Vangelo Domeniche e Festività
II Domenica del T.O. – Gesù è l'Agnello che prende sopra di se il peccato per eliminarlo dal mondo.
Prima della comunione il celebrante, mostrando l’ostia consacrata, dice: “Beati gli invitati alla Cena del Signore. Ecco l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo“.
Tutti hanno appena pregato con le parole: “Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi”.
Sono (con la sostituzione del singolare col plurale) le parole di Giovanni il Battista, che abbiamo ascoltato nel Vangelo.
È un’occasione per riflettere su quello che diciamo in questo momento della S. Messa.
Il termine che Giovanni (evangelista) impiega significa sia “togliere” che “prendere”, e per capire la frase i due significati vanno tenuti insieme, perché fanno una sintesi teologica formidabile: Gesù è l’agnello che prende sopra di sé e in questo modo elimina il peccato del mondo.
Egli si accolla il peso del nostro peccato, e così ci solleva da esso.
Non è suo questo carico di morte e di peccato, lo assume liberamente, se lo prende per amore nostro.
Questo è il compito che Dio si è assunto.
E il nostro?
Se qualcuno si offre di prendersi il mio carico, cosa devo fare io se non… darglielo?
Dare a Gesù, affidargli il mio carico di peccato e di morte: questo è il mio compito.
Non devo vivere da solo il peccato e la morte, perché allora essi mi uccideranno. Devo viverli insieme a lui, condividerli con l’agnello.
Spesso si pensa che per presentarsi a Dio occorra prima essere a posto, puliti; solo dopo ci si può accostare all’Agnello.
Errore!
Se fosse così, non ci sarebbe speranza di salvezza, perché lasciati soli rimarremmo schiacciati.
È proprio mentre gemo sotto il peso del peccato e della morte che ho bisogno di incontrare uno che mi sollevi. Non nel mio essere forte e vittorioso, ma proprio nel mio essere inadeguato, debole, peccatore, ho bisogno di incontrare uno che abbia pietà di me!
Il peccato più grande è l’incapacità di accogliere questa luce e proseguire a camminare nelle tenebre, come se l’Agnello di Dio non esistesse, senza affidargli il nostro peso, vivendo da soli il nostro peccato.
Ma noi diciamo: “Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi”.
Il Battista lo esclamava quando vedeva Gesù venire verso di lui, noi quando Gesù viene verso di noi nel sacramento del pane e del vino
. Perché lì c’è il sacrificio pasquale di Gesù; agisce nuovamente il momento nel quale lui prende su di sé fino in fondo la nostra spossatezza, il nostro male, se ne carica.
Entrare in comunione con lui, fare la comunione, non può significare altro che rinnovare questo atto di affidamento di noi stessi e del nostro male a lui che viene a noi come agnello per prenderlo su di sé.
Rischiamo di non renderci conto che c’è accanto a noi qualcuno disposto a prendersi il nostro carico. Accorgersene non è automatico: richiede un cammino. Così è stato per Giovanni Battista: “io prima non lo conoscevo”. Poi ha visto il cielo aprirsi, ha compreso. Nessuno può vedere al posto nostro, dobbiamo essere noi a saper vedere in profondità, a saper scoprire in Gesù l’Agnello di Dio che viene a prendere su di sé e distruggere il peccato nostro e del mondo. E gridare così in verità: “Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi!”. ( Marco Pratesi)
Battesimo di Gesù: il " senza peccato" in fila con i peccatori ….
Abbiamo celebrato a Natale la manifestazione-epifania del Salvatore ai poveri, all’Epifania la manifestazione alle genti: oggi, con il battesimo di Gesù, celebriamo la sua manifestazione a Israele, concludendo così il tempo delle epifanie dell’incarnazione.
C’è stato un lungo silenzio dall’infanzia di Gesù fino a quest’ora.
Dove Gesù ha vissuto la sua giovinezza?
Dove ha imparato a leggere le sante Scritture?
Dove è diventato un uomo maturo di circa trent’anni (cf. Lc 3,23)?
I vangeli non ci danno risposte. Possiamo solo dire che, negli anni immediatamente precedenti al battesimo, Gesù è stato discepolo del Battista nel deserto di Giuda, come Giovanni stesso ci testimonia nella sua predicazione messianica: “Chi viene dietro a me (opíso mou), chi è alla mia sequela è più forte di me” (Mt 3,11; Mc 1,7).
È in questa sequela che Gesù chiede a Giovanni, il suo rabbi, di ricevere l’immersione nelle acque del Giordano, mettendosi in una fila di peccatori che vogliono professare la volontà di conversione, di ritorno a Dio. Questa è la scena, è l’atto di presentazione di Gesù adulto, il suo primo atto pubblico. Gesù è il Messia, l’Unto del Signore, è il Salvatore di Israele, è il Figlio di Dio venuto nel mondo, ma la sua prima manifestazione è nell’abbassamento, nello svuotamento, senza presentare le sue prerogative divine.
Sì, in questa immersione di Gesù, che non ha bisogno di battesimo per la remissione dei peccati, essendo lui senza peccato (cf. 2Cor 5,21; Eb 4,15), egli stesso si annovera tra i peccatori, come accadrà anche nella sua morte in croce tra due malfattori (cf. Mt 27,38; Mc 15,27). Ecco perché dico che Gesù è “il Messia al contrario”, perché contraddice ogni immaginazione umana, ogni logica che vuole che la venuta di Dio avvenga nello splendore, nella gloria, nella potenza.
Giovanni però, che per rivelazione e soltanto per fede conosce la vera identità di Gesù, si rifiuta di immergere Gesù nelle acque del Giordano. Anzi, nel racconto di Matteo confessa: “Io ho bisogno di essere immerso da te, e tu invece vieni a me e chiedi di essere immerso?”. Ma poi obbedisce silenziosamente alle parole di Gesù, che gli ricorda l’obbedienza che entrambi devono fare alla missione ricevuta: entrambi devono “adempiere ogni giustizia”, cioè corrispondere puntualmente alla volontà di Dio. Giovanni, l’ultimo profeta dell’Antico Testamento e il primo profeta del Nuovo, lascia a Gesù ogni decisione, lascia fare a Gesù: egli sa di dover solo predisporre tutto affinché la volontà di Dio, ormai espressa autorevolmente da Gesù, si compia.
Gesù viene dunque immerso da Giovanni nel Giordano, e mentre esce dalle acque – avendo compiuto questo momento pasquale di morte, affogamento, deposizione dei peccati e resurrezione a vita nuova, profezia della sua passione-Pasqua; e dopo essersi identificato con l’umanità peccatrice –, ecco giungere su di lui, proprio allora, la parola definitiva di Dio. Si aprono i cieli, cioè avviene una comunicazione tra mondo celeste e mondo terrestre, tra Dio e la terra; lo Spirito santo scende come una colomba, dolcemente, su di lui; e una voce proclama: “Questi è il mio Figlio, l’amatissimo: in lui ho posto tutta la mia gioia”.
Questa teofania è ricca di significato: come sulle acque primordiali, nell’in-principio della creazione, aleggiava lo Spirito di Dio (cf. Gen 1,2), così sulle acque del Giordano scende lo Spirito, inaugurando la nuova creazione nel nuovo Adamo, Gesù Cristo. E la parola di Dio dice la sua identità di Figlio di Dio stesso, Figlio unico e amatissimo, Figlio di cui Dio, vedendo lo stile da lui assunto e le azioni da lui compiute, come quel battesimo, può attestare: “Io mi rallegro di te, sei amatissimo da me, mi compiaccio di te, per come vivi e agisci, in piena conformità alla mia volontà”.
Queste parole di Dio all’inizio di ogni vangelo sinottico (cf. Mc 1,11; Lc 3,22) sono anche per ciascuno di noi, che dovrebbe sentirle rivolte a sé: sì, Dio mi dice che sono suo figlio, che sono da lui amatissimo. Ciascuno di noi dovrebbe sperare che Dio gli possa dire: “Di te mi compiaccio, di te mi rallegro!”, ma forse, conoscendo le nostre rivolte verso Dio, i nostri peccati, esitiamo a crederlo possibile. Noi esitiamo, eppure dovremmo esserne convinti: queste sono le parole che Dio vorrebbe dirci e che ci dirà se speriamo in lui, non in noi, nella sua misericordia, non nelle nostre giustificazioni. ( Enzo Bianchi )
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…Noi viviamo oggi una salutare crisi, opera di Spirito Santo: perché da una appartenenza alla Chiesa di tipo sacrale, nella quale i sacramenti scandivano i gradi di stretta appartenenza (dal battesimo, poniamo, all’ordine sacerdotale) e stringevano l’uomo all’istituzione sacra e in qualche modo lo segregavano, noi passiamo ad una visione messianica della Chiesa, modellata su Gesù servo dell’uomo.
E allora i sacramenti devono cambiar forma, senso e anche modo di distribuzione: compito pastorale che certo non sta a noi qui affrontare.
Essere battezzati vuol dire essere mandati.
Il battesimo è un’investitura di coloro che professano la fede in Gesù di Nazareth, e si assumono il compito di vivere come Lui ha vissuto passando per le vie del mondo facendo del bene e liberando gli schiavi.
È un’investitura che presuppone una maturità di coscienza.
A questa trasformazione si dovrà pure arrivare, secondo gradi di maturazione della coscienza comune dei cristiani che non sta a me anticipare ne forzatamente imporre. Però è bene camminare, anche come popolo di Dio, prevedendo certe scadenze che si fanno meno lontane di quanto si pensava, perché questa maturazione esplode. (Ernesto Balducci da “II mandorlo e il fuoco” vol. 1anno A )
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Se il battesimo di Gesù, come annunciava Marco, era mirato ad ottenere il perdono dei peccati, perché Gesù è andato a farsi battezzare?
Se il battesimo di Gesù, come nel vangelo di Matteo, è mirato alla conversione, cioè ad un cambiamento del proprio comportamento, da un comportamento sbagliato a uno orientato verso il bene degli uomini. Perché Gesù fa a farsi battezzare?
Lui aveva bisogno di conversione?
Il battesimo è un simbolo di morte, morte a quello che si è e che si è stati, per accogliere la vita nuova.
Anche per Gesù il battesimo è un simbolo di morte, ma non al passato, poiché lui non ha un passato ingiusto da dover cancellare, ma morte nel senso di accettazione di morte al futuro per essere fedele alla volontà del Padre e manifestare il suo volto d’amore.
Gesù parlerà di questo battesimo proprio come simbolo di morte.
Nel vangelo di Marco dirà: “Potete ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?”
…. “Giovanni voleva però impedirglielo”, perché questo Gesù che va a farsi battezzare come se fosse anche lui bisognoso di conversione non è in linea con il messia che Giovanni Battista ha annunziato, il messia giustiziere, il messia che viene a giudicare, a premiare e castigare, che viene a battezzare in Spirito Santo, ma anche col fuoco, quello che viene a bruciare la pula.
E quindi Giovanni Battista protesta e dice: “«Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me? » Ma Gesù gli rispose: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia»”. I
l termine ‘giustizia’ nell’Antico e nel Nuovo ha il significato di fedeltà, fedeltà all’alleanza.
La giustizia di Dio consiste nella sua fedeltà all’alleanza, anche se gli uomini possono abbandonarla, anche se il popolo può tradirla, Dio è sempre fedele all’alleanza e al suo popolo.
E l’uomo è giusto, cioè la giustizia dell’uomo, quando è fedele a questa alleanza. Quindi Gesù invita ad essere fedeli all’alleanza, cioè a compiere la volontà di Dio.
E qui l’evangelista colloca un’espressione strana che si trova solo due volte nel vangelo di Matteo, qui e alla fine delle tentazioni nel deserto, quando si legge che i”l diavolo allora lo lasciò”. E’ la stessa frase.
“Allora egli lo lasciò”, Giovanni Battista lo lasciò. Non è “lasciò fare”, come alcuni traduttori cercano poi di completare la frase. “Allora egli lo lasciò”, esattamente come il diavolo.
L’evangelista vuole indicare che questa per Gesù è la prima tentazione: essere il messia atteso dalla popolazione, il messia annunziato dalla tradizione. Sarebbe stato subito riconosciuto, accolto e acclamato.
Invece Gesù dovrà liberare il popolo da questa idea del messia per presentarne una completamente diversa, non un messia di potenza, ma un messia d’amore, non un messia di dominio, ma un messia di servizio. ( A. Maggi )
EPIFANIA: Quando s’è visto, bisogna muoversi. Come i Magi bisogna andare a Cristo
L’Epifania è la festa della manifestazione di Gesù. Il Figlio di Dio, nato a Betlemme nella più grande umiltà, ora si rivela agli uomini.
Ora il mistero di Cristo, tenuto nascosto agli uomini delle precedenti generazioni, viene rivelato (cfr. Efesini 3, 5). Ora, in Cristo, Dio è apparso nel mondo.
Come ci dice la profezia di Isaia ascoltata nella prima lettura, in mezzo a una folla immersa nel buio, è apparsa una luce. E, da quel momento, la scena si anima. Tutti si muovono: camminano i popoli alla luce del Signore; le genti e i re che vengono da lontano accorrono e si radunano, attratti da questa luce (cfr. Isaia 60, 1-6).
«L’apparizione di Dio nel mondo non si manifesta propriamente come la luce fisica, cioè per ogni verso e in modo obbligante l’occhio ad accoglierla; ma si manifesta, direi […] a fasci, a coni luminosi, a strati: chi non entra nella zona percorsa dalla luce, non s’accorgerà ch’essa passa sul suo capo, ch’essa lo sfiora vicina. Per vedere bisogna aprire gli occhi, almeno, bisogna guardare. C’è di più: quando s’è visto, bisogna muoversi. Come i Magi.bisogna andare a Cristo venuto» (Cardinale Montini ( Paolo VI ) Omelia per il pontificale dell’Epifania, 6 gennaio 1956, in DSM, pp. 577-578).
Emerge da qui, quanto mai immediata e chiara, la necessità di un nostro movimento, di una nostra apertura, di una nostra risposta.
È la necessità, anzi la responsabilità della fede, quale risposta libera e personale al Signore che si rivela.
Sì, l’apparizione di Cristo, la rivelazione del suo mistero, «genera una responsabilità… l’immobilismo non è più giustificabile» .
È una responsabilità che tutti ci interpella e che esige da ciascuno di noi, che pur siamo credenti, un rinnovato movimento spirituale, un desiderio più ardente di accostarci al Signore e di seguirlo: in una parola, una fede più fresca e genuina, matura ed entusiasta.
È una responsabilità, quella della fede, che si esprime anzitutto nella «ricerca di Cristo, di Dio, della verità»: una ricerca di cui i Magi sono per tutti noi di esempio quanto mai luminoso ed attraente.
Essi – annota il futuro Paolo VI – «cercano una soluzione convergente del loro pensiero con il fatto storico e reale della nascita del Messia; cercano vegliando e studiando i cieli, desumono cioè anche dalla osservazione della natura e dalla scienza umana il segno indicatore; cercano impegnando il loro tempo e sacrificando la loro tranquillità; cercano la testimonianza umana della voce divina; cercano perseverando nell’alternarsi della luce celeste e dell’insegnamento umano; cercano senza vergognarsi dello scopo del loro pellegrinare e senza scandalizzarsi di non aver precursori e seguaci quelli più informati di loro; cercano e trovano nella gioia e nell’umiltà; cercano e trovano per adorare e per dare, felici di offrire e di scomparire» (Omelia durante il pontificale dell’Epifania, 6 gennaio 1957, in DSM, p. 1146).
E così, di fronte a Dio che, pur rivelandosi, rimane misterioso, essi ci insegnano che «la fortuna di accettare la rivelazione, la fortuna cioè di credere e di entrare così nel cerchio beato della comunicazione alla vita stessa di Dio è, da un lato, libero e totale dono suo, dall’altro esige una cooperazione nostra […] di cuore e di volontà, di onestà di pensiero e di vita, di culto e di amore»
I Magi ci dicono «che Dio bisogna cercarlo: l’ignoranza, l’inerzia, l’indifferenza, l’agnosticismo, il dubbio sistematico, la noia raffinata, lo spiritualismo pago delle sue interiori esperienze, la riduzione del sapere alla sola conoscenza del dato sensibile e di evidenza razionale, e tante altre espressioni della areligiosità moderna sono accusate dai Magi come abdicazione del pensiero umano al suo fine principale, al dovere primo della vita: conoscere Dio»
Conoscere Dio: è una responsabilità che dobbiamo risvegliare dentro di noi, nella consapevolezza – sono ancora parole di Montini – che «per conoscerlo bisogna fare qualche cosa: pensare, studiare, istruirsi, pregarlo» (ivi) e che occorre sempre più «progredire nella conoscenza e nell’intelligenza delle cose di Dio». E questo perché, «l’atto di fede non ci dispensa dallo studio della verità religiosa, ed ecco la teologia; dal culto della verità religiosa, ed ecco la meditazione; dall’amore della verità religiosa, ed ecco la preghiera; dalla coerenza con la verità religiosa, ed ecco la virtù e la vita cristiana»
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Quei magi, quei sapienti, sono dei cercatori, capaci di mettersi in cammino, di non restare chiusi nei loro confini, di non essere soddisfatti dei propri orizzonti, e per questo partono, fanno un viaggio, seguendo la stella, senza sapere dove avrebbe potuto portarli.
Quando giungono a Gerusalemme, la stella si eclissa, mostrando ai magi la sua insufficienza: il libro della natura, del cosmo non basta, e perciò essi devono fare ulteriori domande circa la possibile nascita del re dei Giudei.
… A Gerusalemme, dunque, fanno domande a quelli che avevano ricevuto la rivelazione, la parola di Dio, nella convinzione che essi possano conoscere ciò che loro non sanno. Si accorgono però ben presto che le loro domande destano turbamento in tutta Gerusalemme, in particolare nel re Erode. ….
I magi, obbedienti alle Scritture, pur svelate loro da nemici di quel re bambino nato da poco, vanno verso Betlemme, ed ecco ricomparire la stella che li accompagna, quasi a profetizzare che il libro della natura e quello della parola di Dio concordano e sono unanimi nel convergere verso il bambino Gesù. Nella grande gioia per questa rivelazione, giungono nella casa e trovano il bambino con Maria sua madre. Una stella nel cielo e dei credenti increduli li hanno portati fin qui, davanti a una povera, umile scena: un neonato e sua madre…
A lui offrono i loro doni più preziosi, adempiendo così le profezie riguardo al pellegrinaggio escatologico di tutte le genti, che sarebbero venute dai confini della terra ad adorare il Signore (cf. Is 2,2-5; 60; 62,1-2): l’oro che solo i re possono ricevere, l’incenso offerto a Dio nella liturgia, la mirra farmaco di vita per sempre.
Epifania, manifestazione dall’alto, rivelazione alle genti dell’identità di quel bimbo nato da Maria.
Le genti, con la loro sapienza, la loro ricerca di Dio fuori dall’appartenenza al popolo di Israele e alla chiesa, hanno un orientamento, la loro ricerca del senso del senso: lo trovano in cielo? Lo trovano in terra? Lo trovano nel loro cuore e nelle loro convinzioni più profonde?
Noi cristiani a queste domande rispondiamo con franchezza: sì, possono trovarlo, perché la parola di Dio non è al di là dei mari, non è al di là dei confini della terra, ma è vicina a ogni uomo, nel suo cuore e nella sua bocca (cf. Dt 30,11-14; Rm 10,6-8).
Occorre solo ascoltarla e dovremmo semplicemente aiutarci a vicenda nel discernerla: noi, chiesa, Israele, genti, dovremmo aiutarci a vicenda, perché siamo tutti cercatori, tutti pellegrini, tutti mendicanti. ? ( E. Bianchi )
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Sappiamo che Matteo ci racconta un grande evento messo in luce da Isaia e dagli Efesini: il re Messia di Israele è nato e i grandi non lo sanno, genti lontane sono guidate dalla luce di Dio ma non possono trovarlo senza la mediazione d’Israele.
Si commuovono dice il testo ma non si muovono e i magi vanno a cercare e trovano: trovano per convergenza della sapienza di Israele con una mozione divina: Israele possiede il tesoro delle Scritture, lo offre per gli altri, non lo adopera per sé.
Israele è estraneo all’incontro col Cristo nato: Questa estraniazione durerà fino alla fine dei secoli. Gli altri trovano si consegnano e donano. ( D. G. Dossetti )
II Domenica dopo Natale: tutto quello che vediamo in Gesù questo è Dio!
Nel prologo al suo vangelo Giovanni riassume e formula tutto il contenuto della sua opera. Quindi sono diciotto versetti preziosi e molto molto ricchi. Per comprenderli iniziano dall’affermazione clamorosa che l’evangelista mette alla fine del prologo.
Scrive l’evangelista “Dio nessuno lo ha mai visto”.
Questa è un’affermazione grave, perentoria, che, tra l’altro, contraddice la stessa Bibbia, perché nella Bibbia si afferma che Mosè ed altri personaggi hanno visto Dio.
Giovanni non è d’accordo, “Dio nessuno lo ha mai visto”. Pertanto le descrizioni che si sono fatte di Dio, anche da parte di Mosè, sono limitate, sono incomplete, a volte devianti, o addirittura false. …
“Il figlio unigenito”, unigenito nel senso dell’unicità di questo figlio, “che è Dio”, che è Dio lui stesso, “ed è nel seno del Padre”, cioè nella piena intimità del Padre, “è lui che lo ha rivelato”.
Con questa affermazione l’evangelista conclude il prologo invitando quindi a porre tutta l’attenzione sulla figura di Gesù.
Cosa vuole dire che Dio nessuno lo ha mai visto e solo il figlio ce lo ha rivelato?
Che Gesù non è uguale a Dio, ma Dio è uguale a Gesù.
Se noi diciamo che Gesù è uguale a Dio significa che abbiamo un’immagine, un’idea di Dio. Ebbene l’evangelista ci invita a sospendere questa immagine e a centrare tutta la nostra attenzione su Gesù.
Tutto quello che vediamo in Gesù questo è Dio.
Quindi non Gesù è uguale a Dio, ma Dio è uguale a Gesù, e molte immagini e molte idee su Dio, vedendo il comportamento e l’insegnamento di Gesù, inevitabilmente verranno a cadere.
Quindi l’evangelista ci invita a porre tutta l’attenzione su Gesù perché in lui si manifesta Dio. E proprio perché in Gesù si manifesta la divinità, e andiamo a ritroso in questa lettura del prologo, c’è stato bisogno di una nuova relazione tra gli uomini e Dio.
Mosè, il servo di Dio, aveva imposto una relazione tra i servi e il loro Signore, basata sull’obbedienza; ebbene Gesù, che non è il servo di Dio, ma il figlio di Dio, propone una nuova relazione tra dei figli e il loro Padre, non basata sull’obbedienza, ma sulla somiglianza e l’accoglienza del suo amore.
Ecco perché allora nel versetto che precede l’evangelista ha scritto “Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, ma la grazia e la verità”, ‘grazia e verità’ è un’espressione che indica l’amore fedele, l’amore vero, “vennero per mezzo di Gesù Cristo”. Quindi una nuova relazione non più basata sulla legge, ma sull’accoglienza del suo amore.
E, sempre andando a ritroso nella lettura di questo prologo, scrive l’evangelista “dalla sua pienezza”, cioè dalla pienezza di questo uomo nel quale si manifesta la condizione divina, “noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia”.
Cosa vuol dire l’evangelista?
E’ il dinamismo della vita del credente e della comunità cristiana.
All’amore ricevuto dal Padre corrisponde un amore comunicato ai fratelli, questo è il dinamismo di crescita dei credenti. Più sarà grande la risposta di questo amore al fratello e più, a sua volta, sarà grande da parte di Dio la risposta del suo amore.
Quindi più noi comunichiamo quest’amore ai fratelli e più da Dio riceviamo amore. Questo in un crescendo senza fine. Questa crescita nell’amore è quello che realizza l’individuo e il credente.
E, andando ancora indietro saltando qualche versetto, l’affermazione importante dell’evangelista che “il Verbo’, ‘il Verbo’ significa la parola creatrice, la sapienza creatrice “si fece …”, l’evangelista non scrive che si fece uomo, ma usa il termine carne che indica l’uomo nella sua piena debolezza.
Il progetto di Dio non si realizza in un superuomo, difficile da imitare, soltanto da ammirare, ma si realizza nella debolezza umana. Questo vuol dire che Dio si manifesta nell’umanità.
Più l’uomo diventa umano più manifesta il divino che è in lui. E questo Verbo che si fece carne, questo progetto di Dio, che si fa carne, è la pienezza dell’amore di Dio che si manifesta in un uomo che diventa l’unico vero santuario dal quale si irradia l’amore del Padre.
E questo Verbo che si è fatto carne, si è fatto uomo nella sua debolezza, scrive l’evangelista, “E’ pieno, di grazia e verità”, cioè completo.
La caratteristica che distingue Gesù è l’amore fedele.
L’amore quando è vero? Quando è fedele. E questo Verbo che si è fatto carne, che si è fatto uomo, ci rimanda allora all’inizio del prologo, dove l’evangelista scrive, “In principio era il Verbo”.
Giovanni prende le distanze dalla teologia del libro del Genesi, dove si affermava che “In principio Dio creò il cielo e la terra”. No, l’evangelista non è d’accordo, in principio, prima ancora di creare il cielo e la terra, c’era questo Verbo, cioè questa parola creatrice, sapienza creatrice, una parola che ha un progetto e, prima ancora della creazione, questo progetto interpellava Dio.
E qual’era questo progetto?
Donare all’uomo la condizione divina.
Questo è il progetto di Dio sull’umanità, quindi possiamo definire il prologo l’inno d’amore di Dio per tutta l’umanità, l’inno dell’ottimismo di Dio. Dio è talmente innamorato degli uomini che, prima ancora di creare il mondo, aveva il progetto di dare agli uomini la sua stessa condizione, la condizione divina.
E per questo, proprio al centro del prologo, quindi il versetto più importante di tutta questa composizione, l’evangelista scrive che “Mentre questo progetto venne tra i suoi e i suoi non l’hanno accolto”, questo è un monito sempre presente per tutte le comunità, “A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio”.
Figli di Dio non si nasce, ma si diventa, accogliendo Gesù come progetto d’amore di Dio per la propria esistenza.
Questo fatto di poter diventare figli di Dio a chi accoglie Gesù, significa che Dio non assorbe quindi l’uomo, non lo distoglie o lo distrae dagli altri, è un Dio che potenzia l’uomo, gli comunica la sua stessa capacità d’amore perché con lui e come lui vada verso gli altri.
La novità portata da Gesù è che non si vive più per Dio, ma si vive di Dio.
Questo è il prologo di Giovanni, quindi un inno all’ottimismo di Dio sull’umanità e una proposta per ogni uomo di diventare figlio di Dio.
Figli di Dio non si nasce, ma si diventa, per una scelta continua e quotidiana dell’amore fedele come quello che il Padre ci comunica. ( Alberto Maggi )