Cerca nella bibbia

Per citazione
(es. Mt 28,1-20):





Per parola:


Siti Amici

Ultimi Post
Post in evidenza
Featured video
Intervista a H.Küng 1 Parte
Intervista a H.Küng 2 Parte
Intervista Mons. Bettazzi
Leggiamo, una pagina al giorno, il libro “ PREGARE LA PAROLA” di Enzo Bianchi. Per accedervi click sulla voce del menu “ PREGARE LA PAROLA” o sull’icona che scorre di seguito .

Vangelo Domeniche e Festività

XIX Domenica del T.O. – "Noi cristiani siamo «coloro che attendono la venuta gloriosa del Salvatore Gesù Cristo"

XIX«Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo Regno»: le parole di Gesù con cui si apre il vangelo odierno, oltre a essere di grande consolazione, sono fondamentali perché esprimono l’identità della sua comunità, quale egli la vuole e la pensa. Definendola «piccolo gregge», Gesù afferma innanzitutto che è lui il vero pastore, «il buon pastore» (Gv 10,11.14) : il Padre ha posto le pecore nelle sue mani, ed egli dà loro la vita eterna (cf. Gv 10,27-30) .
 L’espressione «piccolo gregge» non va intesa solo in senso quantitativo; il richiamo alla «piccolezza» è un monito contro la tentazione di primeggiare e di essere ammirati dagli uomini (cf. Lc 6,26) : nessun orgoglio o arroganza da parte della chiesa, ma l’umiltà di chi pone la sua fiducia solo nel Padre e nel suo Regno veniente
Da questa straordinaria parola dipende tutto il resto del brano.
Gesù chiede in primo luogo ai suoi discepoli di dare in elemosina i loro beni, di condividere ciò che possiedono, senza preoccuparsi del domani (cf. Mt 6,34). Nessun accumulo di ricchezze a discapito dei fratelli può appesantire chi sa che «dove è il proprio tesoro, là è anche il proprio cuore»: la comunione con il Signore Gesù Cristo è il tesoro della propria vita. E qual è la caparra più reale del tesoro preparato per noi nei cieli, se non la gioia che nasce dal vivere già sulla terra la condivisione fraterna? Come potremo gioire alla fine dei tempi, se non sappiamo gioire qui e ora?
 Se dunque Gesù è il bene prezioso della nostra vita, colui per il quale vale addirittura la pena di perdere la vita (cf. Lc 9,24) , saremo anche capaci di orientare tutta l’esistenza verso la sua venuta alla fine dei tempi. Noi cristiani siamo infatti per definizione «coloro che attendono la venuta gloriosa del Salvatore Gesù Cristo» (cf. Tt 2,13) , «coloro che amano la sua venuta» (cf. 2Tm 4,8) …
 Ciò che ci contraddistingue è l’atteggiamento della vigilanza, descritto efficacemente da Gesù: «Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese; siate simili a chi aspetta il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito, appena arriva e bussa». A questo mandato egli unisce una promessa: «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà svegli; si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e li servirà».
  Per chi lo attende con perseveranza il Signore ripeterà i gesti compiuti nell’ultima cena, quando si è fatto servo dei suoi discepoli e ha detto loro: «Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse chi sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27) . [ E. Bianchi ]

***

La missione dei credenti non è protagonismo ma testimonianza. Essa chiede ai credenti decisioni coraggiose e attività infaticabile, ma non per mettere in mostra se stessi, bensì per divenire servitori di Gesù.
In un’altra pagina del suo vangelo Luca è ancora più chiaro e tagliente. Nel c. 17 egli narra la parabola dei servi che, dopo aver lavorato tutto il giorno nei campi, devono, senza sosta alcuna, prestare il servizio necessario per la cena del padrone. E oltre tutto sono invitati a dichiararsi “servi inutili”.
Da un lato viene ingigantita la mole del lavoro da svolgere; dall’altro viene tolta ogni possibilità di gratificante compiacimento per la fruttuosità del servizio.
Tutto ciò può far sospettare durezza d’animo nel padrone. In realtà proprio questo riconoscere l’inutilità del servizio permette ai servi di cambiare mentalità e di entrare in una nuova dimensione spirituale, dove quello che conta non è tanto l’esecuzione puntuale e perfetta del lavoro (la “giustizia degli scribi e dei farisei” di cui parla Mt 5,17, che si rivela in pratica carente di amore), ma il rapporto di amore, di gratitudine, di umiltà, di familiarità con il padrone.
Egli da padrone diventa padre, i servi diventano figli, consapevoli che tutto quello che fanno non è nulla di fronte all’immenso amore che hanno ricevuto. Allora continuano a fare, a lavorare, a servire, ma non con la pretesa di fare qualcosa di importante e di risolutivo, bensì nell’intento di porre segni autentici con cui esprimere la propria gratitudine e la propria volontà di condividere la sollecitudine amorosa del padrone assente. E questa sollecitudine è senza limiti, e anche questo amore dei servi fatti figli ha la insaziabilità, il dinamismo mai stanco proprio della carità.
 Poiché sono in gioco valori spirituali così alti e misteriosi, la condizione dei servi è stupenda, ma anche drammatica.
Si vive in un clima di enorme serietà. C’è il rischio di non capire il cuore del padrone, di fraintendere il senso del servizio, di non compiere bene la missione ricevuta, di usare dei beni ricevuti dal padrone per soddisfare i propri desideri egoistici, di trattare malamente quelli che sono in casa.
Così facendo ci si esclude dal clima della casa e ci si espone alla terribile condanna di essere irrevocabilmente cacciati di casa.
Gesù parla alla nostra libertà e, purtroppo, la libertà è esposta al rischio di dir di no, o almeno di dare risposte languide, malferme, che alla fine sono perdenti.
Di qui l’accorato, severo invito di Gesù ad essere sempre vigilanti.  [ Card. Carlo Maria Martini ]

***

  Sì, dobbiamo sempre essere ben desti, perché il Signore Gesù, il Figlio dell’uomo, verrà nell’ora che non pensiamo, come un ladro nella notte; per chi avrà saputo attenderlo si compirà allora la sua parola: «Io preparo per voi un Regno, perché mangiate e beviate alla mia tavola» (cf. Lc 22,29-30)!
Infine, sollecitato da Pietro, Gesù trae alcune conseguenze delle sue parole per quanti nella sua comunità hanno responsabilità di guida, responsabilità «pastorali».
 Se tutti sono chiamati a vigilare, è però vero che il Signore, «il Pastore dei pastori» (1Pt 5,4) , ha affidato ad alcuni il compito di essere amministratori fedeli e sapienti, incaricandoli di «distribuire ai loro con-servi la razione di cibo a tempo debito». Ebbene costoro, cioè i pastori della chiesa nell’oggi della storia, sappiano di essere chiamati a svolgere il loro ministero quali «servi di Cristo»  (1Cor 4,1) , colui che proclama beati quei servi che, alla sua venuta, saranno trovati intenti al loro servizio. Se invece, per l’affievolirsi dell’attesa del Signore, essi acconsentono alla tentazione di spadroneggiare sul gregge loro affidato   (cf. 1Pt 5,3) , saranno puniti con severità; non potranno infatti dire di non essere stati avvertiti…
Il piccolo gregge della chiesa non deve temere nulla dall’esterno: l’unica minaccia seria può venirgli da se stesso, dalla sua incapacità di amare il Signore Gesù e di tenersi pronto alla sua venuta nella gloria.
È questa attesa vigilante che dà senso alla nostra vita e ispira il nostro comportamento quotidiano.
Lo aveva ben capito san Basilio, il quale scriveva: «Che cosa è proprio del cristiano? Vigilare costantemente ed essere sempre pronto a compiere ciò che è gradito a Dio, sapendo che nell’ora che non pensiamo il Signore viene». [E.  Bianchi]
 

Trasfigurazione del Signore: la trasfigurazione è rivelazione, è un alzare il velo su Gesù in modo che il discepolo conosca l’identità più autentica del suo Signore e lo segua con maggior consapevolezza.

www.chiesadicefalu.itRicorre oggi la festa della Trasfigurazione del Signore, celebrata a partire dal IV secolo in oriente e dall’XI in occidente.
In questa festa, quasi ignorata o celebrata distrattamente nell’euforia vacanziera che contagia anche molti cristiani, si contempla il volto di Gesù Cristo radioso di una luce di vita e di comunione destinata a tutto l’universo, all’umanità intera.
Nell’intenzione degli evangelisti e di Pietro – che nella sua Seconda lettera invita a discernere nella trasfigurazione un’anticipazione della venuta nella gloria del Signore Gesù Cristo (cfr. 2Pt 1,16-19) – l’episodio della trasfigurazione deve essere letto e contemplato come un evento realmente accaduto nella storia, nella vita di Gesù, davanti a testimoni per i quali ha avuto un significato determinante e attraverso i quali è stato raccontato.
Non si tratta dunque di un mito e neppure di un midrash cristiano: no, la trasfigurazione è rivelazione, è un alzare il velo su Gesù in modo che il discepolo conosca l’identità più autentica del suo Signore e lo segua con maggior consapevolezza.
….. La parola di Dio rivela l’identità di Gesù: egli è il Figlio di Dio che deve fare esodo, cioè patire-morire-risorgere. Nello stesso tempo l’evento della trasfigurazione annuncia ciò che accadrà a Gerusalemme, quando nell’ora della croce il centurione confesserà: «Veramente quest’uomo è il Figlio di Dio, il Giusto!» (cfr. Mc 15,39; Lc 23,47).
Sì, l’evento della trasfigurazione è memoriale del battesimo e oracolo della croce, e la posizione centrale assegnatagli dai vangeli sinottici vuole proprio indicare questa sua qualità di memoriale e di profezia, di compimento di ciò che è stato manifestato nel battesimo e di anticipazione di ciò che avverrà nella resurrezione e nella parusia.
Ma la trasfigurazione è anche mistero di luce, che illumina tutto il corpo (Israele e la chiesa; Mosè, Elia e i discepoli) insieme al capo (cfr. Ef 1,22-23; Col 1,18).
Infatti il Primo Testamento testimonia e Gesù interpreta il Primo Testamento; i discepoli, a loro volta, accolgono Gesù, accolgono la testimonianza delle Scritture e accolgono il comando del Padre in vista dell’ascolto del Figlio.
La trasfigurazione può dunque essere colta anche come esperienza di ascolto della parola di Dio contenuta nelle Scritture: queste, infatti si sintetizzano in Cristo e conducono a lui; ed è lui, il Figlio amato ed eletto del Padre, che va ascoltato attraverso le Scritture. Non c’è immagine biblica più efficace per narrare l’unità della fede nei due Testamenti, la centralità di Gesù il Messia, la pienezza della rivelazione in lui, l’essere un solo corpo da parte dei credenti che nell’Antico Testamento attendevano il Messia e nel Nuovo lo confessano e lo annunciano.
E infine la trasfigurazione è mistero di trasformazione: il nostro corpo e questa creazione sono chiamati alla trasfigurazione, a diventare “altro”; il nostro corpo di miseria diventerà un corpo di gloria (cfr. Fil 3,21), e «la creazione che geme e soffre nelle doglie del parto» (cfr. Rm 8,22) conoscerà il mutamento in «cielo nuovo e terra nuova» (Is 65,17; Ap 21,1). Ciò che è avvenuto sul monte Tabor in Gesù Cristo avverrà per tutti i credenti e per il cosmo intero alla fine della storia: ecco la grande speranza che già oggi illumina il nostro cuore…
Nell’attesa di quel giorno a noi non resta che contemplare, per quanto ne siamo capaci, «il volto di Cristo su cui risplende la gloria di Dio» (cfr. 2Cor 4,6): così, «riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasfigurati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, attraverso l’azione dello Spirito santo» (cfr. 2Cor 3,18)
( E. Bianchi )

XVIII Domenica del T.O. – Se il nostro tesoro è la comunione con il Signore Gesù … allora saremo capaci di condivisione fraterna.

XVIII Dom Ricco Stolto mDalla folla che attornia Gesù si leva una richiesta: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità»; egli però risponde: «Chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?» (cf. Es 2,14). Gesù rifiuta di intervenire nello specifico della contesa, ma rinvia alle autorità che la società civile ha predisposto per risolvere controversie come questa. Egli non si attribuisce compiti estranei alla missione ricevuta dal Padre: «il mio Regno non è di questo mondo» (Gv 18,36), dirà a Pilato…
La singolarità di Gesù consiste nello sguardo «altro» che egli sa gettare sugli eventi quotidiani, nella sua lettura dei sentimenti e dei pensieri profondi che muovono l’agire dell’uomo. Qui svela un rischio presente nel nostro rapporto con i beni: la cupidigia, l’avarizia.
Rivolto a quanti lo ascoltano dice: «Guardatevi da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni». È una parola che, nella sua disarmante semplicità e verità, ci mette tutti in questione. In cosa facciamo consistere la nostra vita? Su cosa la fondiamo? Spesso siamo tentati di farla dipendere dall’accumulo di ricchezze, come se queste potessero colmare la nostra sete di senso e di amore. E così ammassiamo beni per noi, senza tenere conto degli altri; anzi, finiamo per privarli di ciò che spetterebbe loro per avere di che vivere, come fa il ricco della parabola verso il povero Lazzaro (cf. Lc 16,19-31). In più, questo comportamento oggi è pure lodato dalla società, che considera tale accumulo non un vizio ma una pubblica virtù…
Gesù conosceva bene il cuore umano, luogo in cui nasce questa brama insaziabile di accumulare ricchezze (cf. Mc 7,22). Sì, il cuore può conoscere la malattia del ripiegamento sull’avere, che impedisce la capacità di donare e di ricevere; chi è preda di questa «fissazione» giunge fino a e identificarsi con ciò che possiede… Gesù sapeva che «l’avarizia è la radice di tutti i mali» (1Tm 6,10), che «è idolatria» (Col 3,5), poiché implica un’adesione fiduciosa ai beni piuttosto che a Dio; in altre parole, questa smania di possesso ci allontana dal Regno di Dio, impedisce a Dio di regnare sulle nostre vite. Ecco perché Gesù ha detto: «Nessun servo può servire a due padroni … Non potete servire a Dio e alla ricchezza» (Lc 16,13); e di fronte al rifiuto della sua chiamata da parte di un uomo che possedeva molti beni, ha commentato: «Com’è difficile per coloro che possiedono ricchezze entrare nel Regno di Dio» (Lc 18,24)…
Con una sapienza che gli viene dall’osservazione della realtà, il salmista canta: «Se anche l’uomo si arricchisce e accresce il lusso della sua casa, quando muore non porta nulla con sé!» (cf. Sal 49,17-18). Nel narrare la parabola dell’uomo talmente ricco da non sapere dove riporre i proventi del suo lavoro, Gesù sembra riecheggiare queste parole. All’insensato che «nel benessere non comprende» (Sal 49,21) e vorrebbe addirittura disporre del futuro – «Costruirò magazzini più grandi, poi dirò a me stesso: “Hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e godi”» – Gesù contrappone la voce di Dio che rivela: «Stolto, questa notte ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? (cf. Sal 39,7)». Ovvero: spesso accumuliamo ricchezze per difenderci dalla paura della morte, come se avere molti beni potesse impedire quell’evento che ci attende tutti al termine della nostra esistenza. E così rimuoviamo il confronto con la nostra morte; meditando con intelligenza su di essa potremmo invece riconoscere ciò che nella vita è veramente essenziale: infatti solo chi ha una ragione per cui valga la pena morire, dare la vita, ne ha anche una per vivere…
Ancora una volta siamo rimandati alla parola di Gesù: «Dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore» (Lc 12,34). Se il nostro tesoro è la comunione con il Signore Gesù, se la nostra vita è fondata su di lui, allora saremo capaci di condivisione fraterna (cf. Lc 19,1-10), quella vissuta da Gesù stesso, lui che «da ricco che era si fece povero per noi» (cf. 2Cor 8,9). Condivisione è il vero nome della povertà cristiana: chi si esercita a condividere, conosce la gioia che si sperimenta nel donare e nel vivere la comunione (cf. At 20,35), a partire da quella dei beni; e una volta gustata tale gioia, non può più farne a meno. Ecco cosa può significare per ciascuno di noi «non accumulare tesori per sé, ma arricchire davanti a Dio».
 

Enzo Bianchi

 
 
 

XVII Domenica del T.O. – Pregare vuol dire denunciare implicitamente la nostra condizione di bisogno, la nostra fragilità creaturale.

preghieraNon c’è espressione umana più grande e insieme più ambigua della preghiera.
Per quanto l’atto del pregare susciti, chiunque lo esprima, anche il primitivo che si inchina dinanzi al suo totem, un profondo rispetto, tuttavia abbiamo l’obbligo di sottoporre anche questa espressione umana, così essenziale, al vaglio del nostro giudizio.
Paolo dice: “Quando eravamo bambini parlavamo da bambini, ora che siamo adulti dobbiamo parlare da adulti“.
Senza dare a questa qualifica di adulti nessun contenuto presuntuoso, essa implica quell’esercizio dello spirito critico senza del quale, in un mondo complesso, non riusciamo a vivere con autenticità.
C’erano tempi in cui la preghiera era inserita nei ritmi della vita collettiva, aveva le sue cadenze, i suoi simboli, le sue garanzie e anche le sue meschinità.
Proprio in questi giorni, occupandomi di una ricerca, mi sono trovato di fronte al costume medievale del Carroccio. In quel periodo storico i ‘Comuni’ italiani, tutti così fervorosi, nel momento della battaglia avevano un carro su cui si celebrava l’ eucaristia e poi ci si ammazzava.
Non dobbiamo lasciarci suggestionare dal richiamo fascinoso dei simboli sacri!
La preghiera porta a galla l’umanità cosi com’ è e non possiamo, sotto il pretesto che si. tratta pur sempre di preghiera, tutto giustificare e tutto far nostro.
  Le parole di Gesù, quando ci offre il modello della preghiera, così semplice, sono anche, indirettamente, un metro di giudizio su ogni altra forma di preghiera.
Collocandomi dentro la consapevolezza critica che è un connotato obbligatorio della nostra esperienza umana in genere e cristiana in specie, vorrei dire che i presupposti ai quali dobbiamo sempre ricondurre questo momento essenziale della nostra esistenza sono quelli messi in luce dalle letture che abbiamo ascoltato.
Come presupposto preliminare diciamo che la preghiera ha anche una sua grande validità di liberazione nel nostro esistere quotidiano.
Costretti come siamo – è la logica del vivere – a rapportare i nostri pensieri, le nostre immagini, i nostri desideri allo stretto perimetro dell’esistenza di tutti i giorni, ne deriva nel nostro modo di vivere una certa angustia, una certa assuefazione ai luoghi comuni, ai desideri già confezionati che ci vengono somministrati da quelle impalpabili vie che sono le vie di comunicazione, per cui desideriamo quel che si deve desiderare e ogni mese e ogni stagione ha i desideri prestabiliti e guai a non averli.
Viviamo una vita di desiderio frustrata, artificialmente tonificata.
Poter allargare l’anima – a prescindere in questo momento da ogni riferimento al destinatario della preghiera, che è Dio – poter ampliare l’orizzonte, dare libero sfogo alle attese, alle speranze significa prendere un volo alto, scuotersi di dosso la polvere delle meschinità quotidiane.
E’ un respiro fisiologico necessario, senza del quale la nostra coscienza prigioniera della banalità, degli egoismi collettivi, magari sacralizzati – anch’essi prevedono la Pasqua, il Natale, il compleanno, le prime comunioni… queste scadenze terribili di cui l’organigramma dell’esistenza si riempie del tassello necessario – non trova modo di espandersi negli orizzonti in finiti.
È un modo di rimettersi in piedi, di riprendere una misura, con noi stessi, della nostra relatività.
Pregare vuol dire denunciare implicitamente la nostra condizione di bisogno, la nostra fragilità creaturale.
L’uomo sicuro non prega, si fa pregare.
La preghiera è una espressione della nostra umiltà creaturale. Questo è già un fatto e nel contempo è un aprire lo spirito agli spazi infiniti dove ]a cronaca non fa rumore, dove i punti di riferimento delle nostre meschine passioni si dissolvono.
Tra le linee direttive e imperative che emergono dalla Scrittura c’è innanzi tutto il sentimento di un amore che avvolge l’universo.
Mi rifaccio spesso a questo punto di riferimento che è cristiano, ma è umano, perché la rivelazione del Padre che è nei cieli non è una rivelazione per i cristiani, è l’espressione, attraverso una analogia potentissima che appartiene agli archetipi della psiche, di questo senso ultimo delle cose che, come voi capite, non è il messaggio di tutti i giorni.
Se ci muoviamo dentro le indicazioni dell’esperienza quotidiana ci è difficile pensare ad un Padre, perché tutto si svolge secondo un ritmo casuale e secondo una causalità che ci mette di fronte a cose terribili.
Bene si espresse quel grande scrittore quando disse: “Non posso credere in Dio in un mondo in cui si uccidono i bambini”.
Altro poi che uccidere i bambini! Ne avvengono di tutti i colori!
Come si fa a muoversi con leggerezza da un mondo si fatto per salire ad un Padre?
Il riferimento a questo amore universale è un riferimento che implica il sorpassamento dei confini della nostra ragione, la quale non è una funzione omnicomprensiva perché anche le cose terribili che vediamo, se le riconduciamo lungo la catena causale, forse ci riguardano.
Insomma, non merita piangere sui bambini che muoiono di fame se sappiamo che siamo costruttori di una macchina per la fame!
Ci sono in noi troppi scandali farisaici.
Comunque c’è un momento in cui noi facciamo appello a questo amore universale, che possiamo chiamare con mille nomi, che noi chiamiamo Padre.
Questo è un sentimento profondo ed è un sentimento che illumina le zone oscure della nostra esperienza, dove le cesure della morte sono aperte, dove più si è allargato il nostro reticolo di amore più abbiamo miserie da ricordare, assenze da sopportare.
Il riferimento all’amore universale è la condizione prima della preghiera.
Noi non siamo dei postulanti.
Certo possiamo anche chiedere la cosa più misera – anche un sorriso, anche il ritorno di un amico – ma possiamo trascendere ogni richiesta e semplicemente navigare in questo amore che è senso di tutte le cose, che ci traspare, ma appena per sprazzi, in questa o in quella persona, in questo o quello avvenimento, in questo o quello spettacolo di natura.
La preghiera implica però anche il superamento delle circostanze e dei segni provvisori. Questa è la prima condizione.
Ernesto Balducci – da: “Omelie inedite – 1989
 

Utenti collegati


I concili nei secoli
Clck sull’icona per aprire il documento



I° CONCILIO DI NICEA



I° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



I° CONCILIO DI EFESO



I° CONCILIO DI CALCEDONIA



II° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



III° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



II° CONCILIO DI NICEA



IV° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



LETTERA A DIOGNETO


I° CONCILIO LATERANENSE



II° CONCILIO LATERANENSE



II° CONCILIO LATERANENSE



IV° CONCILIO LATERANENSE



I° CONCILIO DI LIONE



II° CONCILIO DI LIONE



CONCILIO DI VIENNA



CONCILIO DI COSTANZA



CONCILIO DI BASILEA



V CONCILIO LATERANENSE


CONCILIO DI TRENTO



CONCILIO VATICANO I°

Incontri sulla Dei Verbum
Incontri sulla “ DEI VERBUM” Comunità Itria dal 26 Novembre 2018. Per accedervi click sull’icona che scorre di seguito .
Introduzione alla lectio divina
Cliccando sulla copertina del libro o sulla voce del menu “ pregare la parola” leggiamo ogni giorno una pagina del libro di Enzo Bianchi per entrare nello spirito della Lectio Divina.
New

POST DA SEGNALARE ( click per aprire collegamento)

Di sinodalità si può morire

Documento
preparatorio
del Sinodo
dell’Ammazonia

Transito di Madre
Agnese Magistretti

I Migranti sono
Persone..
non questioni
migratorie

Riflessioni sui
Migranti:
ricordando
La storia
di Ruth

P. Sorge
La politica
di chiusura
Mostrerà
la propria
disumanità

Lettera al
Presidente
della Repubblca
delle clarisse
carmelitane

Il nuovo patto
delle Catacombe
Chiesa povera
per i poveri

Cardinale Zuppi
a "Che tempo che fa"