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Maria Madre di Dio : La Madre di Dio e i pastori stanno al nostro cospetto come presenze che invitano a non smarrire e a non attenuare la memoria del dono di Dio
I versetti di Luca 2, 16-21 chiudono il brano in cui sono narrato la nascita di Gesù, lʼannuncio dellʼangelo ai pastori e la proclamazione della gioiosa notizia: oggi è nato nella città di Davide un Salvatore che è Cristo Signore (Lc 2, 12).
Allʼannuncio-ascolto segue lʼandare a vedere, il trovare, il riferire, il glorificare e il lodare Dio per tutto quello che avevano udito e veduto.
Viene prefigurata non solo la missione apostolica ma la natura costitutiva del cristiano e della Chiesa come porzione umana cui è dato di scoprire ed incontrare il Dio che salva.
Lʼaccoglienza non deve limitarsi a uno stupore superficiale, ma produrre frutto.
La parola udita e vista va conservata nel cuore e meditata.
Solo ai sapienti come Maria, capaci di memoria contemplativa, è dato di non sprecare briciola alcuna di quanto appreso su Gesù.
La Madre di Dio e i pastori stanno al nostro cospetto come presenze che invitano a non smarrire e a non attenuare la memoria del dono di Dio, la sola buona notizia che va raccontata in amicizia ad ogni uomo e ad ogni
donna. Senza arroganza, ma consapevoli che dalla che dalla sua accoglienza dipende il divenire o meno, in profondità, creature pacificate che arrecano pace. (Giancarlo Maria Bruni)
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Passati otto giorni dalla nascita, Giuseppe deve adempiere la Legge, innestando il figlio maschio nell’alleanza stabilita da Dio con Abramo e significata dalla circoncisione (cf. Gen 17,1-14). Così, attraverso quell’incisione nella carne, Gesù è costituito figlio di Abramo, ebreo per sempre. La circoncisione, se da un lato rende Gesù un appartenente al popolo santo, il popolo delle alleanze, delle promesse e delle benedizioni (cf. Rm 9,4-5), dall’altro afferma la semplice ma realissima umanità di quel Figlio di Dio, Messia, Salvatore e Signore.
Anche questo lo ha voluto Dio, perché l’incarnazione della sua Parola, di suo Figlio non era una finzione, non era una teofania, ma era veramente il realissimo abbassamento di Dio nella nostra condizione carnale e mortale, in un popolo preciso, che discende da Abramo, mediante la nascita da una donna (cf. Gal 4,4), come ogni figlio nasce da una madre.
Insieme alla circoncisione il bambino riceve il Nome Jeshu‘a, Gesù, che significa “il Signore salva”: è il Nome datogli dall’angelo (cf. Lc 1,31), dunque da Dio stesso, Nome che dice la vocazione e la missione di questo neonato che solo Dio ci poteva dare. Maria e Giuseppe ancora una volta obbediscono puntualmente, riconoscendo che quel figlio non appartiene a loro, ma a Dio che lo ha voluto e lo ha fatto nascere in mezzo a noi per essere l’Emmanuele, il Dio-con-noi (cf. Mt 1,23; Is 7,14), il Signore e Salvatore.
Oggi è anche l’inizio dell’anno secondo il calendario della società in cui viviamo.
Celebrare il 1° gennaio la festa in cui si proclama che Gesù è nato da donna, che appartiene al popolo di Israele e che ha nel proprio Nome la missione di portare la salvezza a tutta l’umanità, dice a tutti che Gesù può essere la presenza di un uomo che ha vissuto mostrandoci come possiamo vedere “salvata” la nostra vita, giorno dopo giorno. ( E. Bianchi )
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Lc 2,16-21; riunisce due sezioni. I pastori vanno e riscontrano che quanto è annunciato, è vero. Viene sottolineato l’aspetto umilmente umano del Figlio di Dio; però in questo nulla i pastori riconoscono il Figlio di Dio. E divengono talmente servi della Parola che annunciano non solo meraviglie ma comunicano lo stesso trasporto che li ha presi. Maria, percepisce e ne viene presa e custodisce queste cose e le riscontra nel suo cuore. Non basta che lo Spirito si posi su di noi ma occorre custodire lo Spirito e confrontarlo con la Scrittura che non fa altro che comunicarlo sempre più.
21. Gesù viene circonciso. Il nome è Gesù. La benedizione è comunicata dalla presenza di Gesù nel seno dell’umanità: Lui è la grande benedizione ed è il Nome posto sui figli di Dio.
Oggi celebriamo la Maternità di Maria. Questa maternità gloriosa, strumento di salvezza, non possiamo disgiungerla dall’Incarnazione dalla Circoncisione e dal Nome. Entrando in contatto con questa maternità, iniziamo a essere partecipi della benedizione in Gesù.»
«I vari elementi in parte richiamati ci chiarificano il mistero del nostro nascere in Lui in quanto Lui si fa presente: nasce, cresce raggiunge la sua pienezza in ciascuno di noi e in tutto il suo popolo perché noi possiamo essere per Lui e in Lui figli di Dio come Lui. Questa rinascita per la deificazione avviene nella misura in cui il Padre manda in ognuno di noi il Figlio e lo Spirito Santo. Manda la pienezza dell’essere di Gesù: carne, sangue, anima, Spirito. Tutto questo è legato alla comprensione del battesimo, che invera la circoncisione, cui Gesù si è assoggettato. Il mistero della sua natività, dell’adorazione dei pastori, di Maria, della circoncisione, del Nome è legato fin dal principio a un segno di sangue. Qual è il punto di vincente tra la devozione imperfetta con Maria e il vero rapporto con lei? È accettare che la rinascita avvenga attraverso il sangue. Maria più ci è madre e più siamo figli non può e non vuole dispensarci, da un rapporto di sangue. Questo non l’ha fatto con Gesù e, non può farlo con noi perché custodisce nel cuore tutto il disegno di Dio. Tanto più è intimo il rapporto con Dio, Maria non si frappone al disegno di Dio, ma ci aiuta a realizzarlo. Ci accompagna e ci ottiene lo spirito della fortezza per realizzare il disegno di Dio. A Maria dobbiamo chiedere che non ci eviti il martirio, ma che ci conforti a sostenerlo. Questo lo fa non solo nei confronti di ciascuno ma in rapporto alla Chiesa: non evita alla Chiesa il martirio ma ottiene alla Chiesa la Pentecoste dove lo Spirito ci è dato perché possiamo testimoniare il nome di Gesù. Maria assistendo gli Apostoli non ottiene che siano tolti dal martirio ma che siano segnati dal fuoco dello Spirito. Non ha evitato al Cristo la morte ma lo ha consolato con la sua presenza».
(d. G. Dossetti, appunti di omelia, 1.1.1972).
Santa Famiglia
A Natale abbiamo contemplato nel vangelo secondo Luca la nascita di Gesù a Betlemme, mentre la madre Maria e il padre secondo la Legge, Giuseppe, erano in viaggio a causa del censimento voluto dall’imperatore romano (cf. Lc 2,1-14). Oggi, prima domenica dopo Natale, la chiesa ci fa contemplare nel vangelo secondo Matteo la famiglia di Gesù, il suo essere nato in una genealogia di ebrei discendenti dal re e messia David (cf. Mt 1,1-17). Ognuno di noi nasce da una madre, è accolto da qualcuno, da una famiglia che lo nutre e lo fa crescere, e in questo modo viene al mondo. È stato così anche per Gesù.
Ma questa famiglia che storia aveva? Era una famiglia il cui padre era un artigiano, una famiglia povera ma non misera, ma alla nascita di quel figlio ecco emergere un grave pericolo per lui. Un decreto di Erode prescriveva l’uccisione dei bambini maschi, perché secondo i magi tra di loro era nato il Messia di Israele (cf. Mt 2,2.16-18).
Giuseppe allora fu avvertito in sogno da un angelo: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto”, e, sempre nel suo silenzio, subito obbedì e si ritirò in quella terra straniera. Furono anni di esilio, di stranierità, vissuti in mezzo a un popolo dalla lingua e dalla cultura diversa, dove questa famiglia conobbe lo statuto dell’emigrante: solitudine, diffidenza, difficoltà a vivere… Ma ecco, finito il pericolo per Gesù a causa della morte di Erode, di nuovo l’angelo disse a Giuseppe in sogno: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino”. E Giuseppe, sempre con prontezza, nel silenzio realizza la parola del Signore.
Si tratta dunque di una vicenda umanissima che rese la famiglia di Gesù perseguitata, migrante, straniera, ma nello stesso tempo comprendiamo come questa quotidiana e semplice vicenda fosse anche un adempimento della promessa di Dio e fosse un ricapitolare una storia che era stata quella di Abramo, di Israele e dei suoi figli, del popolo entrato in alleanza con il Dio vivente. Infatti Abramo era sceso in Egitto e dall’Egitto era risalito, Giacobbe e i suoi figli vi erano discesi in cerca di cibo e poi ne erano risaliti come popolo.
È il cammino della discesa e dell’esodo-salita, quello che Gesù compie con Maria e Giuseppe, sicché anche lui potrà considerarsi salvato, come il credente ebreo proclama la notte di Pasqua: “In ogni generazione ciascuno deve considerare se stesso come se proprio lui in quella notte fosse uscito dall’Egitto”. Ma possiamo anche scorgere un parallelo tra la storia di Gesù e quella di Mosè, anche lui minacciato di morte dal faraone (cf. Es 2,15), anche lui in fuga in terra straniera, anche lui tornato dall’esilio, su ordine del Signore, per adempiere la sua missione verso il popolo (cf. Es 4,19-20).
Storia quotidiana, ma agli occhi di chi ha fede anche storia di salvezza. Storia di una famiglia simile a tante storie delle nostre famiglie: condizioni di vita difficili, allevare e far crescere un figlio in condizioni precarie, mutare casa e luogo in cui vivere, e certamente le fatiche del vivere insieme di una coppia e di un figlio…
Ma in questa pagina dobbiamo mettere in evidenza la fede e l’obbedienza pronta di Giuseppe, così come a Natale avevamo meditato sulla fede e l’obbedienza di Maria. Giuseppe è l’uomo giusto (cf. Mt 1,19), che sa discernere la voce di Dio mentre dorme: non ha visioni né teofanie, ma soltanto una voce in sogno, un ordine, al quale obbedisce realizzando subito quelle parole. La sua giustizia viene sempre dalla sua obbedienza, che predispone tutto perché si possa adempiere nella storia la promessa di Dio.
Matteo lo dice alla fine del racconto, citando il profeta Osea: “Dall’Egitto ho chiamato mio figlio” (Os 11,1). Ovvero, come Dio ha chiamato suo figlio, il popolo di Israele, dall’Egitto verso la terra promessa, così ha chiamato suo Figlio Gesù il Messia dall’Egitto, perché potesse un giorno iniziare la sua missione pubblica nella sua terra, la terra dei suoi padri e del suo popolo, per il quale era stato inviato da Dio stesso. E così tutto inizierà da Nazaret, che gli darà anche il soprannome Nazareno. ( E. Bianchi )
Natale 2013: Contepliamo, meravigliati, un Dio che si fa povertà.
«Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce» (Is 9,1).
Questa profezia di Isaia non finisce mai di commuoverci, specialmente quando la ascoltiamo nella Liturgia della Notte di Natale. E non è solo un fatto emotivo, sentimentale; ci commuove perché dice la realtà profonda di ciò che siamo: siamo popolo in cammino, e intorno a noi – e anche dentro di noi – ci sono tenebre e luce.
E in questa notte, mentre lo spirito delle tenebre avvolge il mondo, si rinnova l’avvenimento che sempre ci stupisce e ci sorprende: il popolo in cammino vede una grande luce. Una luce che ci fa riflettere su questo mistero: mistero del camminare e del vedere.
Camminare. Questo verbo ci fa pensare al corso della storia, a quel lungo cammino che è la storia della salvezza, a cominciare da Abramo, nostro padre nella fede, che il Signore chiamò un giorno a partire, ad uscire dal suo paese per andare verso la terra che Lui gli avrebbe indicato. Da allora, la nostra identità di credenti è quella di gente pellegrina verso la terra promessa. Questa storia è sempre accompagnata dal Signore! Egli è sempre fedele al suo patto e alle sue promesse. «Dio è luce, e in lui non c’è tenebra alcuna» (1 Gv 1,5). Da parte del popolo, invece, si alternano momenti di luce e di tenebra, fedeltà e infedeltà, obbedienza e ribellione; momenti di popolo pellegrino e di popolo errante.
Anche nella nostra storia personale si alternano momenti luminosi e oscuri, luci e ombre.
Se amiamo Dio e i fratelli, camminiamo nella luce, ma se il nostro cuore si chiude, se prevalgono in noi l’orgoglio, la menzogna, la ricerca del proprio interesse, allora scendono le tenebre dentro di noi e intorno a noi. «Chi odia suo fratello – scrive l’apostolo Giovanni – è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi» (1 Gv 2,11).
In questa notte, come un fascio di luce chiarissima, risuona l’annuncio dell’Apostolo: «È apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini» (Tt 2,11). La grazia che è apparsa nel mondo è Gesù, nato dalla Vergine Maria, vero uomo e vero Dio. Egli è venuto nella nostra storia, ha condiviso il nostro cammino. È venuto per liberarci dalle tenebre e donarci la luce. In Lui è apparsa la grazia, la misericordia, la tenerezza del Padre: Gesù è l’Amore fattosi carne. Non è soltanto un maestro di sapienza, non è un ideale a cui tendiamo e dal quale sappiamo di essere inesorabilmente lontani, è il senso della vita e della storia che ha posto la sua tenda in mezzo a noi.
I pastori sono stati i primi a vedere questa “tenda”, a ricevere l’annuncio della nascita di Gesù. Sono stati i primi perché erano tra gli ultimi, gli emarginati. E sono stati i primi perché vegliavano nella notte, facendo la guardia al loro gregge. Con loro ci fermiamo davanti al Bambino, ci fermiamo in silenzio. Con loro ringraziamo il Signore di averci donato Gesù, e con loro lasciamo salire dal profondo del cuore la lode della sua fedeltà: Ti benediciamo, Signore Dio Altissimo, che ti sei abbassato per noi. Tu sei immenso, e ti sei fatto piccolo; sei ricco, e ti sei fatto povero; sei l’onnipotente, e ti sei fatto debole.
In questa Notte condividiamo la gioia del Vangelo: Dio ci ama, ci ama tanto che ha donato il suo Figlio come nostro fratello, come luce nelle nostre tenebre. Il Signore ci ripete: «Non temete» (Lc 2,10). E anch’io vi ripeto: Non temete! Il nostro Padre è paziente, ci ama, ci dona Gesù per guidarci nel cammino verso la terra promessa. Egli è la luce che rischiara le tenebre. Egli è la nostra pace. Amen. ( Papa Francesco )
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Significativamente nel martirologio odierno si legge: “Commemoratio Nativitatis Domini nostri Jesu Christi”. Natale è una memoria, anzi la memoria per eccellenza, perché ricorda la nascita di Gesù da Maria a Betlemme, una nascita che significa molto più della nascita di un bambino che viene nel mondo. Perché in verità noi possiamo proclamare che con quel parto Dio si è fatto uomo come noi, che la Parola di Dio si è fatta carne (cf. Gv 1,14), che Dio è diventato l’Immanu-El, il Dio-con-noi (cf. Mt 1,23; Is 7,14), solidale in tutto con noi, assumendo la nostra precarietà dal concepimento fino alla morte.
Questa è la buona notizia, il Vangelo che l’angelo annuncia come “grande gioia per tutto il popolo”. Questo è il cuore della nostra fede cristiana, una fede che non può entrare in concorrenza con le religioni e i loro dèi, perché ciò che proclama è l’inaudito: un Dio-uomo, carne mortale, un Dio che non si è limitato ad avere cura di noi ma ci ha amato fino a voler essere uno di noi, nella condivisione reale e radicale di ciò che noi siamo.
Ma sostando su questo evento siamo meravigliati anche dalla forma di questa venuta, dallo stile dell’incarnazione. Dio non è venuto tra di noi con la sua potenza, il suo splendore, la sua gloria, imponendosi al mondo; non è apparso in una teofania che avrebbe destato timore e tremore. No, Dio si è manifestato nell’umiltà, nella semplicità di una vicenda i cui soggetti sono uomini e donne poveri, che non emergono, senza grandi ruoli. Dio è venuto tra di noi “svuotandosi” delle sue prerogative divine, e possiamo dire che si è abbassato fino a prendere l’ultimo posto tra di noi, quel posto di schiavo che non gli sarà mai rubato (cf. Fil 2,5-8).
La forma e lo stile di questa venuta di Dio tra di noi erano inattesi, e anche per questo molti hanno inciampato e hanno trovato occasione di scandalo in Gesù. Non la logica mondana, neppure la logica dei profeti dell’Antico Testamento si intravedeva nella venuta messianica del Figlio di Dio. Potremmo dire che Natale manifesta un “Dio al contrario”, il quale non si rivela né con potenza né con splendore accecante, e un “Messia al contrario” che nasce tra poveri, come un povero, in una stalla, deposto in una mangiatoia.
Il cristianesimo è tutto qui, in questa contemplazione di un Dio fatto povertà, di un Eterno fatto mortale, di un Onnipotente fatto infante, di un tre volte Santo diventato terrestre, mortale. Insomma, uno di noi, uno tra di noi, uno con noi!
Nella pagina del vangelo proclamata nella notte di Natale è significativa la presenza dell’imperatore di Roma, Cesare Augusto: lui sì che comanda, che ha potere su tutta la terra, fino a ordinare il censimento. Ed è proprio questo censimento che consente a Giuseppe e a Maria di spostarsi da Nazaret di Galilea a Betlemme, e dunque consente la nascita del Messia nella città di David: in verità chi regge e disegna la storia è Dio, non Cesare Augusto…
È anche significativo che, avvenuta quella nascita, l’annuncio della gioia grande sia rivolto a pastori, cioè a poveri, e a poveri periferici, esclusi anche dalla vita religiosa del tempio. A loro è svelata la gloria di Dio in quella nascita, a loro è detto l’amore di Dio che porta la pace. E proprio questi poveri, ai quali è svelato il mistero, obbediscono e vanno a vedere ciò che si presenta umanissimo: una donna che ha partorito, un figlio appena nato, un padre che è il custode di quella nascita (cf. Lc 2,15-16).
Nella loro povertà i pastori hanno capito che quella non era una nascita qualunque, anche se la sua forma era quella che conoscevano. Per questo glorificano Dio e trasmettono l’annuncio della grande gioia che hanno ricevuto (cf. Lc 2,17.20).
Da quella notte non si può più dire Dio senza mettergli accanto la parola uomo, perché Gesù è il Dio-uomo, perché la nostra mortalità è entrata in Dio e la vita di Dio è entrata in noi. Natale è la nascita di Gesù ma è anche il “coniugamento”, le nozze tra Dio e l’umanità. ( E. Bianchi )
IV Domenica di Avvento: come Giuseppe lasciamoci sorprendere dall'INEDITO.
L’ultima domenica di Avvento preannuncia la memoria della nascita di Gesù il Messia attraverso il suo annuncio a Giuseppe (cf. Mt 1,18-24) , a Maria (cf. Lc 1,26-38) e a Elisabetta (cf. Lc 1,39-45).
Nel vangelo secondo Matteo questo annuncio dell’angelo a Giuseppe viene presentato come generazione, genesi, da una donna, Maria, promessa sposa a Giuseppe.
Era dunque iniziata una storia d’amore tra un giovane e una ragazza, c’era stata una promessa reciproca che sanciva la loro fiducia reciproca. Si sarebbero uniti in matrimonio e avrebbero accolto come un dono di Dio i figli.
Ma in questa donna, Maria, l’amore gratuito di Dio aveva incontrato attesa, fede, umiltà. Sì, questa donna per grazia, e solo perché riempita dalla grazia che è lo Spirito santo, poteva diventare madre di un figlio che solo Dio ci poteva dare: questo figlio di donna era anche suo Figlio, inviato nel mondo, Parola di Dio fatta uomo, fatta carne (cf. Gv 1,14) . Un Figlio così non poteva venire da volontà o da capacità umana.
Per narrare questa verità inenarrabile, ecco allora il racconto relativo a Giuseppe.
Il fidanzato di Maria è sorpreso dall’inedito: Maria è incinta senza che egli si sia unito a lei.
Secondo la Legge potrebbe denunciare Maria per tradimento della promessa nuziale (cf. Dt 22,23-24) , ma è un uomo buono e allora decide di ripudiarla in segreto, di non sposarla ma nemmeno di esporla alla pubblica vergogna e alla condanna.
E mentre egli è immerso in questa sofferenza, in questa ricerca di giustizia e di misericordia, Dio gli manda un messaggio, gli fornisce l’interpretazione della gravidanza di Maria.
Mentre dorme, l’angelo interprete gli sussurra, chiamandolo per nome: “Giuseppe, tu che sei figlio di David, che appartieni alla discendenza regale messianica, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino generato in lei viene dallo Spirito santo”.
Giuseppe era un artigiano, forse un falegname, di un piccolo villaggio della Galilea, ma è chiamato “figlio di David”, perché a questo titolo riceve ora una vocazione impensata: avrà un figlio ma non generato da lui, un figlio concepito da Maria ma generato dalla potenza di Dio, dal suo Spirito santo.
Aveva desiderato avere un figlio da Maria, ma ora, proprio perché deve essere padre secondo la Legge del Messia davidico, deve ricevere questo figlio non suo come dono di Dio.
Giuseppe rinuncia al figlio “secondo la carne” e riceve un figlio “secondo la promessa” (cf. Gal 4,23.28) . A questo bambino che nascerà da Maria egli dovrà dare il nome di Gesù, manifestandogli così la vocazione di Dio che lo chiama a essere salvezza del suo popolo.
La paternità di Giuseppe è una vera paternità umana: spetta a lui “far venire al mondo” questo piccolo che non è figlio della sua carne ma Figlio di Dio.
Risvegliatosi dal sonno, Giuseppe obbedisce in silenzio: nessuna sua parola è registrata nei vangeli, perché Giuseppe è il giusto che ascolta e obbedisce, realizzando puntualmente ciò che il Signore gli chiede.
Con questo racconto il vangelo cerca di narrarci il grande mistero dell’incarnazione e ci chiede di adorare, di accogliere, di credere e quindi di non temere mai.
Dio compie ciò che aveva promesso nei profeti, noi dobbiamo credere e negli eventi più quotidiani saper vedere i segni del suo amore fedele.
Anche nelle nostre vite a volte accade l’inedito, ciò che non avevamo previsto, ciò che può destabilizzarci, fino a farci mutare strada. Tutto allora può apparire un enigma; ma è proprio quella l’ora di metterci vigilanti in ascolto, come Giuseppe, e, sentita la voce di Dio, farle obbedienza. L’enigma diventerà un mistero.
Fr. Enzo Bianchi, Priore di Bose