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Vangelo Domeniche e Festività

XXVI Domenica del T.O. – La fede non si fonda su miracoli o su eventi straordinari, ma sull’ascolto della Parola di Dio

Ricco epulone mPer la terza e ultima volta appare nel vangelo di Luca l’espressione “uomo ricco”; espressione sempre negativa.
  E’ già apparsa una prima volta come l’uomo stolto, sciocco, ricco, ingordo, che demolisce i granai per costruirne degli altri.
Nella parabola di domenica scorsa ( quella del fattore disonesto ) Gesù denuncia il fatto che la ricchezza è sempre disonesta.
Nella parabola di questa domenica si parla di “un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti.”.
L’unica descrizione che Luca dà del ricco è questa, non si dice che – come a volte si pensa – questo ricco sia malvagio, cattivo, nulla di tutto questo. E’ un uomo ricco e, secondo la tradizione biblica ebraica, era benedetto da Dio perché Dio premiava i buoni con la ricchezza e li malediva con la povertà.
 Poi c’è«Un povero, di nome Lazzaro»”,  che«stava alla sua porta, coperto di piaghe»”.
 Le piaghe erano  considerate un castigo inviato da Dio, secondo il libro del Deuteronomio, cap. 28. Quindi è un uomo che è colpevole della sua miseria e delle sue piaghe.
…..  Ebbene, a sorpresa, dice Gesù «Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli». – L’uomo che sulla terra aveva come unica compagnia gli esseri più impuri, i cani, viene portato dagli angeli, cioè gli esseri più puri, quelli più vicini a Dio. – 
“«Accanto ad Abramo»: per comprendere bene questa parabola di Gesù, notiamo che è rivolta ai farisei che si beffavano di Gesù che aveva detto che non è possibile servire Dio e il denaro, e, proprio perché rivolta ai farisei, Gesù parla con le categorie farisaiche del premio e del castigo da ricevere nell’aldilà.
E lo fa secondo un libro conosciutissimo a quell’epoca, il libro di Enoch, dove il regno dei morti veniva considerato un grande baratro, dove il punto più luminoso era il seno di Abramo, il punto più oscuro era dove andavano a finire i malvagi.
 «Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi», il termine ‘inferi’ traduce il termine greco ‘ade’ che significa ‘regno dei morti’, «tra i tormenti, alzò gli occhi»”, e finalmente si accorge di Lazzaro.
 Il ricco di questa parabola non viene condannato per essere stato malvagio nei confronti del povero, per averlo maltrattato, ma semplicemente non si è accorto della sua esistenza.
Solo adesso, quando è nel bisogno, finalmente se ne accorge.
 Ma i ricchi non cambiano, i ricchi  sono animati da una perversione che non è possibile sradicare dalla loro esistenza.
E infatti non chiede, ancora comanda, «’Padre Abramo, mostrami pietà»”, mostrami misericordia, e ordina, «’Manda Lazzaro’»”, lui, il ricco pensa che tutto gli sia dovuto. Lui si serve delle persone, non ha mai servito.
 E Abramo gli risponde, sempre secondo la teologia farisaica, con il fatto del premio e del castigo «’Tu hai ricevuto i tuoi beni e Lazzaro i suoi mali’»”.
…. Ma ecco l’egoismo del ricco, l’egoismo che non si può sradicare, che arriva fino in fondo. Dice, «Allora padre, ti prego di mandare Lazzaro’»”, lui di Lazzaro si serve, «’a casa di mio padre perché ho cinque fratelli’»”.
 Gli interessa soltanto la sua famiglia, non dice “mandalo al popolo, alla gente, mandalo ad annunciare cosa succede se accumulano denari, se non pensano agli altri”.
No, il ricco è incurabilmente egoista, pensa soltanto a sé stesso e che tutto gli sia dovuto. Allora manda ai suoi fratelli, alla sua famiglia, degli altri non gli interessa.
 Ed ecco la risposta di Abramo, «Hanno Mosè e i Profeti’»”, cioè quelli che hanno legiferato a favore dei poveri, Mosè ha detto “la parola del Signore è che nessuno sia bisognoso”, i profeti hanno tanto tuonato contro i ricchi, «’Ascoltino loro’»”.
E la replica del ricco: «No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno’»”.
Ed ecco la sentenza importante e drammatica di Gesù, «Abramo rispose: ‘Se non ascoltano Mosè’»”, la parabola è rivolta ai farisei, quelli che si fanno scudo della legge di Mosè, della dottrina, soltanto per coprire i propri interessi.
 Queste persone tanto pie, tanto devote, i zelanti custodi della tradizione e della fede, quando non conviene, sono i primi ad ignorare la legge di cui sono difensori. «’Se non ascoltano Mosè e i Profeti non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti’»”. ( A Maggi )

  ***

La fede non si fonda su miracoli o su eventi straordinari, ma sull’ascolto della Parola di Dio (cf. Rm 10,17).
Non si dimentichino in proposto le parole rivolte da Gesù risorto ai discepoli sgomenti e increduli: «Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi» (Lc 24,44).
 Sì, la nostra fede è generata dall’ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento, rilette alla luce della vita di Gesù, quella vita all’insegna della comunione e dell’amore che lo ha condotto alla vittoria sulla morte, alla resurrezione.
E la fede, se è autentica, è «fede operante mediante l’amore» (Gal 5,6), si traduce cioè in azioni concrete ispirate dall’amore fraterno.
È infatti l’amore l’unica realtà su cui saremo giudicati al termine della nostra vita: l’amore che può dare senso ai nostri giorni sulla terra, l’amore che è qui e ora condivisione dei beni in modo che siano distribuiti «a ciascuno secondo il suo bisogno» (At 4,35).
Ma ricordiamolo: «se uno ha ricchezze nel mondo e, vedendo il proprio fratello nel bisogno, gli chiude il cuore, come può l’amore di Dio rimanere in lui(1Gv 3,17). (E.Bianchi)

XXV Domenica del T.O. – Essere scaltri e risoluti nell’assicurarsi nel tempo presente il regno di Dio.

amministratoreIn tutto il cap. 16 — a eccezione di un cenno sulla legge (16,16-17) e sul divorzio (16,18) — Luca sviluppa il tema dell’uso cristiano della ricchezza. Si tratta evidentemente di un argomento di grande importanza per la sua comunità.
La parabola dell’amministratore scaltro ha sempre suscitato perplessità nei lettori: com’è possibile che il vangelo presenti un uomo disonesto quale modello da cui imparare? Perciò alcuni commentatori — nello sforzo di attenuarne il disagio — attirano l’attenzione sull’ambiente palestinese e sui suoi costumi.
I grandi proprietari terrieri, per lo più stranieri, avevano alle proprie dipendenze degli amministratori locali, ai quali lasciavano grande libertà e piena responsabilità: loro compito era di realizzare per il padrone il profitto pattuito, ma, una volta assicurato questo profitto, avevano anche la possibilità — maggiorando il prezzo — di realizzare guadagni personali. Questo era consentito. Si può dunque pensare che il fattore — nell’intento di procurarsi amici che lo avrebbero aiutato nei momenti di difficoltà — abbia semplicemente rinunciato alla propria parte di profitto, senza danneggiare il padrone. Ciò renderebbe più credibile l’elogio di quest’ultimo (16,8). Ma è un’ipotesi inutile.
 La parabola, infatti, non attira l’attenzione sui mezzi a cui il fattore ricorre per farsi degli amici. Il vero centro della parabola è racchiuso nella constatazione che “i figli di questo mondo sono più scaltri dei figli della luce” (16,8). La parabola non dovrebbe essere intitolata «Il fattore infedele», come spesso avviene, bensì «Il fattore astuto».
Il parabolista vuole che ci si lasci impressionare dalla prontezza e dalla furbizia con cui il fattore cerca — senza un attimo di esitazione — di mettere al sicuro il proprio avvenire. Appena si accorge che il suo futuro è in pericolo, il fattore si mostra astuto, voltando a proprio vantaggio la difficile situazione in cui è venuto a trovarsi.
Ebbene, il cristiano non dovrebbe essere altrettanto pronto, scaltro e risoluto nell’assicurarsi nel tempo presente il regno di Dio? L’aggettivo phronimos — che definisce le qualità del fattore e che comunemente viene tradotto con «prudente» — allude a diverse caratteristiche: la lucidità di avvertire la gravità della situazione, la prontezza nel cercare una soluzione perché non ci saranno altre opportunità, il coraggio di prendere decisioni.
  Sin qui l’insegnamento della parabola resta a livello generale (afferma il valore della risolutezza, ma non dice in quale situazione applicarla), aperto a un ampio ventaglio di possibili attuazioni. Si limita a dire: imparate per i vostri scopi a essere furbi e determinati come i figli di questo mondo lo sono per i loro. Non sappiamo se Gesù abbia pronunciato la parabola per dare ai discepoli questo insegnamento, o se l’abbia invece applicata a qualche caso più preciso.
 Comunque, Luca non vuole che l’istruzione rimanga vaga e la indirizza verso un caso concreto e per lui importante: l’uso della ricchezza. A tale scopo fa seguire alla parabola tre detti del Signore — in origine probabilmente indipendenti — che sono accomunati dal termine «denaro»: 16, 9.11.13.
Il primo detto sembra riprendere il ragionamento del fattore («so che cosa fare, perché, quando sarà stato allontanato dalla amministrazione, mi accolgano in casa loro») e si presenta come una diretta e solenne applicazione della parabola: «Io vi dico: fatevi amici con la disonesta ricchezza, perché quando essa verrà a mancare vi accolgano nelle dimore eterne» (16,9). Per la maggioranza dei commentatori «farsi amici con la disonesta ricchezza» significa aiutare i poveri: gli amici sono i poveri, amici di Dio che devono diventare amici nostri. Per altri gli amici sono i meriti presso Dio, o anche Dio stesso. Comunque, la sostanza dell’insegnamento non cambia. C’è un solo modo per essere astuti come il fattore della parabola: utilizzare le proprie ricchezze per aiutare i bisognosi. Concretamente Luca pensa all’elemosina, tema che gli è particolarmente caro: 11,41; 12,33; 19,8; At 9,36; 10,2.4.31; 11,29; 24,17.
  Il secondo detto del Signore (16,10-12) sposta l’attenzione dal dovere della carità al dovere della fedeltà nell’amministrazione dei beni del padrone. Qui il fattore della parabola assume una valenza negativa: la sua disonestà non va imitata. Forse si tratta di un avvertimento rivolto in particolare ai membri della comunità, che avevano l’incarico di amministrare i beni comuni.
  Il terzo detto del Signore avverte che non si può contemporaneamente servire Dio e il denaro (16,13). L’ammonimento sottende che il denaro vuole sempre fare da padrone, e spesso ci riesce.
 Il fattore della parabola è definito «disonesto» (16,8), ma poi – nelle parole applicative – è la ricchezza a essere definita disonesta. Perché? Certo perché spesso è frutto di ingiustizia e anche, più spesso ancora, perché diventa facilmente strumento di ingiustizia. Inoltre, la ricchezza rende ciechi, come insegnerà più avanti la parabola del povero e del ricco… Nella parabola del seminatore… la seduzione della ricchezza soffoca la Parola. Questa diffidenza nei confronti della ricchezza non è una novità. Si legge nel libro del Siracide (27,2): «Fra la compra e la vendita si insinua il peccato». E in un altro passo del medesimo libro si dice:
«Non porre la tua fiducia nella disonesta ricchezza, perché non ti gioverà nel giorno della sventura» (5,8). Quest’ultima affermazione sembra suggerire un’ulteriore ragione per cui la ricchezza può definirsi disonesta: la ricchezza è ingannevole. Infatti, promette e non mantiene. Conquista la fiducia dell’uomo per poi deluderlo. La connotazione della disonestà della ricchezza ben si adatta al senso della parola «mammona» che è più della semplice ricchezza: è quell’accumulo esagerato, mai sazio, che fa da padrone, riempiendo tutto l’orizzonte della vita.
Bruno Maggioni

XXIV Domenica del Tempo Ordinario – Dio cerca ciò che è perduto con grande attenzione.

Parabole Misericordia pro XXIVNel Vangelo di questa domenica XXIV del Tempo Ordinario le tre parabole delle misericordia, raccontate da Gesù davanti un uditorio di mormoratori invidiosi.
I farisei e gli scribi mormoravano perché a Gesù si avvicinavano tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo: «Costui – dicevano – riceve i peccatori e mangia con loro» (Luca 15,2).
Mormoravano coloro che vivono le pratiche religiose e perciò si ritengono in possesso di diritti acquisiti rispetto al Regno di Dio; tuttavia tale opposizione alla parola di grazia di Gesù non viene espressa in forma diretta, bensì mediante allusioni, riferimenti vaghi, piccole frasi che contengono mezze verità e sono messe in giro, sottintesi.
Dire una mezza verità, con dei sottintesi, è il modo con cui da sempre ci si mette contro il Vangelo della grazia.
Gesù non pronuncia una difesa; semplicemente ribadisce il messaggio della misericordia, perché la parola di Dio è luce e non ha bisogno di essere illuminata da altro.
In Luca 15 leggiamo così le più note parabole: quella della pecora smarrita e ritrovata (vv.. 4-7); quella della dramma perduta e ritrovata (vv. 8-10); e la parabola del figlio perduto e ritrovato (vv. 11-32).
Tutte e tre mostrano che c’è qualcosa di perduto (una persona, una cosa, un animale) e che Dio cerca ciò che è perduto con grande attenzione.
Dio vuole la salvezza di ciascuno di noi, anche di uno solo.
Chi sogna un cristianesimo con programmi preordinati di tipo cosmico, un cristianesimo che non può attardarsi nella ricerca di una pecora o di una dramma o di un figlio che ha lasciato la casa patema, difficilmente comprende e accoglie il Vangelo della grazia,
Ancora, le parabole mostrano una sorta di accanimento da parte del pastore, della donna e del padre.
Il Dio della misericordia infatti si prende a cuore il singolo uomo come se fosse l’unico, quasi a dire: Tu sei importante per me, tu mi manchi, per te metto in questione la mia vita.
Infine, Gesù sottolinea la gioia del ritrovamento; ne fa il tema dominante, contrapposto alle lacrime della ricerca.
Quando il pastore ritrova la pecora «se la mette in spalla tutto contento e va a casa, chiama gli amici e i vicini», affinché si rallegrino con lui.
La donna, ritrovata la dramma, «chiama le amiche e le vicine».
Il padre dice ai servi: «Presto! Portate il vestito più bello e rivestite mio figlio, mettetegli l’anello al dito e i suoi calzari ai piedi, portate il vitello grasso e ammazzatelo, mangiamolo e facciamo festa. E cominciarono a far festa».
Gioia, festa, banchetto, musica e danze sono collegate con il ritrovamento del perduto.
[ Nel raccontare queste parabole ]  Gesù ha davanti agli occhi un uditorio di mormoratori invidiosi.   ….I mormoratori invidiosi sono gente di casa, non estranei. …. 
 Gente di casa, che crede di conoscere il padre.
Il fratello maggiore credeva di conoscere suo padre e si meraviglia di quello che fa: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici» (v. 29).
Gente che crede di conoscere Dio e dice: Come mai si comporta così? È ingiusto, non doveva assolutamente farlo, non ha mai fatto così con me che lo conosco e che lo servo da tanti anni!
Gente perbene: persone che presumono essere giuste e disprezzano gli altri.
È il quadro completo, presentatoci dal vangelo, delle persone a cui Gesù si rivolge.
Potremmo caratterizzare l’uditorio dicendo che è gente dall’occhio cattivo. L’immagine la prendiamo dalla parabola degli operai mandati a ore diverse nella vigna (Matteo 20), là dove il padrone conclude il suo discorso all’ «amico» che si è lamentato di aver lavorato tutto il giorno e di aver avuto la medesima paga degli altri: «Sei invidioso perché io sono buono?» (v. 15). Nel testo greco questo «invidioso» è «ofthalmós sou ponerós», il tuo occhio è cattivo.
Con la metafora dell’occhio cattivo possiamo quindi indicare il pubblico cui Gesù si rivolge.
Mettendoci ora dalla parte dei mormoratori, possiamo chiederci: il Vangelo della misericordia non diventa, alla fine, un evangelo della faciloneria, del permissivismo, del disimpegno etico?
Forse ci è capitato talora di ripetere le parole dei farisei o di ascoltare altri che esprimono timore verso un messaggio che mette in pericolo l’osservanza delle leggi, il rigore delle tradizioni, la sicurezza dottrinale e morale di un gruppo.
La domanda è seria e non dobbiamo lasciare che entri nel nostro cuore perché, in tal caso, non comprenderemmo più il Vangelo della grazia.
Offro tuttavia qualche riflessione in proposito:
– Dio non muta; qualunque siano le conseguenze da noi paventate, egli è il Dio della misericordia.
– I timori di fronte al suo Vangelo di grazia esprimono probabilmente la paura di sottoporsi a questo regime.
Mi viene in mente Dietrich Bonhoffer che, per la sua tradizione protestante, poteva essere imputato di cedere al Vangelo della grazia e che ha sentito il bisogno di chiamarlo: «grazia a caro prezzo».
 Ci può essere in noi una nascosta ripugnanza ad accogliere Dio così com’è, a lasciarci invadere dalla sua misericordia, e preferiamo difenderci con la legge, con la giustizia, con il rigore etico del vangelo.
Ci può essere in noi una comprensione solo parziale del Vangelo della grazia e per questo lo allontaniamo istintivamente.
– Il Vangelo della grazia ha, come corrispondente in chi lo riceve, lo stigma della gratuità.
Non c’è niente di più esigente della gratuità, proprio perché non ha limiti a differenza del vangelo della legge – non sono obbligato, non sono il custode di mio fratello! -.
L’esigenza del Vangelo della grazia giunge a superare tutte le legalità e tutti i ruoli, perché ci tocca nel più intimo e ci invita al dono di noi stessi fino alla morte.
– Il Vangelo della grazia, quando non è accolto, lascia il morso dello scontento e della disperazione.
Non forza nessuno a donarsi, a uscire dal proprio egoismo, ma lascia l’uomo libero di chiudersi nella propria disperazione, nel rifiuto totale e quindi di perdersi nella propria solitudine personale e di gruppo, nella difesa a oltranza, fino ad accorgersi che non c’era nulla da difendere. ( Carlo Maria Martini )

XXIII Domenica del T.O. – La sequela : amare più di quanto … portare la croce … rinunciare agli averi ….

Sequela (2)Nel vangelo di questa domenica Luca presenta le tre radicali condizioni che Gesù ha posto a quanti lo vogliono seguire.
Il Contesto:  Gesù sta andando verso Gerusalemme ed è seguito da tanta gente che, per un malinteso senso del messia, lo segue pensando poi di andare a spartirsi il potere e il bottino.
Pensano che Gesù sia il glorioso messia, il figlio di Davide, che va a restaurare il defunto regno di Israele, e non hanno compreso che Gesù è il figlio di Dio, quello che non va a togliere il potere, ma a donare la propria vita a Gerusalemme.
E scrive l’evangelista, vangelo di Luca, cap 14 versetti 25-33, che “una folla numerosa andava con lui”.
A questo equivoco, Gesù , “si voltò e disse loro …”, ed è la prima radicale condizione, «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle, e perfino la propria vita»”, in greco adopera il termine ‘psyché’ che significa ‘se stesso’, «non può essere mio discepolo». ( A. Maggi )
 
Questa parola è illuminata da un’altra pronunciata da Gesù quando vennero a riferirgli che i suoi famigliari, da cui egli si era allontanato…. lo cercavano con insistenza: «Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica».
Sì, per il cristiano il legame d’amore con Gesù, Parola di Dio fatta carne (cf. Gv 1,14), deve avere l’assoluta precedenza su ogni altro vincolo, anche di sangue: è Cristo che egli deve amare con tutto il cuore, la mente e le forze (cf. Dt 6,5).
Attenzione, non si tratta di una richiesta totalitaria: non bisogna amare lui soltanto, ma lui più degli altri nostri amori; bisogna amare, come lui ha amato (cf. Gv 13,34), tutte le altre persone, senza alcuna distinzione…  ( E. Bianchi )
 
….  L’adesione a Gesù deve andare al di là dei vincoli familiari, e, in particolare, c’è l’immagine della moglie perché nella parabola che Gesù in precedenza ha comunicato ai suoi, uno degli ostacoli che uno presenta per andare a questo banchetto del regno è “ho preso moglie perciò non posso venire”.
Quindi la prima condizione radicale è che l’adesione a lui deve andare al di sopra dei vincoli familiari, …. 
 La seconda condizione radicale è l’accettazione del disprezzo della società e quindi la grande solitudine.
 Infatti, afferma Gesù, «Colui che non porta la propria croce»”, letteralmente “chi non solleva la propria croce”, “«E non viene dietro a me, non può essere mio discepolo»”.
E’ la seconda volta che appare il tema della croce, tema che, ricordo, non riguarda mai la
sofferenza, i momenti tristi che la vita inevitabilmente fa incontrare, mai la croce nei vangeli ha questo significato, ma sollevare la croce significa accettare il disprezzo della società perché quelli che venivano condannati a questa infamia erano considerati la feccia della società.
E, in particolare, Gesù si rifà al momento preciso in cui il condannato doveva lui sollevare l’asse orizzontale della croce. Da quel momento doveva andare verso il luogo dell’esecuzione circondato da ali di folla per le quali era un dovere religioso insultare e malmenare il condannato. ( A. Maggi )
 
Dio è un dio del ‘portare’.
Il Figlio di Dio portò i nostri peccati nella carne, portò perciò la croce, portò tutti i nostri peccati e, portandoli, effettuò la riconciliazione.
 Perciò anche chi lo segue è chiamato a portare.
L’essere cristiani consiste nel portare.
 Come Cristo mantenne la comunione col Padre portando i pesi del mondo, così, portando i pesi, chi segue Gesù è in comunione con lui.
 L’uomo può scrollarsi di dosso il peso impostogli, ma non si libera, in questo modo, del peso in genere; anzi, porta ora un peso molto maggiore, più insopportabile; per sua propria volontà porta il peso, scelto da lui, della sua persona.
 Gesù ha chiamato tutti coloro che si sono caricati di vari dolori e pesi, perché buttino i loro pesi e prendano su di sé il giogo di Gesù che è mite, il suo peso, che è leggero.
Il suo giogo, il suo peso, è la croce.
 Camminare sotto questa croce non è miseria e disperazione, ma ristoro e pace per l’anima, è massima gioia.
Non camminiamo più sotto i pesi e le leggi fatte dagli uomini, ma sotto il giogo di colui che ci conosce e cammina lui stesso sotto la croce insieme a noi.
 Sotto il suo giogo noi siamo certi della sua vicinanza e della sua comunione. chi lo segue trova Gesù stesso, se prende su di sé la sua croce. (D. Bonhoeffer, Sequela p. 74)
 
Gesù accompagna queste sue parole con due brevi parabole.
Come per costruire una torre o affrontare una battaglia è indispensabile calcolare in anticipo con intelligenza le proprie forze, così anche per seguire lui: il discepolo, infatti, è chiamato non solo a incominciare ma anche a «portare a compimento» la sua sequela.
Sì, la vita cristiana non è questione di un momento o di una stagione, ma richiede perseveranza fino alla fine, fino alla morte. E la perseveranza esige un grande amore per Gesù Cristo, l’amore da cui nasce la disponibilità ad andare con lui anche dove noi non vorremmo; ovvero, implica la fede che sarà lui, Cristo, il quale nel suo amore per noi «porterà a compimento ciò che ha iniziato in noi» (cf. Fil 1,6). ( E. Bianchi )
 
 [ La terza condizione ], «Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo»”.
 La rinuncia a tutto quello che si possiede, non mettere la sicurezza in quello che si ha, ma mettere la propria sicurezza in quello che si da, perché Gesù vuole al suo seguito soltanto persone libere.
Infatti le tre condizioni per  la sequela sono tutte scelte di libertà e per la libertà.
In particolare questo fatto della rinuncia agli averi si rifà a quanto Gesù aveva detto in precedenza nella parabola del banchetto, dove tra i pretesti per non partecipare alla mensa c’era quello di chi diceva “ho comprato un campo” oppure  “ho comprato cinque paia di buoi.
Quindi il possesso degli averi di quello che si ha è un impedimento.
Bene, allora sono tre condizioni radicali, tutte quante all’insegna della libertà; soltanto chi è pienamente libero può seguire il Signore. Gli altri?  ….  ( A MAGGI )
 

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