi.
L’odierna celebrazione liturgica esprime bene questa realtà, con le parole del ritornello al Salmo responsoriale: «Il Signore mi ha liberato da ogni paura».
Ecco il problema, per noi, della paura e dei rifugi pastorali.
Noi – mi domando –, cari fratelli Vescovi, abbiamo paura?
Di che cosa abbiamo paura?
E se ne abbiamo, quali rifugi cerchiamo, nella nostra vita pastorale, per essere al sicuro?
Cerchiamo forse l’appoggio di quelli che hanno potere in questo mondo?
O ci lasciamo ingannare dall’orgoglio che cerca gratificazioni e riconoscimenti, e lì ci sembra di stare sicuri?
Cari fratelli vescovi, dove poniamo la nostra sicurezza?
La testimonianza dell’Apostolo Pietro ci ricorda che il nostro vero rifugio è la fiducia in Dio: essa allontana ogni paura e ci rende liberi da ogni schiavitù e da ogni tentazione mondana. Oggi, il Vescovo di Roma e gli altri Vescovi, specialmente i Metropoliti che hanno ricevuto il Pallio, ci sentiamo interpellati dall’esempio di san Pietro a verificare la nostra fiducia nel Signore.
Pietro ritrovò la fiducia quando Gesù per tre volte gli disse: «Pasci le mie pecore» (Gv 21,15.16.17). E nello stesso tempo lui, Simone, confessò per tre volte il suo amore per Gesù, riparando così al triplice rinnegamento avvenuto durante la passione. Pietro sente ancora bruciare dentro di sé la ferita di quella delusione data al suo Signore nella notte del tradimento.
Ora che Lui gli chiede: «Mi vuoi bene?», Pietro non si affida a sé stesso e alle proprie forze, ma a Gesù e alla sua misericordia: «Signore tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene» (Gv 21,17) . E qui sparisce la paura, l’insicurezza, la pusillanimità.
Pietro ha sperimentato che la fedeltà di Dio è più grande delle nostre infedeltà e più forte dei nostri rinnegamenti. Si rende conto che la fedeltà del Signore allontana le nostre paure e supera ogni umana immaginazione.
Anche a noi, oggi, Gesù rivolge la domanda: «Mi ami tu?». Lo fa proprio perché conosce le nostre paure e le nostre fatiche.
Pietro ci mostra la strada: fidarsi di Lui, che “conosce tutto” di noi, confidando non sulla nostra capacità di essergli fedeli, quanto sulla sua incrollabile fedeltà. Gesù non ci abbandona mai, perché non può rinnegare se stesso (cfr 2 Tm 2,13).
E’ fedele.
La fedeltà che Dio incessantemente conferma anche a noi Pastori, al di là dei nostri meriti, è la fonte della nostra fiducia e della nostra pace.
La fedeltà del Signore nei nostri confronti tiene sempre acceso in noi il desiderio di servirlo e di servire i fratelli nella carità.
L’amore di Gesù deve bastare a Pietro. Egli non deve cedere alla tentazione della curiosità, dell’invidia, come quando, vedendo Giovanni lì vicino, chiede a Gesù: «Signore, che cosa sarà di lui?» (Gv 21,21) .
Ma Gesù, di fronte a queste tentazioni, risponde: «A te che importa? Tu seguimi» (Gv 21,22) .
Questa esperienza di Pietro costituisce un messaggio importante anche per noi, cari fratelli Arcivescovi. Il Signore oggi ripete a me, a voi, e a tutti i Pastori: Seguimi!
Non perdere tempo in domande o in chiacchiere inutili; non soffermarti sulle cose secondarie, ma guarda all’essenziale e seguimi. Seguimi nonostante le difficoltà.
Seguimi nella predicazione del Vangelo.
Seguimi nella testimonianza di una vita corrispondente al dono di grazia del Battesimo e dell’Ordinazione.
Seguimi nel parlare di me a coloro con i quali vivi, giorno dopo giorno, nella fatica del lavoro, del dialogo e dell’amicizia.
Seguimi nell’annuncio del Vangelo a tutti, specialmente agli ultimi, perché a nessuno manchi la Parola di vita, che libera da ogni paura e dona la fiducia nella fedeltà di Dio.
Tu seguimi! ( Papa Francesco )
SS. Corpo e Sangue di Gesù. – il Corpo di Cristo è il pane degli ultimi tempi, capace di dare vita, e vita eterna, perché la sostanza di questo pane è Amore.
…L’eucaristia non è un rito magico, è il segno che postula, esige, richiama una realtà concreta che siamo noi, che è la nostra storia. Se viviamo con questa partecipazione, non possiamo certo sentirci esenti dal pericolo – e i pericoli sono tanti.
Quelli che sono qui vagamente accennati dalle pagine del Deuteronomio sono innanzi tutto la nostalgia di altri tempi: questo popolo di dura cervice resiste alla pedagogia di Dio, che usava strumenti forti e violenti – le prove, i cataclismi, la fame, la siccità – per mettere a prova il suo cuore.
Noi rischiamo di rimpiangere, come quel popolo, tempi di tranquillità che, ora li vediamo bene, erano tempi di ingiustizia, di iniquità. (Ernesto Balducci – da “Il Vangelo della pace” – vol. I – Anno A )
«Il Signore, tuo Dio, … ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi» (Dt 8,2).
Queste parole di Mosè fanno riferimento alla storia d’Israele, che Dio ha fatto uscire dall’Egitto, dalla condizione di schiavitù, e per quarant’anni ha guidato nel deserto verso la terra promessa. Una volta stabilito nella terra, il popolo eletto raggiunge una certa autonomia, un certo benessere, e corre il rischio di dimenticare le tristi vicende del passato, superate grazie all’intervento di Dio e alla sua infinita bontà.
Allora le Scritture esortano a ricordare, a fare memoria di tutto il cammino fatto nel deserto, nel tempo della carestia e dello sconforto.
L’invito di Mosè è quello di ritornare all’essenziale, all’esperienza della totale dipendenza da Dio, quando la sopravvivenza era affidata alla sua mano, perché l’uomo comprendesse che «non vive soltanto di pane, ma … di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,3).
Oltre alla fame fisica l’uomo porta in sé un’altra fame, una fame che non può essere saziata con il cibo ordinario. E’ fame di vita, fame di amore, fame di eternità.
E il segno della manna – come tutta l’esperienza dell’esodo – conteneva in sé anche questa dimensione: era figura di un cibo che soddisfa questa fame profonda che c’è nell’uomo.
Gesù ci dona questo cibo, anzi, è Lui stesso il pane vivo che dà la vita al mondo (cfr Gv 6,51).
Il suo Corpo è il vero cibo sotto la specie del pane; il suo Sangue è la vera bevanda sotto la specie del vino.
Non è un semplice alimento con cui saziare i nostri corpi, come la manna; il Corpo di Cristo è il pane degli ultimi tempi, capace di dare vita, e vita eterna, perché la sostanza di questo pane è Amore.
Nell’Eucaristia si comunica l’amore del Signore per noi: un amore così grande che ci nutre con Sé stesso; un amore gratuito, sempre a disposizione di ogni persona affamata e bisognosa di rigenerare le proprie forze. Vivere l’esperienza della fede significa lasciarsi nutrire dal Signore e costruire la propria esistenza non sui beni materiali, ma sulla realtà che non perisce: i doni di Dio, la sua Parola e il suo Corpo.
Se ci guardiamo attorno, ci accorgiamo che ci sono tante offerte di cibo che non vengono dal Signore e che apparentemente soddisfano di più.
Alcuni si nutrono con il denaro, altri con il successo e la vanità, altri con il potere e l’orgoglio.
Ma il cibo che ci nutre veramente e che ci sazia è soltanto quello che ci dà il Signore!
Il cibo che ci offre il Signore è diverso dagli altri, e forse non ci sembra così gustoso come certe vivande che ci offre il mondo.
Allora sogniamo altri pasti, come gli ebrei nel deserto, i quali rimpiangevano la carne e le cipolle che mangiavano in Egitto, ma dimenticavano che quei pasti li mangiavano alla tavola della schiavitù. Essi, in quei momenti di tentazione, avevano memoria, ma una memoria malata, una memoria selettiva.
Ognuno di noi, oggi, può domandarsi: e io?
Dove voglio mangiare?
A quale tavola voglio nutrirmi?
Alla tavola del Signore?
O sogno di mangiare cibi gustosi, ma nella schiavitù?
Qual è la mia memoria?
Quella del Signore che mi salva, o quella dell’aglio e delle cipolle della schiavitù?
Con quale memoria io sazio la mia anima?
Il Padre ci dice: «Ti ho nutrito di manna che tu non conoscevi».
Recuperiamo la memoria e impariamo a riconoscere il pane falso che illude e corrompe, perché frutto dell’egoismo, dell’autosufficienza e del peccato.
Tra poco, nella processione, noi seguiremo Gesù realmente presente nell’Eucaristia.
L’Ostia è la nostra manna, mediante la quale il Signore ci dona se stesso.
A Lui ci rivolgiamo con fiducia: Gesù, difendici dalle tentazioni del cibo mondano che ci rende schiavi; purifica la nostra memoria, affinché non resti prigioniera nella selettività egoista e mondana, ma sia memoria viva della tua presenza lungo la storia del tuo popolo, memoria che si fa “memoriale” del tuo gesto di amore redentivo. Amen. ( Papa Francesco – Omelia la Celebrazione Eucaristica del SS . Corpo e sangue di Gesù )
[ Dal Vangelo ] ascoltiamo innanzitutto una dichiarazione di Gesù:
“Io sono il pane vivo, disceso dal cielo”.
Gli ascoltatori sono rimandati da Gesù non a qualcuno o a qualcosa con carattere di grandezza, forza, sapienza, ma all’umile realtà del pane che ognuno mangia quotidianamente per sostentarsi e che molti devono cercare, a volte addirittura mendicare nella loro povertà.
Il pane, questo cibo umile e semplice, ma che è il simbolo della vita, del cibo “necessario” per vivere: Gesù va proprio a questa realtà necessaria all’uomo, ma semplice e umile, per rivelare qualcosa di sé. Gesù dice che lui stesso è pane, un pane per la vita, un pane che non viene dagli uomini, che gli uomini non possono darsi, ma viene dal cielo, da Dio.
Sono parole che dobbiamo contemplare, non spiegare, perché non riusciamo ad accoglierle in pienezza.
Se noi vogliamo vivere della vita vera, non solo della nostra vita biologica che va verso la morte, dobbiamo mangiare il pane che Gesù ci offre, se stesso.
Tutta la sua vita, tutta la sua azione, tutte le sue parole, dalla nascita a Betlemme fino alla morte di croce, tutto è innestato nella vita del Figlio da sempre e per sempre nel seno del Padre, e perciò è vita eterna che viene offerta a noi, se siamo in ricerca, affamati di questa vita.
Attenzione: questa vita non è solo vita divina, in vista di una divinizzazione, ma è anche la vita umana di Gesù, la vita da lui vissuta nella carne fragile e mortale che aveva assunto nascendo dalla vergine Maria. Quella vita umana vissuta per amore di noi uomini in questo mondo, vita di un uomo che l’ha spesa, consumata fino alla morte di croce, è per noi cibo di vita per sempre.
Anche noi, come quegli ascoltatori giudei, siamo perlomeno turbati di fronte a una tale affermazione: come è possibile che un uomo ci dia la sua carne come cibo? Questa è una follia!
Eppure Gesù non ha paura di scandalizzare con un’affermazione così forte; anzi, commentandola la rende ancor più scandalosa: “Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita”.
Linguaggio duro, ma con il quale cerca di rivelarci che mangiare il pane eucaristico e bere al calice della benedizione è ricevere la realtà misteriosa (cioè nel mistero, nel sacramento) di Cristo, umanità trasfigurata nella resurrezione e vita divina del Figlio nel seno del Padre. Così nell’eucaristia la vita di Cristo diventa nostra vita e noi diventiamo corpo di Cristo, sue membra viventi, per lo stesso soffio che è lo Spirito santo. Questo è il “pane” che non si corrompe e che ci fa vivere per la vita eterna.
Non dobbiamo però dimenticarlo: tutto questo lo viviamo sacramentalmente, avendo davanti a noi pane spezzato e vino da bere. Ma il nostro occhio, se è abilitato dallo Spirito santo, discerne in quel pane e in quel vino il corpo e il sangue di Cristo. Noi ce ne cibiamo ed essi, entrati in noi, nel metabolismo eucaristico ci fanno diventare corpo del Signore. Questo è il grande mistero che noi innanzitutto adoriamo:
“la Parola si è fatta carne” (Gv 1,14) in Gesù;
la carne di Gesù si è fatta pane (cf. Gv 6,51);
il pane ci dà la vita eterna (cf. Gv 6,58).
( E. Bianchi )
Santa Trinità: l’unità divina non può essere quella solitaria dell’autocrate, ma l’unità della comunione, nella quale la distinzione arricchisce, non indebolisce l’unità.
Il “mistero della Santissima Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo” sembra all’uomo occidentale una sorta di algebra divina: come l’uno può essere tre e il tre uno?
Tuttavia, dovrebbe interrogarci il fatto che proprio questa dottrina, e non il velo delle donne, ci divide dall’Islam.
Il deismo al quale siamo abituati, un Dio unico, giudice sovrano, legislatore, “grande orologiaio del mondo”, è debole non solo di fronte al monoteismo radicale del Corano, ma anche alle domande angosciose dell’uomo contemporaneo, all’uomo che vive dopo Auschwitz. ….
Per Gesù, Dio è amore, e l’amore, ci ricorderà S.Agostino, è per natura sua trinitario: in esso c’è l’Amante, l’Amato e l’Amore.
E l’unità divina non può essere quella solitaria dell’autocrate, ma l’unità della comunione, nella quale la distinzione arricchisce, non indebolisce l’unità. …
L’amore è di natura sua inclusivo: Dio vuole dunque che l’uomo partecipi alla Sua vita, vuole essere il Tu presente in ogni storia umana. Ma questa “eudokìa”, “buona volontà”divina non può non prendere, nel mondo segnato dal male e dalla morte, la forma della Croce: la croce di Gesù è l’atto supremo della comunione, ….
Senza comunione non c’è gioia: ma la comunione non può essere selettiva. Se la mia sicurezza, il mio benessere dipendono dall’esclusione dell’altro uomo, non avrò né gioia né sicurezza. Forse anche oggi la fede nella Trinità può avere conseguenze politiche. (Don Giuseppe Dossetti )
Dio non è un Dio pessimista, un Dio nauseato dall’umanità, ma un Dio innamorato dell’umanità.
Ed è talmente innamorato, ha talmente amato il mondo, “da dare il proprio figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. .. Chiunque vive mettendo nella sua vita un amore simile a quello che Dio ha per noi, cioè un amore totale, incondizionato e illimitato, ha già una vita di una qualità tale che si chiama eterna, non tanto per la durata, ma proprio per la qualità, che è indistruttibile: la morte non la potrà neanche scalfire. Dio non ha mandato il figlio per giudicare, ma perché “il mondo sia salvato per mezzo di lui”. …. L’idea di un giudizio è estranea al vangelo di Giovanni.
Chi crede non va incontro a nessun giudizio, ma è già nella pienezza della vita. Al contrario, chi non crede è già stato giudicato, “perché non ha creduto nel nome dell’unigenito”. E’ l’uomo che si giudica da solo, rifiutando questa pienezza di vita, questo amore. Il rifiuto della pienezza di vita, che è Gesù, comporta la pienezza della morte. Quanti, pur vedendo brillare la luce del Signore se ne ritraggono, rimangono sotto l’ambito della morte. Quanti, invece, vengono attratti da questo cono di luce, entrano nella pienezza di vita. (A. Maggi )
Ogni vero credente è un credente in crisi per il divario obiettivo tra la realtà della Parola di Dio e le forme in cui essa storicamente si è espressa, e con cui l’abbiamo assimilata. Questo divario è il divario oscuro della nube di Dio.
Ma dovremmo amarla – se posso dire così, paradossalmente – questa oscurità.
Essa non è un segno, necessariamente, del venir meno dalla fede: è un segno dell’appello di Dio ad avere una fede più radicale, più misurata sulla sua volontà e quindi più aperta a considerare la sua presenza nella storia al di fuori dei miti, delle leggi e delle consuetudini.
Chi ha questa fede è pronto a riconoscere i segni del tempo e non ha più la paura storica; scende dal Sinai irradiato di potenza, come Mosè; scende dalla contemplazione del mistero di Dio senza più temere nessuno, perché si ripeterà: «Non avrai altro Dio fuori di me”.
Non dipenderà più da nessuno, perché l’unica dipendenza che non ci fa schiavi ma ci costituisce signori del mondo, è la dipendenza dalla Parola che ci è stata data.
Questa Parola la riconosciamo nelle parole di Gesù Cristo.
Senza questa Parola anche le parole di Gesù Cristo sono parole umane, interne alla cultura umana, non hanno niente di speciale se non fosse una certa eminenza per bellezza e per ricchezza morale.
È la Parola che dà ricchezza alle parole. E questa Parola con cui Dio proclama i suo Nome (modo semitico per dire: rivela se stesso, la sua peculiarità), l’ascolta l’uomo di fede.
L’uomo di fede ha ascoltato la parola.
E non chiedetegli conto di che parola sia, perché egli non la può tradurre adeguatamente nelle parole; potrà anche dire che Dio è Uno in tre Persone; potrà spiegare il concetto di natura e il concetto di persona, ma a mezza strada si stancherà perché sentirà che queste parole l’imbrogliano, sono una cattura dell’intelligenza, rischiano di giocare con l’intelligenza debole per stupirla, ma non dello stupore del mistero, piuttosto dello stupore delle complicazioni intellettuali, che è alienante, avvilente, che rende infantili.
Ma la Parola che ha ascoltato il credente, la porta con sé, forte come la punta di un diamante che non si scalfisce, non si corrompe.
Questo bisogno di ritrovare il mistero del Signore oggi è potentissimo. Forse siamo vicini a un tempo – sono molti i segni che lo fanno pensare – in cui le nostre complicazioni, anche di cristiani progressisti, aperti, saranno bruciate da una richiesta di fede prorompente.
E allora non saranno più le nostre parole, le nostre tattiche a dare la risposta, ma semplicemente e soltanto la presenza in noi della fede nel Dio di Gesù Cristo, nel Dio dello Spirito Santo. Questo è il tempo che stiamo vivendo. ( Ernesto Balducci – da: “Il mandorlo e il fuoco” – vol 1 – Anno A )
Ma soffermiamoci sul brano evangelico.
Siamo nel contesto del colloquio notturno tra Gesù e Nicodemo (cf. Gv 3,1-21), un “maestro di Israele” (Gv 3,10) che rappresenta la sapienza giudaica in dialogo con Gesù. È questo un dialogo faticoso per Nicodemo, che ha fede in Gesù ma fatica ad accogliere la novità della rivelazione portata da questo rabbi “venuto da Dio”. Gesù risponde alle domande del suo interlocutore, ma l’ultima risposta, quella più lunga, sembra contenuta all’interno di una meditazione dell’autore del quarto vangelo. Dunque, nei versetti che oggi la chiesa ci offre è Gesù a parlare oppure si tratta di una meditazione dell’evangelista? In ogni caso sono parole di Gesù non certo riportate tali e quali, ma meditate, comprese e ridette nel tessuto di una comunità cristiana che ha cercato di crederle e di viverle. Così si apre il brano: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui … abbia la vita eterna”.
Subito prima sta scritto: “Bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14-15). Queste due affermazioni sono parallele e si spiegano a vicenda. Affinché ogni uomo possa credere, aderire al Figlio dell’uomo e mettere la propria fiducia in lui, occorre che conosca l’amore di Dio per ogni uomo, per tutta l’umanità, per questo mondo. Tale amore di Dio si è manifestato in un atto preciso, databile, localizzabile nella storia e sulla terra: il 7 aprile dell’anno 30 della nostra era un uomo, Gesù di Nazaret, nato da Maria ma Figlio di Dio, è stato innalzato sulla croce, dove è morto “avendo amato fino alla fine” (cf. Gv 13,1), e in quell’evento tutti hanno potuto vedere che Dio ha talmente amato il mondo da consegnargli il suo unico Figlio, da lui “inviato nel mondo”.
Ecco il dono dei doni di Dio: dono gratuito, dono di se stesso, dono irrevocabile e senza pentimento. Dono fatto solo per un amore folle di Dio, il quale ha voluto diventare uomo, carne fragile e mortale (cf. Gv 1,14), per essere in mezzo a noi, con noi, e così condividere la nostra vita, la nostra lotta, la nostra sete di vita eterna. Ecco ciò che è accaduto con la venuta nella carne del Figlio di Dio e con la discesa dello Spirito che sempre è il compagno inseparabile del Figlio; ecco il mistero dell’amore di Dio vissuto in comunione, comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito santo.
Quel mondo (kósmos) che a volte nel quarto vangelo è letto sotto il segno del male, del dominio di Satana, “il principe di questo mondo” (Gv 12,31; 16,11; cf. 14,30), qui è letto come umanità, come universo che Dio vide “cosa buona” (Gen 1,4.10.12.18.21.25) e “molto buona” (Gen 1,31), che egli ha amato fino alla follia, fino al dono di se stesso, dono che gli ha richiesto spogliazione, povertà, umiliazione. Questo dono folle di Dio al mondo non ha come scopo il giudizio del mondo ma la sua salvezza: Dio vuole che l’umanità conosca la vita per sempre, la vita piena, che soltanto lui può darle.
Ma di fronte al dono resta la libertà umana. Il dono è fatto senza condizioni, dunque può essere accolto o rifiutato. Chi lo accoglie sfugge al giudizio e vive la vita per sempre, ma chi non lo accoglie si giudica da se stesso. Certamente troviamo qui espressioni di Gesù molto dure, radicali, ma esse vanno decodificate e spiegate. Se Gesù dice che “chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio”, non lo dice manifestando una condanna per le moltitudini di uomini e donne che non hanno potuto incontrarlo nella storia, perché appartenenti ad altri tempi o ad altre culture.
Costoro, se avranno vissuto la loro esistenza in conformità all’esistenza umana di Gesù, contraddistinta dall’amore dei fratelli e delle sorelle, è come se avessero vissuto, pur con tutti i limiti umani, la vita di Gesù; e così, senza conoscerlo, senza professare il suo Nome nella fede cristiana, conosceranno la vita eterna in lui e con lui. Ma chi ha avuto una vita gravemente difforme dalla vita umana di Gesù, e anzi in contraddizione con essa, non conoscendo l’amore, costui è già giudicato e condannato: non c’è per lui vita eterna. ( E. Bianchi )