Vangelo Domeniche e Festività
II Domenica di Quaresima: Sul monte Gesù non parla, si trasfigura e la Bellezza di Dio si offre ai discepoli.
Gli apostoli che Gesù invita a salire con sé sul monte, sei giorni dopo l’annuncio di una prossima misteriosa manifestazione del Figlio dell’uomo (cf. Mt 17,1), portavano con sé le domande sempre più gravi che venivano emergendo nel loro cuore.
Stando con Gesù e imparando a confrontare la loro precedente visione della vita e della storia con quanto egli veniva operando e insegnando, si chiedevano: in che modo questo Maestro, che esercita un così grande fascino, corrisponde alle promesse di Dio per la salvezza del suo popolo? come può un uomo così buono e mite mettere ordine in un mondo così cattivo? e che cosa significa il destino di sconfitta e di morte di cui ci sta parlando? (cf. Mt 16,21-23).
Sono le domande che noi cristiani sentiamo riemergere alla fine di questo secolo e di questo millennio: come può la mite bellezza del Crocifisso risorto portare salvezza a questa umanità cinica e crudele? ….
Siamo dunque saliti sul monte in compagnia dei tre discepoli accanto a Gesù, portando con noi le loro e le nostre domande. Che cosa ci risponderà ora il Signore? In realtà, sul monte Gesù non ci parla: si trasfigura! ….
Il monte è nella Bibbia il luogo della rivelazione, novello Sinai dove Dio parla al Suo popolo.
Gesù è la Legge in persona, la Torah fatta carne, che si manifesta nello splendore della luce divina: è la Verità vivente, attestata dai due testimoni per eccellenza, Mosè ed Elia, figure della Legge e dei Profeti.
Questa esperienza appare ai discepoli non solo vera e buona, ma anche bella: è il fascino della Verità e del Bene, è la bellezza di Dio che si offre a loro. Tale Bellezza è collegata nel racconto alla misteriosa rivelazione della Trinità: “Poi si formò una nube che li avvolse nell’ombra e uscì una voce dalla nube: ‘Questi è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo!’” . La nube e l’ombra sono figura dello Spirito di Dio. La voce è quella del Padre e Gesù è indicato come il Figlio, l’Amato: è dunque la Trinità che si sta comunicando ai discepoli.
Nel racconto di Luca viene indicato espressamente dove la piena rivelazione della Trinità si compirà: nell’evento pasquale. “Parlavano della sua dipartita, che avrebbe portato a compimento in Gerusalemme” (Lc 9,31). Negli altri sinottici l’allusione a tale evento avviene al momento della discesa: “Mentre scendevano dal monte, (Gesù) ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risuscitato dai morti. Ed essi tennero per sé la cosa, domandandosi però che cosa volesse dire risuscitare dai morti. E lo interrogarono: ‘Perché gli scribi dicono che prima deve venire Elia?’. Egli rispose loro: ‘Sì, prima viene Elia e ristabilisce ogni cosa; ma come sta scritto del Figlio dell’uomo? Che deve soffrire molto ed essere disprezzato’” (Mt 17, 9-12).
La morte e resurrezione del Figlio dell’uomo sono dunque il luogo in cui la Trinità si rivela definitivamente al mondo come amore che salva: “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10).
La Trasfigurazione ci consente allora di riconoscere nella rivelazione della Trinità la rivelazione della “gloria”, e rinvia al pieno compimento di tale rivelazione nella suprema consegna dell’amore che si realizza sulla Croce. E’ lì che “il più bello tra i figli dell’uomo” (Sal 44,3) si offre – nel segno paradossale del contrario – come “uomo dei dolori… davanti al quale ci si copre la faccia” (Is 53,3). La Bellezza è l’Amore crocifisso, rivelazione del cuore divino che ama: del Padre, sorgente di ogni dono, del Figlio, consegnato alla morte per amore nostro, dello Spirito che unisce Padre e Figlio e viene effuso sugli uomini per condurre i lontani da Dio negli abissi della carità divina.
Accompagniamo allora i discepoli nel cammino che Gesù sul monte ha loro mostrato: contempliamo con loro la gloria di Dio, la divina bellezza nella Croce e Resurrezione del Figlio dell’Uomo, dal Venerdì santo – ora delle tenebre in cui la Bellezza è crocifissa – fino allo splendore del giorno di Pasqua. Vorrei che questo cammino non si limitasse a una successione di richiami biblici, ma rappresentasse come un percorso di fuoco, in cui inoltrarsi con decisione personale e insieme con timore e tremore, lasciandosi bruciare dalla fiamma di Dio. ( Carlo Maria Martini )
I Domenica di Quaresima: Gesù e le seduzioni di Satana .
La prima domenica di quaresima si apre con il vangelo di Matteo che presenta le tentazioni del Cristo.
… Quello che adesso leggeremo non è un episodio dell’esistenza di Gesù, ma l’evangelista vuol farci comprendere che in tutta la vita Gesù fu sottoposto a queste tentazioni, o a queste seduzioni.
“Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo”.
Con il termine “allora”, l’evangelista allaccia questo episodio a quello che lo precede, il battesimo di Gesù, quando Gesù ha ricevuto lo Spirito del Padre, il Padre lo riconosce come suo figlio perché Gesù manifesta il suo desiderio, il suo impegno di renderlo presente come amore per l’umanità. Conseguenza di questo impegno di Gesù, lo Spirito conduce Gesù nel deserto.
Il termine “deserto” richiama almeno tre cose:
- l’esodo, la liberazione del popolo dalla schiavitù egiziana
- Durante questo esodo ci fu un periodo di tentazioni e prove alle quali Dio sottopose il suo popolo.
- il deserto era anche il luogo dove si radunavano tutti quelli che volevano conquistare il potere, con delle sommosse, con delle rivolte.
“Per essere tentato dal diavolo”. … Il termine “tentazione” ha una connotazione negativa; in realtà il diavolo – come vedremo – non tenta Gesù affinché compia qualcosa di negativo o azioni peccaminose. Nulla di tutto questo. Il diavolo non si presenta come un nemico, come un rivale di Gesù, ma come un suo alleato che lo vuole aiutare nella realizzazione del suo programma. Pertanto, più che di tentazioni, dovremmo parlare di seduzioni del diavolo.
“Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei il figlio di Dio»”.
Il tentatore non mette in dubbio la figliolanza divina di Gesù, che nel battesimo è stata confermata dalla voce del Padre che ha detto: “Tu sei mio figlio”, questa espressione del tentatore “Se tu sei il figlio di Dio”, quindi non è un dubbio, ma significa “giacché sei figlio di Dio” usa le tue capacità a tuo vantaggio.
Infatti, “«Dì che queste pietre diventino pane»”. La prima tentazione è usare le proprie capacità per il proprio vantaggio. Ma Gesù non userà le proprie capacità a proprio vantaggio, ma per il vantaggio degli altri. Sarà Gesù che si farà lui pane per gli altri. ..
“Allora il diavolo lo portò nella città santa”, cioè Gerusalemme, “lo pose sul punto più alto del tempio”.
Perché questo particolare? Perché in un apocrifo, il IV Libro di Ezra, si pensava che il messia, che nessuno conosceva, si sarebbe manifestato improvvisamente apparendo nel punto più alto del tempio, nel pinnacolo. Quindi è l’aspettativa del popolo.
Allora il diavolo, che si mostra come aiutante di Gesù, dice “Fai quello che il popolo s’attende, fai quello che il popolo desidera, anzi dagli un tocco di più”.
E gli dice per la seconda volta: “«Se tu sei figlio di Dio»”, cioè “giacché sei figlio di Dio”, “«Gettati giù»”, cioè mostrati come la gente aspetta nel punto più alto del tempio, ma dai un tocco di forza straordinario che faccia comprendere che tu sei veramente il figlio di Dio. “Gettati giù”, e poi il diavolo cita il salmo.
… Questa tentazione la ritroveremo poi in bocca ai sommi sacerdoti, agli scribi e agli anziani, al momento della crocifissione di Gesù “Se sei il figlio di Dio”, giacché sei il figlio di Dio, “scendi dalla croce”, cioè manifesta un Dio di potere.
La terza tentazione è diversa dalle altre, che sono stati precedute dall’affermazione “Giacché sei il figlio di Dio”, se sei il figlio di Dio, … per questa il diavolo non mette in ballo il fatto della figliolanza divina perché è una tentazione che è adatta ad ogni uomo.
Allora “Questa volta il diavolo lo portò sopra un monte altissimo”.
Perché il monte altissimo?
Nell’antichità il monte era il luogo della residenza degli dei e indicava la condizione divina. Quindi il diavolo offre a Gesù di possedere la condizione divina. Va ricordato che, a quell’epoca, tutti quelli che detenevano un potere, avevano la condizione divina. [ Il faraone era un Dio, l’imperatore era figlio di Dio.]
Quindi tutti coloro che detenevano il potere avevano la condizione divina e il diavolo offre a Gesù la condizione divina. Come?
“Gli mostrò tutti i regni e la loro gloria”, cioè la loro ricchezza, “e gli disse: «Tutte queste cose ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai»”. Cioè il diavolo propone a Gesù la condizione divina adorando il potere per dominare il mondo. ( A Maggi )
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Quando Gesù ha dinanzi a sé, nella visione del Vangelo, tutti i regni e la loro gloria, e si rifiuta di adorare Satana, Satana scopre le carte.
Prima Satana fa da rabbino, cita la Bibbia, si veste di panni religiosi che sono i panni prediletti del diavolo. Ma qui si scopre. Egli chiede di essere adorato.
Questa adorazione del principe del potere: ecco il peccato umano. Perché quando diciamo «potere» non alludiamo solo a quella sua espressione eminente che è il potere politico, ma al potere in tutti i gradi e in tutte le forme, che è la pretesa dell’uomo di ridurre l’altra persona a strumento di sé per la propria affermazione.
Non sarebbe giusto se ora pensassimo solo ai grandi e ai potenti che fan la storia, perché lo stesso modulo si ripete perfino dentro l’ambito di una famiglia, perfino nei rapporti tra due amici, perfino nel rapporto con me stesso, nel momento in cui io delibero la distinzione tra il bene e il male, secondo un impulso soggettivo che è appunto già il progetto di affermare me stesso, creandomi perfino lo spazio della liceità, stabilendo che quel che voglio fare è bene. In quel momento io rompo la mia sudditanza di fede alla Parola del Signore e mi costituisco come Dio in questo mondo.
Ecco il peccato.
Ora, la vita di Gesù di Nazareth – e questo è il suo mistero – si è svolta precisamente in antitesi alle scelte che invece per noi sono fatto quotidiano. Ecco la sua diversità.
Ma ecco anche la ragione per cui il peccato ha compiuto la sua più alta epopea: quella di mettere Gesù Cristo nella schiera dei peccatori.
Lo abbiamo messo accanto ai potenti; abbiamo parlato di prìncipi cristiani, di re cattolici, abbiamo messo la sua croce sulle corone. Abbiamo eliminato l’alternativa. Ecco il peccato che si compie dentro il Tempio.
Questa diversità del Cristo, ora riconosciuta, ci fa anche capire che significa convertirsi: non già diventare da uomini qualcos’altro, ma diventare uomini diversi, volere una umanità costruita secondo questa diversità, e giudicare l’umanità esistente secondo queste misure che sono misure evangeliche, le quali, poi, non possono che richiedere un abbattimento delle meccaniche del potere, e l’esaltazione di coloro che sono, sotto il potere, schiacciati e oppressi.
La battaglia cristiana, se posso usare questa parola, non è da compiersi all’interno delle logiche che governano la politica e la cultura, le quali sono rispettabili nel loro ambito relativo, ma tutte sottoposte a questo giudizio.
Questa scelta invece non è giudicabile da nessuna cultura, perché essa sta alla radice, sta prima della storia, per così dire. Gli scrittori sacri amavano raccontarla mettendo questo conflitto alle origini del mondo per dire che sta alle radici.
E noi ci convertiamo nella misura in cui riusciamo a liberarci dalla schiavitù molteplice di Satana e ad affermare la nostra obbedienza a questa diversità che Gesù Cristo ha espresso con la sua vita, con la sua morte e con la sua Parola. (Ernesto Balducci – da: “Il mandorlo e il fuoco” – vol. 1 – Anno A)
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… il deserto è il luogo privilegiato dell’incontro: nel deserto Gesù è tentato; nel deserto lo sposo va a recuperare la sua sposa che si era persa … la ripulisce …e la fa risplendere … Nel deserto ci si può perdere e morire … ma ci si può fortificare solo se si accoglie l’amato, abbandonandosi completamente a Lui … alla sua volontà … al suo progetto, che a differenza del nostro, è un progetto d’amore ….. E lui nel deserto non ci lascia soli .. perché anche Lui ha sperimentato l’abbandono più totale dagli uomini e e dal Padre morendo per tiraci fuoridalla schiavitù del peccato … Sì Lui è morto per recuperare in noi il divino che avevamo perso.
VIII Domenica del T. O. – Al Padre non bisogna chiedere perché il Padre precede le richieste degli uomini.
Voglio cominciare manifestando subito l’imbarazzo che provo ogni volta che mi avviene di confrontarmi con questa straordinaria pagina del Vangelo.
Da una parte, la percezione che in questo discorso di Gesù si coglie qualcosa di essenziale del significato della nostra vita sulla terra, si mette allo scoperto una verità dimenticando la quale si scivola fatalmente nella follia (e ci siamo!); dall’altra, la difficoltà di poter commentare queste parole, perché per quanto sia buona la nostra intenzione, noi siamo in una situazione illegittima: bisognerebbe che io che parlo e voi che ascoltate fossimo con la preoccupazione di che vestirci e di che mangiare.
In realtà non ne abbiamo, di queste preoccupazioni. II pericolo è che questa pagina diventi allora una bella occasione per esercitazioni di buoni sentimenti, di illuminata ispirazione … Ma così sfuggiamo alla sua verità.
È davvero uno dei casi in cui è meglio tacere che parlare.
Sono però anche convinto che se il nostro discorso è contenuto dentro questa consapevolezza, e viene fatto con un sottinteso di autocritica, diventa legittimo e molto importante.
Mi viene in mente che nei momenti ruggenti della nostra cultura occidentale – fine secolo scorso, inizi di questo secolo – questa pagina veniva indicata dalla cultura economico-politica del tempo come un indizio chiaro che il Vangelo è un prodotto culturale di una società antica, preindustriale, di una società pauperistica e che perciò non è adatta ai tempi nostri. Erano i tempi in cui riecheggiava in Europa la famosa parola di un uomo di governo francese: «arricchitevi». Questa era la parola che faceva da motto ad una società che andava avanti nella produzione e nella distribuzione dei beni.
Dentro la nostra isola felice, questa parola del Vangelo poteva, al più, essere ascoltata come una specie di esortazione alla fraternità, all’attenzione ai poveri, a farci strumento della misericordia di Dio con l’elemosina a chi non avesse, per caso, di che mangiare e di che vestire, ma sembrava che la società che si riflette qui nel Vangelo fosse ormai alle nostre spalle.
Ora invece siamo in un tempo in cui si è scoperto che attorno a noi c’è una metà dell’umanità che ha proprio la preoccupazione di che cosa mangiare e di cosa vestire.
La nostra organizzazione sociale, tutta centrata sullo sviluppo dell’homo economicus, dell’uomo come produttore e consumatore, ha conquistato grandi traguardi ma contemporaneamente, necessariamente, ha emarginato attorno a sé masse sterminate di gente destinate alla fame.
Questa è la scoperta che ci rende ormai inquieti, che turba per sempre la coscienza buona che avevano i nostri avi, i promotori della civiltà produttiva.
Sentiamo che c’è qualcosa di distorto alla radice della nostra organizzazione sociale e che quindi questa del Vangelo è una proposta sapienziale che ci obbliga a riesaminare criticamente i principi della nostra condotta personale e collettiva.
Il Vangelo non sostituisce le culture, rappresenta qualcosa di metaculturale, cioè un insieme di principi profetici che aggrediscono qualsiasi cultura svelandone la relatività, la inadeguatezza: questo è il suo compito.[…]
Ora noi sentiamo molto meglio che quello che va messo in questione è, in radice, il rapporto fra l’uomo e le cose, tra l’uomo e l’uomo e questo rapporto non può essere ricondotto dentro la categoria dell’utile: questo è il punto critico.
Quando facciamo, in altra sede e con altri registri, il discorso del Nord e del Sud vogliamo dire che il Nord è la porzione dell’umanità sviluppata perché ha scelto la categoria dell’ avere come categoria suprema, e questo ha determinato un collasso ed una epidemia di fame in tutto il Sud.
Noi siamo alla resa dei conti.
Noi non rimedieremmo affatto a questa situazione semplicemente collettivizzando i beni, occorre ristabilire un principio base che è quello del rapporto fra l’uomo e l’uomo e l’uomo e le cose. (Ernesto Balducci – da: “Il Vangelo della pace” – vol 1)
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In questo brano del vangelo di Matteo Gesù conferma quanto annunziato nelle beatitudini. Chi si prende del bene dell’altro e del benessere del proprio fratello, permetterà al Padre di prendersi cura di lui. Per questo il brano comincia dal capitolo 6, versetto 24 di Matteo, con l’avvertimento di Gesù “Non potete servire Dio e la ricchezza”.
….. Gesù invita a mettere la propria sicurezza non in quello che uno ha e trattiene per sé, ma in quello che uno dà e condivide con gli altri. ….
[ Continua] Gesù, “«Non preoccupatevi»” …. degli elementi essenziali della vita, quali sono il mangiare, il bere o il vestire, e porta degli esempi.
Dice: “«Guardate gli uccelli del cielo»”. Perché fa proprio questo esempio degli uccelli del cielo?
Perché erano ritenuti animali inutili e nocivi, animali per i quali il Signore non veniva benedetto. Addirittura nel vangelo di Luca si parla di corvi, che erano considerati animali impuri. Quindi gli elementi più inutili e insignificanti della creazione. Ebbene, dice Gesù “«Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre»”.
Questo di Gesù non è l’invito a un fatalismo in cui si attende che la provvidenza faccia tutto. No! Gesù dice “Se Dio nutre gli uccelli del cielo che non seminano, non mietono, né raccolgono, quanto più voi che seminate, mietete e raccogliete”. Quindi non è un invito a non far nulla, ma ad impegnarsi attivamente senza preoccupazione.
E poi Gesù fa l’esempio che nessuno può allungare la propria vita oppure il vestito e poi dice: “«Osservate i fiori di campo»”., i fiori più comuni, quelli la cui durata era appena di un giorno. E Gesù assicura che “«neanche Salomone, con tutta la sua gloria»”, cioè la sua vanità, “«era vestito come uno di loro»”. Allora l’insegnamento di Gesù: “«Se Dio veste l’erba del campo, che dura appena un giorno, oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi …»”, e qui c’è il rimprovero di Gesù, “«.. gente di poca fede?»”
Poca fede non significa che si crede poco, ma mancanza di fiducia.
Se voi vi impegnate per il bene degli altri, il Padre si prenderà cura di voi, a tutto vantaggio degli uomini!
Poi , per la seconda volta, Gesù dice: “Non preoccupatevi dunque dicendo: ‘Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?’»” e fa un paragone molto forte. “«Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani»”, quelli che non credono nel Padre. Quindi se voi vi preoccupate per la vita, di quello che avete, ecc, siete come persone che non conoscono il Padre. E, assicura Gesù: “«Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno»”.
L’assicurazione di Gesù è che al Padre non bisogna chiedere perché il Padre precede le richieste degli uomini, lui conosce i bisogni degli uomini, quindi l’azione del Padre precede sempre la richiesta del figlio.
Ed ecco l’invito finale. “«Cercate …»”, cioè adoperatevi, datevi da fare, “«… invece, anzitutto, il regno di Dio»”, cioè questa nuova comunità alternativa alla società, dove al posto dell’avere ci sia il condividere, al posto del comandare ci sia il servire, “«e la sua giustizia»” , dove per giustizia si intende la fedeltà a quanto annunziato nelle beatitudini per creare una società alternativa.
“«E tutte queste cose»”, quindi il mangiare, il bere e il vestire, “«vi saranno date»”, non nella misura in cui ne necessitate, ma “«in aggiunta»”. …
Ed ecco l’ultimo invito a non preoccuparsi, per la terza volta. “«Non preoccupatevi dunque del domani»”. ….. Come oggi avete sperimentato l’azione provvidenziale del Padre che si è preso cura di voi, anche domani questo accadrà.
E conclude Gesù: “«A ciascun giorno basta la sua pena»”, cioè il problema, l’affanno, la preoccupazione, non devono essere proiettati nel futuro, ma ogni giorno il Signore risponde ai bisogni dei suoi figli. ( A. Maggi )
VII Domenica del T. O. – Il nemico c'è perchè lo produciamo noi … La novità del nostro essere cristiani è vivere senza avere nemici !!!
Da due domeniche siamo in ascolto del discorso della montagna, fatto da Gesù ai discepoli e alle folle, secondo Matteo. Oggi ascoltiamo le ultime due antitesi pronunciate da Gesù: “Avete inteso che fu detto … ma io vi dico”. ( E. Bianchi )
Gesù continua a prendere le distanze dalla legislazione di Mosè per presentare un’alternativa di società e un modo nuovo per rapportarsi con il Signore .
“«Ma io vi dico: ‘Non opporvi al malvagio’»”.
Non significa questo invito di Gesù ad essere delle persone passive che accettano ogni prepotenza. Il cristiano non è questo, anzi. Ma significa spezzare il cerchio della violenza, proporre iniziative di bene, di amore e di pace, che disinneschino questo odio e questa violenza che si abbattono su di te.
Per questo quando Gesù dice “«Se uno di da uno schiaffo sulla guancia destra tu porgigli anche l’altra»”, non significa passare da stupidi. Gesù non ci chiede di essere stupidi, tonti, ma buoni fino in fondo.
Di fatto l’unica volta nel vangelo di Giovanni che Gesù prende uno schiaffo, mica ha presentato l’altra guancia, ma ha detto: “Se ho sbagliato mostrami dove ho sbagliato, se non ho sbagliato perché questa violenza?”
Quindi Gesù invita a non opporre alla violenza che viene addosso altra violenza, altrimenti questa cresce e poi dopo diventa un crescendo interminabile di violenza che genera altra violenza. …
Il credente è colui che, di fronte alla violenza dell’altro, gli fa comprendere: … Poi Gesù passa a toccare uno dei piedistalli della spiritualità ebraica, “«Avete inteso che fu detto: ‘Amerai il tuo prossimo …e odierai il tuo nemico … ma io vi dico: amate i vostri nemici’ ( A Maggi )
… Il nemico c’è perché lo produciamo noi. Noi produciamo l’immagine del nemico, gli diamo una maschera colorata dalla nostra passione, dal nostro risentimento e dai nostri interessi. Il nemico diventa terribile. Questo è vero anche nell’ educazione dei bambini.
Ricordo che quando ero piccolo la stessa parola «austriaco» mi faceva paura e quando per caso incontrai un austriaco lo guardai meravigliandomi che fosse un uomo come gli altri.
Ci avevano insegnato che gli austriaci erano i nemici. Simili condizionamenti, in tempi più tragici come il nostro, possono essere fatali.
La prima condanna che noi dobbiamo far nostra e meditare per trasformarla in sostanza culturale, in clima quotidiano, è quella dell’idea del nemico: non ci sono nemici.
Lo so che a livello politico possono esserci, ma ne prenderò atto nel regime di necessità in cui mi trovo, ma quel regime di necessità. non sarà costituito da una specie di impulso biologico.
Come ho detto più volte, la novità del nostro essere cristiani, in questo ultimo scorso del secondo millennio, è che oggi potremmo finalmente vivere senza avere nemici.
Noi siamo stati educati, sempre, all’idea che i cristiani hanno dei nemici.
… Chi ha paura dei nemici ha una paura che nasce dal fatto che è lui il nemico, è lui che ha prepotenze interne, ha volontà di conquista, ha la libidine del potere ed è proprio per camuffare questa sua ferinità che egli si costruisce l’avversario.
C’è tutta una storia di avversari che abbiamo combattuto mentre il male era dentro di noi.
Finalmente ci è possibile – non è che questo sia un costume generalizzato – dirci cristiani senza avere nemmeno un nemico. E se per caso c’è un nemico, è quello a cui vogliamo bene, per cui preghiamo e che semmai vorremmo smontare, dal suo stato di ingiusta inimicizia, attraverso un di più di amicizia: questo ci dice il Signore.
Non e questo un principio riservato ad una élite, è un principio che è condizione di sapienza per tutti gli uomini: questa è la nostra certezza.
Siamo arrivati ad un punto in cui la stoltezza di questo mondo ha toccato e il limite, e il limite è quello in cui una tendenza si sviluppa fino a negare se stessa.
(Ernesto Balducci – da: “Il Vangelo della pace” – vol. 1)
Per ‘amare’ Gesù non ha scelto il verbo greco fileo, da cui filosofia, filantropia, una mole di benevolenza che riceve qualcosa in cambio, ma il verbo agapao, da cui la parola agape che tutti conosciamo, che significa un amore che è indipendente dalla qualità di colui che lo riceve, è indipendente dalla risposta dell’altro. Quindi di un amore che non guarda i meriti della persona che viene amata, un amore che si genera per il bisogno dell’altro, non per la risposta che se ne può avere. ….
E poi Gesù dà un’immagine di cosa significa questo amore, “«Egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni»”, è un’offerta di vita che è rivolta a tutti.
Il Dio di Gesù non è buono, è esclusivamente buono, lui non guarda i meriti delle persone, ma guarda i loro bisogni. Non è il Dio che premia i giusti e castiga i malvagi, ma a tutti, giusti e malvagi, offre il suo amore.
E poi Gesù fa un altro esempio, “«E fa piovere sui giusti e sugli ingiusti»”. Quindi questi esempi, che sono comprensibili a tutti, il sole e la pioggia, vogliono dire che l’amore di Dio è un amore dal quale nessuna persona si può sentire esclusa. Gesù non discrimina tra meritevoli e no, tra puri e impuri, ma il suo amore si rivolge a tutti quanti.
E poi Gesù dice: “Se amate e salutate”, e prende le categorie ritenute più lontane da Dio, i pubblicani, quelli che erano impuri fino all’essenza stessa della persona e i pagani, quelli che avevano altre divinità.
“Se amate e salutate quelli che vi amano e vi salutano che fate di più? Siete come quelli che sono impuri profondamente e quelli che sono senza Dio, i pagani”.
Ed ecco l’invito finale di Gesù: “«Voi dunque siate perfetti …»”, che significa essere pieni, completi, “«come è perfetto il Padre vostro celeste»”. Ecco, dopo tutto questo, allora capiamo bene cosa significa questo invito alla perfezione. Significa essere buoni fino in fondo. E questa non è una virtù, un eroismo straordinario possibile soltanto ad alcuni, ma essere buoni fino in fondo è dentro le capacità e le possibilità di ogni persona.
Quando si realizza questo la vita del credente si intreccia con quella di Dio e diventa una sola cosa; l’uomo permette a Dio di essergli Padre e sperimenta la sua presenza intima, profonda, in ogni avvenimento della propria esistenza e della propria vita. ( A. Maggi )