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Vangelo Domeniche e Festività

III Domenica di Avvento – La notte di un credente che non vede come alle sue parole proferite in obbedienza a Dio seguano fatti, eventi coerenti con esse.

baptDomenica scorsa, se non ci fosse stata la coincidenza con la Festa dell’Immacolata Concezione, avremmo accolto le parole di Giovanni il Battista, che predicava la venuta vicinissima del regno di Dio, chiedeva la conversione e annunciava che alla sua sequela vi era uno più forte di lui, il Messia e il Giudice della fine dei tempi (cf. Mt 3,1-12): Gesù, che egli avrebbe battezzato indegnamente (cf. Mt 3,13-17)
Ma Matteo ci parla di Giovanni altre tre volte: quando è arrestato e Gesù inizia la sua evangelizzazione (cf. Mt 4,12-17); quando dalla prigione invia dei messaggeri a interrogare Gesù, il quale a sua volta parla di lui alle folle (cf. Mt 11,2-11, il vangelo odierno); infine viene narrato il suo martirio (cf. Mt 14,1-12).

Oggi ascoltiamo un Giovanni ben diverso da quello che era apparso nel vangelo quale predicatore e battezzatore delle folle numerose che accorrevano a lui. Giovanni è in prigione, solo, in balia della volontà del tetrarca Erode, nella fortezza di Macheronte a est del mar Morto.

È lontano dalla folla, ormai più nessuno sembra ricordarlo, eppure conosce la predicazione e le azioni di colui che aveva indicato come il Veniente, Gesù. La sua è un’ora di oscurità ed egli è assalito dai dubbi: si è forse sbagliato nel suo servizio profetico, nell’apprestare una voce al Signore in cui credeva?

Era tutta una sua personale costruzione l’annuncio del regno di Dio vicino e del Giudice ormai prossimo a instaurare la giustizia di Dio? Se Gesù è il Veniente – come Giovanni aveva predicato –, perché non lo libera dalle mani di Erode, perché i perversi trionfano e i giusti sono oppressi, senza che nessuno ne soffra?

È la notte di un credente che non vede come alle sue parole proferite in obbedienza a Dio seguano fatti, eventi coerenti con esse. Eppure le Scritture meditate e interpretate parlavano di un Figlio dell’uomo veniente nella gloria per giudicare e regnare (cf. Dn 7,13-14)

E invece Gesù si mostra molto differente, soprattutto nello stile: non vive nel deserto, non si ciba di radici e miele selvatico, ma con i suoi discepoli va ad alloggiare presso i peccatori, senza temere il contatto con gli impuri; va anche a pranzo dei farisei, che Giovanni aveva condannato con tanta indignazione.

Anche per il Battista Gesù appare un “Messia al contrario”, cioè un Messia depotenziato, povero, fragile, umile; non appare neanche come il Giudice escatologico perché, quando incontra quelli che sanno di essere peccatori, rimette loro i peccati. Ma anche in preda a questa esitazione, a questi dubbi, Giovanni resta un credente nella parola di Dio, e per questo lascia l’ultima parola a Gesù.

Manda alcuni suoi discepoli a interrogare colui che aveva battezzato e preannunciato, pronto a credere alle sue parole e a fargli obbedienza: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro Veniente da Dio? Sii tu a dirmelo, e alla tua parola io aderirò”. Ed ecco, in risposta, le parole di Gesù per Giovanni: “Andate a dirgli ciò che ascoltate e vedete: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi ascoltano, i morti risuscitano e ai poveri è annunciata la buona notizia”. Ecco l’azione e la parola del Veniente da Dio, di Gesù!

Non compie gesti come giustiziere, non agisce con potenza, non si impone e non mostra alcuna forza; no, la sua azione raggiunge i poveri, gli ultimi, quelli che soffrono e sono nel bisogno, e per tutti la sua presenza è una buona notizia. A Giovanni queste parole bastano: ora può andare verso la morte nella fede provata e faticosa, ma aderendo alle parole di Gesù.

Per questo Gesù proclama che Giovanni è ben più grande di un profeta, è il suo precursore, è colui che Dio ha inviato davanti a lui per preparargli la strada (cf. Es 23,20; Ml 3,1; Is 40,3). Giovanni è il più grande tra i nati di donna, ma Gesù, che si è fatto il più piccolo nel regno di Dio, è più grande di lui. Risuona ancora per noi l’ammonimento di Gesù: “Beato chi non si scandalizza di me”.

Sì, è difficile credere al “Messia al contrario”, credere nella necessità della croce per il Messia, credere al fallimento umano di chi è inviato da Dio. Giovanni ha conservato la fede fino alla fine, e noi come viviamo la nostra fede di fronte all’oscurità, alla croce?

Fr. Enzo Bianchi, Priore di Bose

Immacolata Concezione della B.V. Maria – Con Lei siamo chiamati a generare in noi Cristo per opera dello Spirito santo, ad essere dimora di Cristo.

www.ilconfronto.comCelebriamo oggi la festa che ricorda l’inizio della vita di colei che sarebbe diventata «la madre del Signore» (Lc 1,43).
Grazie alla sua disponibilità a obbedire senza indugio alla Parola di Dio, Maria predispone tutto il suo essere affinché possa compiersi nella storia l’incarnazione, l’umanizzazione di Dio in Gesù: e la venuta del Figlio di Dio nella carne è per noi pegno della sua venuta alla fine dei tempi.
Maria è figura di tutto il popolo dell’antica alleanza ormai gravido della grazia del Signore, fatto capace di generare il Messia promesso.
L’annuncio del profeta Sofonia: «Rallegrati, figlia di Sion … il Signore tuo Dio è nel tuo grembo» (Sof 3,14.17) si compie nell’annuncio dell’angelo a Maria: «Rallegrati, donna trasformata dalla grazia, il Signore è con te».
Questo saluto fa della vergine di Nazaret il segno di una realtà più ampia della sua persona: venuta alla luce nel contesto dei «poveri del Signore», dell’umile «resto di Israele» che confidava solo nel Signore (cf. Sof 3,12), grazie alla sua fede Maria diviene la manifestazione personale del popolo d’Israele, quella figlia di Sion che attendeva nelle sofferenze della storia il parto della sua speranza e della sua liberazione.
Ma il brano evangelico odierno, oltre a narrare l’annuncio della nascita del Messia Gesù rivolto a Maria, è anche il racconto della vocazione di Maria.
Ciò a cui questa ragazza di un’oscura borgata della Galilea è chiamata («concepirai un figlio, lo darai alla luce») è semplicemente impossibile a lei che è vergine e non ha relazioni con un uomo.
Nella sua vicenda essa è il segno manifesto e, insieme, paradossale del fatto che la chiamata di Dio esige la disponibilità ad aprirsi alla novità inaudita operata dalla potenza del suo Spirito; richiede la fiducia nel Dio cui «nulla è impossibile» (cf. Gen 18,14)…        
Ed ecco che, dopo il suo iniziale turbamento, Maria non teme di offrire a Dio la propria povertà e la propria piccolezza, pronunciando le straordinarie parole che fanno di lei la madre dei credenti: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me secondo la sua Parola».    
La Parola viva ed efficace (cf. Eb 4,12), compie prontamente ciò che annuncia; ha solo bisogno di un destinatario che le obbedisca puntualmente, lasciandosi trasformare da essa in una nuova creatura. Proprio in questo consiste la grandezza di Maria: essa accoglie risolutamente l’alleanza che Dio le offre e si dichiara pronta a rispondere con tutta la vita alla volontà del suo Signore, a vivere «a lode e gloria della sua grazia» (Ef 1,6).
Quale che sia la vocazione di ciascuno di noi, giunge per tutti l’ora dello sgomento, l’ora in cui la sequela pare impossibile. Ma ciò che è avvenuto a Maria ha valore paradigmatico per i credenti di ogni latitudine e di ogni tempo: «Non temere», «Il Signore è con te», sono le promesse che Maria si è sentita rivolgere e sono le parole in cui può dimorare il credente nella sua personale fatica di perseverare nella vocazione.
Ciò che infatti è fondamentale è celebrare la grazia di Dio rivelatasi definitivamente in Gesù Cristo e narrare la sua fedeltà, capace di sostenere anche la nostra.  
Sì, ogni cristiano è chiamato a generare in sé Cristo per opera dello Spirito santo, ad essere dimora di Cristo (cf. 2Cor 13,5), «tempio dello Spirito» (1Cor 6,19). Come Dio si è fatto carne in Maria così deve diventare presenza in noi: noi portiamo la nostra carne, il nostro essere a Dio affinché diventi la sua abitazione, e così possa essere benedizione per tutti gli uomini.

( Enzo Bianchi )

…Maria rappresenta la creatura che dinanzi a Dio si ricorda che niente è impossibile e dice: «Eccomi!».
Adamo si nasconde e dice: «Non ci sono».
Ecco l’alternativa.
Noi siamo nel peccato quando ci nascondiamo.
È la nostra grande astuzia.
Chi ha una qualche conoscenza della storia della fede è in grado di documentare questa deviazione. Perfino nella Chiesa, i simboli, le gerarchie, tutto serve a nascondersi a Dio.
Se uno, con occhio semplice, vedesse Dio rimarrebbe esterrefatto per tutte queste macchine simboliche che abbiamo costruito per attrarre la gente a Dio mentre Dio o è una parola semplice semplice, che sta prima dell’alfabeto, o non è più niente.
Ci nascondiamo a Dio proprio quando portiamo le bandiere di Dio.
Dire questo non vuol dire cadere in un pessimismo lugubre, vuol dire rendere onore a una verità che prepara quest’altra verità: noi vogliamo un altro rapporto con Dio, noi vogliamo un altro mondo. Noi vorremmo essere fratelli, ma vedete quante macchine ci sono tra di noi per impedirlo: l’economia, la politica, l’ideologia e perfino la religione.
Tutto fa in modo che noi troviamo la nostra verità nel rapporto antagonistico con l’altro.
Questo è quello che ci hanno insegnato.
Vorremmo un mondo diverso ma la nostra speranza ha quasi paura ad esprimersi e perciò, come dice Giobbe, ritorna in noi stessi e si riposa nel nostro seno, non ha ali per volare. Essere puri come Maria questo vuol dire: «sia fatto di me secondo la tua parola».
Abbandonarsi a questo rapporto con Dio vuol dire ritrovare il senso di tutte le cose, entrare veramente nel cuore del mondo.
Insomma, tutto quello che la fede devota ha detto di Maria dovremmo ricodificarlo in questo linguaggio nuovo liberandoci da una cultura vecchia (anche quella cristiana è diventata una cultura codificata) per ritrovare la fluidità vitale degli antichi messaggi.
Comprenderemmo meglio, allora, perché il mondo è pieno di peccato: non perché ci sono il film sporchi, le riviste pornografiche… ma perché tutta la geometria dell’insieme è deviata.
La Parola che ci svela il peccato è la stessa Parola che benedice la nostra speranza di un mondo diverso, che non è impossibile, è possibile, perché niente è impossibile presso il Dio nascosto e presso l’uomo nascosto.
Quando la fede sveglia in noi il sentimento che l’impossibile si capovolge nel possibile, diventa una forza che cambia il mondo.

 Ernesto Balducci – da: “Gli ultimi tempi” vol. 1 – anno A

 

I Domenica di Avvento: restiamo svegli in attesa del Veniente.

1 avvInizia un nuovo anno liturgico, inizia dunque il tempo dell’Avvento, tempo della Venuta (Adventus) del Signore nostro Gesù Cristo.
Noi professiamo la nostra fede dicendo: “Verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti e il suo Regno non avrà fine”.
Ecco, il tempo dell’Avvento è soprattutto l’attesa di questo evento, attesa che sempre abita il cuore del cristiano ma che in queste settimane si fa più ardente, più orante.
“Vieni, Signore Gesù, vieni presto!” (cf. Ap 22,17.20), è il grido della chiesa. E il vangelo della prima domenica di Avvento ci dona la promessa di questa venuta, di questo evento.
Gesù è a Gerusalemme e, interrogato dai discepoli circa la meravigliosa costruzione del tempio, ha già parlato della sua distruzione ma anche delle persecuzioni che si abbatteranno sui cristiani prima che egli venga nella gloria (cf. Mt 24,1-36). Ora parla proprio del compiersi della fine del mondo e dell’inizio del Regno di Dio.
Tutto accadrà come ai tempi di Noè, quando gli uomini, come sempre nella storia, pensavano e agivano per mangiare e bere, lavorare e accoppiarsi.
Gesù non denuncia un’immoralità da parte dell’umanità dei tempi di Noè, non dice che questi uomini e queste donne operassero il male: denuncia solo il fatto che non si interrogavano, non si preoccupavano di ciò che è essenziale, vivevano anestetizzati e quindi come addormentati dall’inseguimento del benessere e della felicità individuale. Ma su di loro si abbattè improvviso il diluvio…
Così avverrà anche la venuta del Figlio dell’uomo: sarà un evento improvviso, inatteso dagli uomini, inconsapevoli che può avverarsi il decreto di Dio, decreto estrinseco al cosmo stesso, che mette fine a questo mondo.
Questa venuta attraverserà le relazioni quotidiane e distinguerà gli esseri umani: alcuni saranno presi, dunque accederanno alla salvezza; altri saranno lasciati al loro cammino di perdizione.
L’invito di Gesù ai discepoli è dunque: “Vegliate!”, perché nessuno sa l’ora della venuta del Signore, il giudice misericordioso. Soprattutto noi cristiani, avvertiti dalla promessa di Gesù, dovremmo vegliare, restare vigilanti, esercitarci alla consapevolezza che non possiamo rimandare la venuta del Signore e la fine del mondo a un tempo che non ci tocca. Anche perché per ciascuno di noi il Signore viene ogni giorno e verrà con la nostra morte per accoglierci nel suo Regno. ( E. Bianchi )
 
Vigilare significa anzitutto vegliare, stare desti, rimanere all’erta. L’immagine più immediata è quella di chi non si lascia sorprendere dal sonno quando il pericolo incombe o un fatto straordinario ed emozionante sta per accadere. Vigilare significa badare con amore a qualcuno, custodire con ogni cura qualche cosa di molto prezioso, farsi presidio di valori importanti che sono delicati e fragili.
  Vigilare impegna comunque a fare attenzione, a diventare perspicaci, a essere svegli nel capire ciò che accade, acuti nell’intuire la direzione degli eventi preparati a fronteggiare l’emergenza.
Rimanere svegli, essere attenti avere cura, vegliare dunque:
veglia la sposa che attende lo sposo,
la madre che attende il figlio lontano
, la sentinella che scruta nel cuore della notte;
veglia l’infermiere accanto al malato,
il monaco nella preghiera notturna;
vegliano gli uomini e le donne che sono pronti a raccogliere i segnali di aiuto dei loro amici nel pericolo, dei loro fratelli nel dolore, del loro prossimo nella difficoltà;
veglia la comunità dei credenti che è rapida nel reagire alla tiepidezza e alla stanchezza che l’allontanano dall’amore degli inizi.
Veglia una società civile che coglie prontamente i segni del proprio degrado, che si erge contro la corruzione dilagante, che contrasta la disaffezione nei confronti del bene comune, che non si rassegna alla deriva delle sue istituzioni pubbliche e alla casualità dei suoi ritmi vitali, che poi significano sempre il trionfo dei prepotenti e dei furbi.
Vigilare è la capacità di ritornare a prendersi il tempo necessario per aver cura della qualità non puramente clinica e commerciale della vita.
Il tempo per imparare a riconoscere il significato delle nostre emozioni impulsi, tensioni per non rimuoverle troppo in fretta anestetizzando l’eventuale disagio che ci procurano, e rendendo così sterile la profondità dell’esperienza nella quale esse potrebbero introdurci.
L’abitudine al consumo superficiale dei sentimenti ci rende fragili; assegnare all’occasionale immediatezza delle emozioni un ruolo decisivo per la nostra identificazione e la nostra condotta (“io adesso mi sento così, faccio così decido così”) ci espone al grave rischio di conferire alla pressione delle circostanze un potere assoluto sul nostro destino.
Se non siamo vigili, saranno i nostri riflessi condizionati, e non il nostro io, a decidere per noi.
Compito incongruo con la dignità dell’uomo e curiosamente contraddittorio nei confronti della gelosa difesa della libertà individuale, che segna irrevocabilmente la nostra cultura. ( C. M. Martini )
 
 

Gesù Cristo Re dell'Universo – Il trono di questa regalità è la coscienza dell'uomo che crede in una umanità fraterna .

Cristo ReNell’ultima domenica dell’anno liturgico celebriamo la festa di Gesù Cristo re dell’universo: ma qual è la vera regalità di Gesù?
Quella di chi ama, perdona, cerca la comunione con gli uomini suoi fratelli fino alla fine.
È la regalità di un Messia che «regna dal legno», come amavano dire i padri della chiesa: solo sulla croce, infatti, viene posta sul suo capo l’iscrizione: «Questi è il re dei Giudei».
Gesù è appena stato ingiustamente crocifisso: lui, il Giusto (cf. Lc 23,47) – «colpevole» di aver narrato con la sua vita il volto di un Dio che è il Padre prodigo d’amore verso i peccatori (cf. Lc 15,11-32) e di aver reso Dio buona notizia per tutti gli uomini – è appeso a una croce in mezzo a due malfattori.
Eppure, in questa situazione così ignominiosa Gesù non minaccia, non risponde con l’odio all’odio che gli viene scaricato addosso, ma ha la forza di pronunciare una parola inaudita: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno»…
Ma nemmeno questo suo gesto estremo e unilaterale, nemmeno questo suo modo scandaloso di mostrare come Dio regna su di lui vengono compresi. Se è vero che il popolo «contempla» Gesù in croce – questa è infatti l’unica autentica contemplazione cristiana (cf. Lc 23,48)! –, «lo scandalo della croce» (Gal 5,11) suscita però ulteriore derisione e disprezzo: i capi religiosi di Israele e i romani scherniscono Gesù. Di più, essi lo provocano, mettendo in discussione la sua stessa vocazione: «Se tu sei il re dei Giudei, il Messia di Dio, salva te stesso scendendo dalla croce!». Gesù è tentato come lo era stato all’inizio del suo ministero pubblico per opera di Satana: «Se tu sei il Figlio di Dio…» (Lc 4,3.9).
 Ma ancora una volta Gesù rinuncia a vivere per se stesso, a chiedere a Dio di intervenire con il miracolo straordinario che costringerebbe gli uomini a seguirlo come un potente di questo mondo. Egli accetta di perdere la propria vita, sceglie di compiere fedelmente la volontà di Dio, continuando a comportarsi fino alla morte in obbedienza a Dio: non che il Padre volesse vederlo patire sulla croce, ma Gesù comprende che l’obbedienza alla volontà di Dio, volontà che chiede di vivere l’amore fino all’estremo, esige una vita di giustizia e di amore anche a costo della morte violenta. Sì, Gesù rinuncia a salvare se stesso, ed è solo grazie a questo suo comportamento che egli ha l’autorevolezza per affermare: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per me, la salverà» (Lc 9,24)…
Anche uno dei due malfattori insulta Gesù, vedendo frustrate le proprie pretese: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!». L’altro invece, il cosiddetto «buon ladrone», mostra di aver compreso quale sia la signoria di Gesù: opera la correzione fraterna, rimproverando l’altro condannato; ammette il male che ha commesso e ne accetta le conseguenze; riconosce l’innocenza di Gesù e si rivolge a lui con la preghiera, confessandone la regalità escatologica: «Gesù, ricordati di me, quando verrai nel tuo Regno». Egli è l’immagine dei credenti e della chiesa che, nella storia, sono chiamati a testimoniare la regalità di Cristo condividendo le sofferenze del Crocifisso, invocando la venuta del Regno, e attendendo il Veniente nella gloria.
A lui Gesù rivolge la parola che tutti noi vorremmo sentire nel nostro ultimo giorno: «Oggi sarai con me nel paradiso». Sì, questa è una promessa riservata a tutta l’umanità, anche ai malvagi e ai peccatori: dipende da ciascuno di noi accoglierla, accettando di perdere la nostra vita per Gesù Cristo, il Messia che regna dalla croce, cioè di amare lui al di sopra di ogni nostro amore e di spendere la nostra vita per i fratelli nella giustizia e nell’amore.

E.Bianchi

La regalità di Gesù Cristo, liberata da tutti i miti e da tutte le corone di Costantiniana fattura è il trionfo della pace, è il trionfo della fraternità nel consenso.
In questa luce, che certo è futura ma splende già dentro come guida delle coscienze, trovano senso differenziato la violenza del potere che crocifigge il Giusto e la violenza di chi si ribella a questo potere, purché resti fermo che il senso ultimo di questa drammatica vicenda è manifestato in questo mistero del1’uomo Gesù Cristo che ha creduto nell’ amore fino al dono di Se stesso.
Egli ha perso, certo, ma i cristiani sanno che ha vinto perché questa vittoria non è rimasta un verdetto morale delle coscienze nobili di tutti i secoli: questa vittoria è stata affidata alla sfida del Padre che è nei cieli.
Quel crocifisso Egli lo ha costituito Signore.
Signore dove? In quale trono? In nessun trono!
Il trono di questa regalità è la coscienza dell’uomo che crede in una umanità fraterna e per questa fede dà se stesso.
 Ovunque sia, di qualunque religione sia, il motivo vero di quel gesto, di quel progetto è questo: il trionfo dell’unica signoria che non fa torto a nessuno perché il vero nome di Gesù Cristo è ‘figlio del1’uomo’.
Non è un nome di parte, è il nome della totalità, perché tutte le cose sono state create In Lui e per Lui.

Ernesto Balducci – da: “Il Vangelo della pace” – vol.3

Il regno di Gesù non ha caratteristiche religiose,
 Chi sono i cittadini di questo regno?
Tutti coloro che vengono dalla verità.
Noi li vediamo ogni tanto, ma solo Dio li vede tutti. Non ne possiamo fare l’anagrafe.
Quando si conta, si sbaglia, perché contare vuoi dire obbedire ad una esigenza quantitativa, mentre la nostra esigenza è qualitativa.   …  Abitare in questo regno vuol dire vivere in comunione con tutti i nostri concittadini, che sono quelli che, invece, non hanno molta possibilità di essere accolti nel regno terreno, di cui sono cittadini in senso anagrafico e pubblico: i vecchi, i malati, i bambini, gli inermi, gli handicappati…
È una compagnia non molto efficiente, ma l’efficienza è criterio del regno di questo mondo. il regno di Gesù dà testimonianza non di questo mondo. La sua diversità prende corpo e trova il suo luogo di sintesi storica e di riferimento operativo nella pace. Questa è la pace. Una pace che pesi sulle spalle di qualcuno non è una pace, … .
La pace implica tante cose. …. . C’è da temere sia quanto i titolari del potere si litigano sia quando si danno la mano. Non per nulla Gesù fu crocifisso quando Pilato ed Erode fecero la pace su di Lui, sulle sue spalle…..
Se ci diamo le mani con la rivoltella in tasca e ci rispettiamo perché sappiamo di avere lo stesso numero di pallottole, le parole più pure cadono in un contesto terribile.
Questo è il peccato.
E la condizione che è nostro compito modificare, con pazienza di secoli magari. La cittadinanza da cui siamo consolati è un’altra, quella del regno che non avrà mai fine per secoli eterni. Gli altri passano, cambiano titolari e finiranno, ma questo regno, di cui ho parlato sulla falsariga della indicazione evangelica, è eterno ed è diffuso fra tutte le genti.

(Ernesto Balducci da “Il Vangelo della pace” vol 2- anno B)

 

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