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Vangelo Domeniche e Festività

XXX domenica del T.O. – Consegnarsi interamente alla misericordia di Dio, non avendo niente da presentare che meriti il perdono.

fariseo e pubblicano rrLuca ha preso la parabola dalla tradizione propria, inquadrandola in una introduzione ( v 9 ) e una conclusione ( v. 14 b) redazionali, reinterpretandola così per i suoi lettori.
   In origine non si tratta di un insegnamento sulla preghiera; l’immagine di due uomini fotografati mentre pregano è soltanto il modo di coglierli nell’occasione più significativa per dire qualcosa a Dio, sul suo amore per gli emarginati, e nello stesso tempo criticare una pietà sbagliata.
         Luca invece da un orientamento parenetico al racconto, ponendo al centro dell’interesse il comportamento morale di questi due uomini ….  (Gérard Rossé: Il vangelo di Luca: commento esegetico teologico)
 L’evangelista scrive che Gesù disse questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti dove giusti significa “a posto con Dio” – e disprezzavano gli altri.
 E presenta gli antipodi della società di Israele, il Santo per eccellenza, il Fariseo, la persona che, come dice il nome (fariseo significa separato), si separa dagli altri attraverso la pratica religiosa, le osservanze, addirittura maniacali, e la persona ritenuta la più impura, la più distante da Dio, il pubblicano, un individuo che, anche se volesse, non può più cambiare quel mestiere che lo rende impuro. ( A. Maggi )
 Il fariseo innalza una preghiera di ringraziamento a Dio.
Nella prima parte ( v. 11b) mette in luce la sua impeccabilità nei confronti del decalogo: egli non ha trasgredito la legge. …
La preghiera del fariseo, nonostante le apparenze, è ben ambientata, e non ha dunque nulla di riprovevole, neppure quando aggiunge “ come questo pubblicano” dal quale prende giustamente le distanze…
  Il fariseo sa anche che questa sua vita così impeccabile, di cui può essere fiero, è un dono di Dio; per questo egli lo ringrazia.
         Nella seconda parte della preghiera, il fariseo elenca le sue prestazioni.
Non solo osserva i comandamenti della legge, ma fa di più di quanto la legge prescrive. Egli nomina due opere meritorie che corrispondono alla pratica farisaica del tempo di Gesù:
–         Digiuna due volte la settimana. Oltre al digiuno pubblico obbligatorio, il giorno dell’Espiazione ( Lv 16,29-31; Nm 29,7)  a qualche digiuno pubblico occasionale ( cf Ne 9,1) ; ai digiuni privati, esisteva anche un digiuno volontario regolato, per i giorni di lunedì e di giovedì. Questa pratica serviva a colmare eventuali omissioni e trasgressioni involontarie del fariseo, ed era anche intesa come espiazione per il popolo.
 –        La decima era richiesta al contadino su frumento, olio e vino, e sul primogenito del bestiame ( Dt 12,17; 14,22-29) . Nell’incertezza che il contadino abbia assolto a questo dovere, il fariseo paga la decima sui prodotti in questione, o più in generale, su tutti i prodotti della terra che compra al mercato ( Mt 23,23) , o addirittura paga la decima su tutto quanto acquista, come lascia intendere l’affermazione del v, 12b.
       Anche in questa enumerazione il fariseo non esagera, ma dice la verità.
La descrizione presenta dunque un condensato di osservanze e di prestazioni che permette all’ascoltatore della parabola di porre il fariseo nella definizione del “pio” o “ devoto”.
 Il pubblicano stava a “distanza”: inutile localizzare la sua posizione del tempio; è il posto che compete a chi è lontano da Dio.
  Due gesti dicono la sua condizione di grande peccatore:
    Non voleva, cioè non osava alzare gli occhi al cielo: atteggiamento spesso, ma non necessariamente ( cf 1 En 13,5) messo in relazione col pregare ( Mc 6, 41; Gv 11,41; 17,1) ; nel pubblicano, denota un o stato di vergogna, di confusione;
     Si batteva il petto , sia in segno di pentimento, sia come gesto di disperazione.
   La preghiera del pubblicano è molto concisa e ricorda l’inizio di Sal 51,1; egli si consegna interamente alla misericordia di Dio, non avendo niente da presentare che meriti il perdono.
   Il ritratto del pubblicano fatto da Gesù corrisponde all’opinione che il giudeo ha di Lui: un peccatore, non un uomo ingiustamente giudicato dalla società, un santo misconosciuto , anche se l’evangelista vi leggerà poi l’atteggiamento di un individuo particolarmente umile.
   Il pubblicano sa di essere  interamente  peccatore; non si dà neppure la pena di enumerare – in un parallelismo  antitetico con il fariseo – l’elenco dei suoi peccati.
Non ha altra scelta che riconoscersi tale e implorare la misericordia divina, l’unica cosa che può chiedere, non avendo nulla di buono da offrire a Dio, neanche la sua conversione, (perché, secondo l’opinione comune, essa aveva valore e poteva suscitare il perdono dopo una lunga preparazione; nel caso del pubblicano egli avrebbe dovuto abbandonare il suo mestiere e restituire al 120 per cento tutto ciò che aveva disonestamente acquisito. )
     Se non si fosse trattato di caricatura gli ascoltatori di Gesù non avrebbero avuto difficoltà a riconoscere nella descrizione del fariseo il tipo di uomo giusto davanti a Dio, un modello da ammirare; e un quella del pubblicano un peccatore senza scampo.
   Con un solenne “ vi dico” Gesù afferma di conoscere e di proclamare il giudizio di Dio: “ vi dico questi discese giustificato e non l’altro”.
    La risposta di Gesù doveva apparire sconcertante e scandalosa.

Il pubblicano che si riconosce  peccatore è proclamato gradito a Dio ( senza dover fare penitenza … ) ( Gérard Rossé: Il vangelo di Luca: commento esegetico teologico)

 Quella che Gesù ha presentato è una novità che forse ancora non riusciamo a comprendere ma che ci deve spingere a questo imperativo: Il Signore non ci chiede di essere santi, perché la santità separa dagli altri, forse avvicinerà a Dio, ma inevitabilmente allontana dal resto della gente (la santità intesa come osservanza di regole, di pratiche religiose).
Gesù ci chiede di essere la carezza compassionevole del Padre per ogni creatura; non amare l’altro per i suoi meriti, ma per i suoi bisogni. ( A. Maggi )
Sì, l’autentico incontro con Dio e con Gesù Cristo coincide … con la scoperta dell’abissale distanza che lo separa dal Signore.
Ecco perché la preghiera: «O Dio, abbi pietà di me peccatore» è quella che meglio esprime la nostra condizione: siamo chiamati a riconoscere le nostre cadute e ad accettare che Dio le ricopra con la sua inesauribile misericordia, l’unica cosa veramente necessaria nella nostra vita…   (E. Bianchi)

XXIX Domenica del T.O. – la vedova ostinata diventa vedova orante, e quindi modello di comportamento per il credente, esempio incrollabile dell’intervento divino che farà giustizia.

vedova e il giudiceLa parabola del giudice e della vedova presenta il comportamento:    
* di un giudice iniquo che non teme Dio né il prossimo, ma che finisce per fare giustizia alla vedova;
 *  della vedova in questione, esempio tipico della gente povera e indifesa, che riesce ad averla vinta a forza di insistere.
 Il tema del diritto leso del povero da parte di giudici ingiusti appartiene al repertorio delle denunce profetiche ( Am 5; 12; Is 10,1-2; Ger 5, 20 etc..).
  La parabola mette quindi in scena un caso classico per invitare alla preghiera incessante, tema molto vicino all’applicazione della parabola dell’amico importuno ( Lc 11,5-8) , al punto che c’è chi parla di parabole gemelle.
   Il racconto proviene dalla tradizione propria; luca l’ha inquadrato con una introduzione ( v. 1) che manifesta come l’evangelista vuole che il lettore capisca la parabola , e con una finale ( v. 8b) che menziona il  Figlio dell’uomo e aggancia così la parabola al “ discorso escatologico” precedente …
La parabola serve da conclusione alla “ piccola apocalisse” ( lo conferma la scelta di una scena di giudizio): è del tutto normale che l’evangelista voglia concludere il discorso della venuta del Figlio dell’uomo con un appello alla preghiera e quindi con un richiamo alla vigilanza.
    Nello stesso tempo, Luca ha unito il nostro racconto alla parabola successiva del fariseo e del pubblicano ( vv 9-14) : le due parabole formano insieme un piccolo catechismo sulla preghiera: la necessità della preghiera incessante ( vv 1-8) e  un insegnamento sul modo di pregare bene ( vv 8-14) ( Gérard Rossé: Il vangelo di Luca: commento esegetico teologico )
 Credete, o fratelli, che Dio non sappia di che abbiamo bisogno?
Conosce e prevede i nostri desideri, lui che conosce bene la nostra povertà.
Perciò, quando insegnò a pregare, disse anche ai discepoli di non essere verbosi nelle loro preghiere: “Non dite molte parole; il Padre vostro sa già di che avete bisogno, prima che glielo chiediate” (Mt 6,7). Ma se il Padre nostro sa di che abbiamo bisogno già prima che glielo chiediamo, che bisogno c`è di chiederglielo, sia pur brevemente? Che motivo c`è per la stessa preghiera, se il Padre sa di che abbiamo bisogno?
Par che dica: Non chiedere a lungo; so già che cosa ti serve. Ma, Signore mio, se lo sai, perché dovrei chiederlo? Tu non vuoi ch`io faccia una lunga preghiera. Ma, mentre in un luogo si dice: “Quando pregate, non usate molte parole” (Mt 6,7), in un altro si dice: “Chiedete e vi sarà dato” (Mt 7,7), e perché non si pensi che sia una frase detta casualmente, viene anche aggiunto: Cercate e troverete (ibid.).
E poi ancora, perché si capisca che la cosa è detta di proposito, dice a modo di conclusione: “Bussate e vi sarà aperto (ibid.). Vuole, dunque, che tu chieda, perché possa ricevere; che cerchi, per trovare; che bussi, per entrare.
Ma se il Padre sa già di che abbiamo bisogno, perché chiedere perché cercare, perché bussare? Perché affaticarci a chiedere, a cercare, a bussare? Per istruire colui che sa tutto? In altro luogo troviamo le parole del Signore: “Bisogna pregare sempre, senza venir mai meno” (Lc 18,1).
Ma se bisogna pregare sempre, perché dice di non usar molte parole nella preghiera? Come faccio a pregar sempre, se devo finir presto? Da una parte mi si dice di pregar sempre, senza venir mai meno, e dall`altra di essere breve. Che cosa è questo? E per capire questo, chiedi, cerca, bussa.
E` astruso, ma per allenarti. Dunque, fratelli, dobbiamo esortare alla preghiera noi e voi. In questo mondo, infatti, non abbiamo altra speranza che nel bussare con la preghiera tenendo per certo che, se il Padre non dà qualche cosa, è perché sa che non è bene. Tu sai che cosa desideri, ma lui sa che cosa ti giova. Pensa di essere malato – e siamo malati, perché la nostra vita è tutta una malattia e una lunga vita non è che una lunga malattia. Immagina, allora, che vai dal medico.
Ti vien di chiedere che ti faccia bere del vino. Non t`è proibito di chiederlo, purché non ti faccia male. Non esitare a chiedere, non indugiare; ma se te lo nega, non ti scomporre. Se è cosí col medico della tua carne, quanto piú con Dio, Medico, Creatore e Redentore della carne e anima tua?       (Agostino, Sermo 80, 2)
 
Con il versetto introduttivo, l’evangelista vuole presentare la parabola come “ l’applicazione parenetica  del discorso escatologico “: è necessario pregare sempre e senza stancarsi.
La formulazione ricorda le raccomandazioni di Paolo ( 1 Ts 5,17) che sono entrate a far parte delle esortazioni tradizionali della Chiesa.
 Il versetto conclusivo ( v. 8b)  permette di cogliere in quale prospettiva Luca insite sulla preghiera: essa è necessaria nel tempo che precede la venuta del Figlio dell’uomo per non perdere la fede.
La preghiera è quindi vista non come un pio esercizio, ma come l’atteggiamento fondamentale del credente nel tempo prima della Parusia ( J Ernst, op.cit., p. 493); Luca sembra far coincidere la preghiera con la vita e l’essere del cristiano; essa costituisce  il contenuto dell’attesa escatologica, atteggiamento attuale della vigilanza che deve improntare il presente dell’esistenza. Beninteso, Luca non esorta a pregare ininterrottamente, ma ad una esistenza che non dimentichi mai la preghiera.
 Mediante questa introduzione, l’evangelista dà l’orientamento parenetico alla parabola stessa: la vedova ostinata diventa vedova orante, e quindi modello di comportamento per il credente, esempio incrollabile dell’intervento divino che farà giustizia.
 Segue la presentazione degli attori:
il giudice …. corrisponde al tipo dell’oppressore nel campo della giustizia sociale …e una vedova, persona debole, senza protezione ….la situazione della vedova simboleggia quella degli “ eletti”, della comunità in preda a alle tribolazioni che caratterizzano la fine dei tempi.
La comunità implora e grida senza stancarsi l’intervento prossimo di Dio, la venuta tanto desiderata del “ giorno del Figlio dell’uomo”
Di certo “ Dio farà giustizia”, egli libererà i suoi dalle tribolazioni che l’evangelista vede concretizzate nelle persecuzioni del suo tempo.
 Si riflette una situazione nella quale la Chiesa sperimenta il ritardo della Parusia ma rimane convinta della sua imminente venuta. …. L’intervento di Dio non solo è sicuro ma accadrà prontamente, in contrasto con il tergiversare del giudice della parabola. Dio farà giustizia entro poco: è una promessa fatta ai credenti, più che una minaccia contro gli oppressori.
   L’insieme termina con una domanda dove appare, inatteso, il motivo del “ Figlio dell’uomo” e della “ fede”; si tratta di una riflessione finale fatta dal redattore.
 Introducendo il titolo “ Figlio dell’uomo” al posto di Dio, Luca riaggancia la parabola alla “ piccola apocalisse” di Lc 17,22-37; e col tema della fede, si ricollega a quello della preghiera incessante che introduce la parabola…
  La preghiera mantiene il credente nella “ fede”, attento al futuro di Dio.
 Il termine “ fede” usato all’assoluto e con l’articolo, non si riferisce di conseguenza alla fede compresa come un corpo dottrinale, ma alla fede come esistenza del cristiano vissuta nella vigilanza e nella fedeltà: fedeltà al vangelo ( amore) e nelle prove ( persecuzioni, pericolo della ricchezza, minaccia di false dottrine)
  Con la riflessione del versetto 8b Luca mette per così dire un freno a un’attesa tutta concentrata sulla venuta nella Parusia: il problema non è se l’intervento divino avverrà presto, ma se il credente sarà pronto.
 La domanda conclusiva dell’evangelista rimane senza risposta: non è tuttavia una riflessione pessimista sul futuro della Chiesa, ma una conclusione che da alla parabola il tono di alla vigilanza e alla perseveranza. Importa essere pronti quando il Figlio dell’uomo verrà. ( Gérard Rossé: Il vangelo di Luca: commento esegetico teologico )
 

XXVIII Domenica del T.O. – Il lebbroso guarito che ritorna è il simbolo della creatura che Gesù predilige perché appartiene alla grande schiera delle beatitudini..

Gesù incontra i lebbrosiNella sua salita a Gerusalemme Gesù attraversa la Samaria e la Galilea, e mentre passa in un villaggio gli vengono incontro dieci persone affette da lebbra. ( E. Bianchi )
Quando nei vangeli appare il termine “villaggio”, si intende sempre ostilità, incomprensione o rifiuto del messaggio di Gesù.  Perchè il villaggio è il luogo ancorato alla tradizione, il luogo sottomesso alla città. … il luogo della tradizione ad oltranza e l’incomprensione o il rifiuto del messaggio di Gesù.  …
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi
Non è possibile. I lebbrosi non potevano stare in un villaggio. I lebbrosi, in quanto infetti, causa di infezione, dovevano stare fuori dal villaggio.
Come mai qui l’evangelista ci dice che questi lebbrosi stanno dentro al villaggio?
L’evangelista, al di là del racconto storico, ci vuole dare indicazioni preziose: quanti vivono all’interno della tradizione, quanti vivono sottomessi alla religione tradizionale, sono come i lebbrosi, cioè sono impuri. Non hanno nessuna possibilità di contatto con Dio. Questi sono lebbrosi proprio perché stanno dentro al villaggio.
E qui l’atteggiamento di questi lebbrosi è abbastanza strano. Si fermarono a distanza.
Da una parte l’evangelista ha detto che gli vennero incontro, e dall’altra si fermano a distanza.
 Da una parte trasgrediscono alla legge che impediva ad un lebbroso di avvicinarsi alle persone, ma dall’altra la osservano.
Attraverso l’immagine di questi lebbrosi l’evangelista vuol far vedere il difficile cammino dei discepoli, che sono affascinati dalla parola di Gesù, dalla libertà che il suo messaggio comporta, ma sono ancora schiavi della tradizione religiosa che hanno nel sangue.
 Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti»
Gesù non li guarisce,… li invita ad uscire dal villaggio …ad abbandonare il luogo della tradizione, della tradizione religiosa, dove vige l’imperativo, questa sì che è l’autentica lebbra che impedisce agli uomini il rapporto con Dio. Si è sempre fatto così, perché cambiare? ( A Maggi )
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù
…Io penso che tutte le nostre tristezze sono dovute alla incapacità di percepire la novità, l’evento non previsto dalla legge e non sottoposto a nessuna garanzia se non a quella della coscienza.
Questo samaritano solitario, che si sottrae al gruppo e va per gratitudine verso chi lo aveva salvato, è il simbolo della creatura che Gesù predilige perché appartiene alla grande schiera delle beatitudini.
E’ povero di spirito, umile, è un puro di cuore, è pacifico; vive cioè in questo mondo come uno straniero.
La verità evangelica è sempre straniera a questo mondo in quanto essa non trova mai, in nessun posto, il suo luogo di adempimento.
L’adempimento è nel futuro.
La sua legge interna di gravitazione la porta ad uscir fuori dal cerchio di coloro che sono relativamente o pienamente soddisfatti di sé, verso gli altri, verso il mondo dei lebbrosi.
          Questo è il mistero della parola di Dio che dentro ci insegue.
  Per poter inseguire questa parola dobbiamo sdivezzarci da quell’autentica lebbra dell’anima che è l’abitudine, la meccanica dei gesti sacri, la soddisfazione dell’esser secondo la legge, l’accettazione degli schemi di condotta fissati dalla morale dominante nel nostro ambiente.
Questa parola che corre ci dà appuntamento nello sterminato mondo di coloro che sono diversi, un mondo che ci lambisce i piedi, che non va perseguito soltanto lungo la carta geografica perché è in casa nostra, lo abbiamo con noi.
Per una omogeneità con la vastità del mondo, ciò che è vicino e mi inquieta perché non riesco a comprenderlo mi rimanda al vasto mondo dove la parola di Dio va come in un deserto, in attesa di fruttificare.
Questa ampiezza non è utopistica, vaga e irrazionale, ha i suoi punti di verifica concreti in ciò che noi sperimentiamo e in ciò che noi viviamo.
La parola di Dio è riconoscibile non nelle assimilazioni codificate dei testi sacri, non nelle elaborazioni utili ma ambigue e pericolose dei grandi intelletti che ci forniscono la formulazione teologica, ma nella sua corsa esistenziale.
Allora, io penso che una qualità – non posso dire molto di più – che dovremmo tener viva nella nostra coscienza è la capacità di aver stupore, di sorprenderci in uno stato di stupore dinanzi a ciò che avviene.
La parola di Dio nasce la mattina, non è di ieri.
I libri che leggo son tutti antichi, anche la Bibbia è un antichissimo libro che fa numero con gli antichi libri, ma il vero luogo della Parola non è la carta o il papiro o la pergamena, è la carne vera dell’umanità, questa parola c’è, corre ed io devo stupirmi nel riconoscerla.
Quando uno non è capace di esser grato vuol dire che è perfettamente integrato. La gratitudine vera è quella che ci coglie nell’intimo, anche di fronte ad un’alba, ad un cielo stellato, al sorriso di un bambino, ad un povero felice, a villaggi lontani che vivono nell’estrema miseria e cantano con gioia, … Qualcosa che non rientra nei nostri schemi mentali.
Se noi non riusciamo a stupirci dell’inatteso, che è il volto di Dio nel mondo, noi abbiamo già incatenato la parola, l’abbiamo fatta prigioniera ed essa è putrida.
Come la manna custodita oltre il giusto diventava insopportabile per il maleodore, casi la parola di Dio che abbiamo incatenato puzza, non sa di nulla, non dice nulla a nessuno per colpa nostra.
Dobbiamo riaprire l’animo allo stupore del corso della parola di Dio che segue vie impensabili. Ciascuno di voi forse, mentre dico alla meglio queste cose, nel filo della sua memoria ha punti di riferimento.
 La parola che ho colto oggi nel Vangelo, l’esaltazione della gratitudine, mi ha fatto venire in mente anche questo aspetto che vorrei raccomandarvi soprattutto perché – non so se sbaglio – mi sembra di avvertire nei segni pubblici e privati, l’alta marea della tristezza, della stanchezza e l’abbandono alla ripetizione del già saputo, del già detto e la mancanza della creatività.
Siamo una steppa che non ha più germogli.
Occorre dunque ritrovare i rivoli lontani della gratitudine verso il creato, o verso la creazione, o verso le cose che ci vengono incontro con la freschezza del mattino e che non sono codificate in nessun erbario, in nessuna enciclopedia.
Usciamo dalla tristezza quando ci accorgiamo che non è affatto vero che la creazione si è chiusa, non è affatto vero che noi abbiamo definito per sempre che cosa è la verità.
La verità non è nei nostri concetti vecchi, è nel palpito dei cuori, è nell’ansia della liberazione, è nell’amore reciproco fra l’uomo e la donna, è nel bambino che cresce, … La verità cammina e noi dobbiamo avere occhi adatti per questa alba che c’è.

(Ernesto Balducci – da: “Il mandorlo e il fuoco” vol. 3)

 
 
 

XXVII Domenica del T.O. – Noi non siamo e non saremo mai all'altezza delle situazioni storiche; se qualcosa di buono compiamo, è dono di Dio.

servo inutile[ Nel Vangelo di questa domenica XXVII del T.O ] colpisce in particolare l’aggettivo inutili.
Si tratta di un termine che occorre anche altrove nella Bibbia, sempre in senso spregiativo.
Per esempio nella parabola dei talenti, al servo che non ha saputo moltiplicare l’unico talento, viene tolto quello che ha e Gesù aggiunge: “Il servo fannullone, inutile, gettatelo fuori nelle tenebre (Matteo 25,30). Il vocabolo tradotto con “fannullone”, nel testo greco è lo stesso di Luca 17,10. Letteralmente significa “senza alcuna utilità“, qualcuno che non serve a niente.
 Dopo aver riletto il brano, possiamo chiederci in quali altri passi evangelici risuona qualcosa di analogo.
Segnalo il testo che segue immediatamente il nostro (Luca 17,11-19): 10 lebbrosi sono guariti e di uno solo risalta la gioiosa riconoscenza. E’ sotteso un rapporto tra essere servi inutili ed essere grati e riconoscenti, che più avanti apparirà meglio.
Tra altri testi affini che evidenziano l’impegno di essere “servo”, ricordo Marco 10, 43-44: “Chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti“. E, al versetto 45: “I1 Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti“.
 Qualche brano di Luca sottolinea, invece, il capovolgimento della condizione di servitore. Luca 12,43-44: “Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà al suo lavoro. In verità vi dico, lo metterà a capo di tutti i suoi servi“.
Più ancora Luca 12,37: “Beati quei servi che il padrone, al suo ritorno, troverà svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli“.  E’ l’opposto di quanto espresso nella parabola del “servo inutile”, dove il padrone ordina al servo di preparargli da mangiare: qui è il padrone che si fa servitore.
Infine Luca 22,27, in cui Gesù stesso si paragona allo schiavo servitore: “Io sto in mezzo a voi come colui che serve“.
      Dunque la parola sul servo inutile va collocata in un contesto che mostra aspetti addirittura opposti.
Questi elementi vanno tenuti insieme per comprendere la profondità di significati, la straordinaria ricchezza degli insegnamenti di Gesù che ci invita così a entrare in un nuovo mistero, nel mistero indicibile di Dio, nel quale si ha qualcosa della coincidentia oppositorum, della coincidenza degli opposti.
 
 IL MESSAGGIO DELLA PARABOLA
Ciò premesso, ci domandiamo qual è il messaggio della parabola e lo esprimo indicando anzitutto quello che la parabola evangelica non intende dire, e poi gli atteggiamenti che vuole promuovere.
 – Dal tenore del brano e del suo contesto prossimo e remoto deduco che Gesù certamente non vuole indurre un atteggiamento depressivo, proprio di chi, abbassando la testa, ammette di non valere niente.
Purtroppo tale atteggiamento di frustrazione è assai diffuso ai nostri giorni.
Penso alle madri e ai padri di famiglia che, dopo aver cercato di educare con tanta fatica i figli, possono credere di non essere riusciti a trasmettere i valori veri e concludono tristemente: Abbiamo sbagliato tutto, non siamo buoni a niente, non siamo stati bravi genitori!
Penso all’anziano che passa i suoi giorni e le sue ore davanti al televisore, magari nel grigiore di un ricovero, e dice: Sono solo, nessuno si cura di me, a che cosa servo?
Penso all’operaio di una certa età, con una certa esperienza di lavoro, che si vede a un tratto sostituito da una macchina e si chiede: Ma che cosa sono ancora capace di fare?
Tutti atteggiamenti di frustrazione, tipici della nostra società, che la parabola non intende indurre né raccomandare, ma anzi fortemente contrastare.
 
 Quali allora gli atteggiamenti positivi che la parabola vuole indurre? Che cosa dice anzitutto alla Chiesa, ai cristiani nella fine del secondo millennio?
Riassumo l’insegnamento, il messaggio, in poche parole: siamo servi inutili, inadeguati, e perciò liberi e sciolti nel presente, umili e grati per il passato, capaci di gratuità per il futuro.
 
 …. Il riconoscersi servi inutili rende liberi e sciolti nel presente:
–  liberi dal peso insopportabile di dover rispondere a ogni costo a tutte le attese,
–   di dover essere sempre perfettamente all’altezza di tutte le sfide storiche di ogni tempo.
Questa libertà e scioltezza ci rende umili e modesti, disponibili a fare quanto sta in noi, a riconoscere quanto ci sta ancora davanti, ad ascoltare e a collaborare con semplicità e senza pretese.
La pagina evangelica del servo inutile esprime quindi il primato della grazia: tutto ci viene da Cristo, “tutto è Cristo per noi” …. e, per quanto noi facciamo e ci sforziamo, il Signore è sempre più grande e la sua misericordia è sempre vincente.
…  In questo senso dobbiamo capire l’affermazione “servi inutili”: noi non siamo e non saremo mai all’altezza delle situazioni storiche; se qualcosa di buono compiamo, è dono di Dio.
Il sentirci perciò inadeguati ci dà gioia e fiducia, non smarrimento; ci fa proclamare il primato di Dio.
Siamo  consapevoli del fatto che non sta a noi salvare il mondo e non dobbiamo caricarci tutto il peso del mondo sulle nostre spalle. Solo Dio salva e dà pace. ( C. M. Martini )
 

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