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Vangelo Domeniche e Festività

XVI Domenica del T.O. – Il troppo affanno per il servizio può separarci dalla Parola.

Betania mNel vangelo di Giovanni Marta appare in due occasioni, e sempre assieme a sua sorella Maria: in Gv 11,1-44 (in connessione con la malattia, morte e risurrezione di Lazzaro, il loro fratello) e in Gv 12,1-8 (nell’episodio noto come l’unzione di Betania).
… Nel vangelo di Luca[ di questa XVI dom. del T.O ] troviamo Marta e Maria in una pericope molto famosa e spesso mal interpretata o interpretata in maniera simplista e sbagliata. …
Secondo una lunga tradizione ecclesiale, questo racconto sarebbe rivolto soltanto alle donne: Marta e Maria rappresentano due forme di vita femminile, mentre gli uomini rimangono fuori dello scenario. Infatti, essi sono rappresentati da Gesù, il loro sposo (cfr. Ef 5).
Da questa prospettiva, emergono due tipi di donne:

  • la donna attiva al servizio delle cose degli uomini (specialmente dei maschi)
  • e le donne contemplative al servizio di Dio.

 Questa divisione può essere utilizzata ad un certo livello, però risulta insufficiente non tanto per quello che dice ma per quello che tace.
 A mio avviso, nel racconto di Luca né Marta è una serva né Maria è una contemplativa.
Esse rappresentano tipologicamente due atteggiamenti caratteristici non soltanto delle donne, ma delle donne in quanto segno visibile della comunità.   Marta e Maria sono lo specchio della comunità composta da uomini e donne.
Marta è colei che accoglie Gesù in casa sua, in un piccolo villaggio, la qual cosa dice molto in favore di questa donna.
Grazie all’accoglienza e all’ospitalità di Marta, il villaggio diventa un   villaggio accogliente e ospitale che contrasta fortemente con il villaggio dei Samaritani, quelli che non ricevettero Gesù (cfr. Lc 9,51-56) e con le case-città che rifiutano i missionari di Gesù (Lc 10,10-12).
Marta, come Zaccheo, accoglie Gesù (supponiamo anche essa piena di gioia, perché erano amici), però mentre Zaccheo parla direttamente con Gesù su certi problemi, Marta lo fa per mezzo di sua sorella.
E qui cominciano i problemi.
Ci troviamo di fronte a due sorelle messe a confronto a causa di un uomo, il che è frequente nella Bibbia e anche nella nostra storia.
 Pensiamo a Sara e Agar, una donna libera e una schiava, vincolate allo stesso marito, Abramo, il cui favore vogliono ottenere.
Ricordiamo anche Lia e Rachele, due donne libere, due sorelle che litigano per l’amore dello stesso uomo: Giacobbe.
O anche Pennina e Anna, due donne libere, una feconda e l’altra sterile, ambedue moglie di Elkana.
Alla luce di queste storie possiamo capire meglio la tensione tra Marta e Maria, le due sorelle protagoniste del nostro racconto.
Maria appare in situazione di discepolo, cioè è seduta ai piedi del Signore (Kyrios) e ascolta la sua parola, così come i giudei che studiavano la Torah si sedevano attorno al loro rabbino per ascoltare e imparare i suoi insegnamenti.
Maria ascolta il Maestro, però non parla, non pone delle domande, non fa delle obiezioni, non discute, soltanto ascolta. Essa riceve la parola e la conserva nel cuore, come faceva Maria la madre di Gesù in Lc 2,19.51. Ed è proprio questo silenzio di Maria, in quanto discepola, che ha fatto nascere un’altra interpretazione del nostro testo molto diffusa, però anch’essa parziale e un po’ tendenziosa. Marta e Maria rappresentano due attività femminili opposte e complementari allo stesso tempo, tutte e due segnate dal silenzio: l’attività svoltasi senza parole (Marta) e la parola ascoltata in silenzio (Maria). 
Marta ha accolto Gesù, però quella che in realtà gli ha dedicato la sua attenzione e il suo tempo è stata Maria.
 Marta era distratta con tante cose da fare. Maria invece era concentrata sulle parole di Gesù.
Alla distrazione di Marta si oppone l’attenzione di Maria, e al molto servizio di Marta si oppone la concentrazione di Maria. Quindi l’informazione del narratore presenta una connotazione negativa: in certe occasioni il troppo servizio può anche essere dispersivo.
La reazione di Marta è immediata e si lamenta direttamente al Signore, perché si trova a dover fare tutto il lavoro da sola. Essa è distratta non per volere suo, ma perché deve portare tutto il peso del lavoro. Quindi, il problema di fondo è la molta, o meglio ancora, la troppa ‘diakonia’ non condivisa.
Di fronte a Gesù le due sorelle entrano in conflitto, perché ambedue vogliono servirlo, benché in maniere diverse. E in certo modo, Marta ha ragione.
Se il lavoro è condiviso, diventa più leggero e si finisce prima.
Se Marta è distratta è per colpa di Maria che l’ha lasciata sola. “Dille dunque che mi aiuti”, dice Marta a Gesù, però questi non accede alla sua richiesta.
Invece di rivolgersi a Maria per rimproverarla a causa della sua negligenza, Gesù risponde a Marta per aiutarla a riflettere, per darle un consiglio.
 L’atteggiamento di Marta è rischioso (cfr. 1Cor 13,1-3), perché si possono fare molte cose per Gesù, dimenticando l’essenziale, cioè l’ascolto della sua Parola.
La risposta del Maestro (“Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno”) ci ricorda un’altra delle sue sorprendenti risposte, questa rivolta alla donna che ha fatto un bel elogio di sua madre: “Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la osservano” (Lc 11,28).
Una cosa sola è necessaria: cercare il Regno di Dio (Lc 12,31). E per trovarlo bisogna lasciare tutto, così come ha fatto Maria.
Essa ha lasciato tutto e si è seduta ai piedi di Gesù per ascoltarlo.
 Maria è stata una donna libera, perché ha voluto scegliere e ha scelto la parte migliore.
Nessuno ha scelto per lei.  La iniziativa è stata tutta sua.
Gesù non dice a Marta di continuare il lavoro, e nemmeno dice a Maria di continuare seduta ai suoi piedi, ma pone l’accento sul valore che ha l’ascolto personale della parola per ambedue le sorelle.
Gesù non condanna Marta, ma le ricorda il rischio di vivere in una continua dispersione. Il troppo affanno per il servizio può separarci dalla Parola di Gesù che è la radice la fonte di ogni servizio.
Gesù vuole una risposta di Marta e una risposta di Maria.
Se da una parte Marta è invitata a superare la sua angoscia per il lavoro e a sedersi accanto a Gesù per ascoltarlo, Maria, dopo aver ascoltato la sua parola, dovrà alzarsi per mettere in pratica la parola al servizio dei fratelli.
Perché mai dobbiamo sempre separare Marta da Maria, l’azione dalla contemplazione, la diaconia dalla parola?
 Tutti noi, uomini e donne, siamo Marta e Maria, attivi e contemplativi, servitori e ascoltatori della Parola. Ognuno/a di noi in quanto singola persona è uno specchio della comunità.
 (Nuria Calduch-Benages – “Il Profumo del Vangelo: Gesù incontra le donne” )

XV Domenica del Tempo Ordinario: la cultura del benessere ci ha reso insensibili alle grida del sofferente!

buon samaritanoPrendendo la Parabola del Buon Samaritano come immagine del cammino pastorale della nostra Chiesa, possiamo cogliere in essa quattro momenti.
 – Il primo momento è come un’introduzione scenica.
In alto sta Gerusalemme, con le sue mura sicure, le case accoglienti, il tempio di Dio che offre bellezza e protezione. Mille metri più in basso, Gerico, la città delle rose, si stende sulle rive del Mar Morto a trecento metri sotto il livello del mare. Tra le due città una zona aspra e desertica, con una strada piena di imprevisti e di pericoli. Un uomo, che scende da Gerusalemme a Gerico, incontra dei briganti, che gli portano via tutto, lo bastonano e fuggono, lasciandolo mezzo morto.
…..  – Il secondo momento della parabola ci presenta il penoso spettacolo della durezza del cuore.
Un sacerdote e un levita, che percorrono quella strada, passano oltre, senza prestare soccorso. La loro durezza è l’immagine della nostra.   I bisogni dei fratelli ci mettono in difficoltà. Rimaniamo chiusi in noi stessi e scarichiamo sugli altri le responsabilità. I rapporti sociali che ci legano ai nostri simili, senza la scintilla della carità, restano inerti. Dobbiamo esaminare umilmente le difficoltà che le nostre comunità incontrano nell’esercizio della carità.
– Il terzo momento è il cuore di tutta la narrazione. Consta di una sola parola greca, che significa: fu mosso a compassione. [Avere compassione in questo Vangelo appare altre due volte: quando Gesù vede il figlio morto della vedova di Nain, ne ebbe compassione e lo risuscita, quando il Padre del figliol prodigo vede il figlio ne ha compassione e gli restituisce la vita. ]
Essa designa l’intensa commozione e pietà da cui fu afferrato un samaritano, che passava per quella stessa strada. Non pensiamo soltanto a un risveglio di buoni sentimenti.
 In altri passi della Bibbia questa parola allude all’immensa tenerezza che Dio prova per ogni uomo. Dobbiamo pensare che con questa parola il racconto evangelico voglia descrivere un evento misterioso che è accaduto nel cuore del samaritano e lo ha, per così dire, attratto nello stesso movimento di misericordia con cui Dio ama gli uomini. …
– Il quarto momento è una conclusione movimentata, tutta premura e azioneil samaritano si avvicina allo sfortunato, si fa prossimo, versa vino e olio sulle ferite, le fascia; carica lo sconosciuto, fatto diventare prossimo, sul proprio asino e lo porta alla locanda; sborsa due monete d’argento per le cure che saranno necessarie. La cosa più bella è che non lo abbandona al suo destino. Sa che può aver bisogno di tante altre cose; allora dice al padrone della locanda: “Abbi cura di lui e, anche se spenderai di più, pagherò io quando ritorno”.  ( Carlo Maria Martini –  “farsi prossimo” – [1985-86] )
 La strategia dell’ora giusta

Dobbiamo mettere in atto la stessa strategia del samaritano, dell’ora giusta. La sapete no la parabola del buon samaritano che arriva sul ciglio della strada, vede un povero che sta perdendo sangue e gli tampona subito le ferite, versa olio e aceto e poi gli fascia le ferite. Eccolo il pronto intervento!! è inutile che ti metti a discutere sulle cause della sofferenza planetaria quando devi tamponare te ferite.
Però il samaritano si accorge che da solo non ce la fa: vede che quello continua a perdere sangue, lo porta all’ospedale più vicino e gli fa fare la TAC, le analisi, e trascorre la notte con lui perché il Vangelo dice: “Il giorno dopo levatosi diede una moneta al primario, all’oste, e disse: “Prenditi cura di lui, al mio ritorno ti rifonderò il resto”. Qui c’è il secondo momento dell’analisi delle situazioni: vedere da dove arrivano tutte le situazioni perverse che giungono a noi come le ultime branchie di un polipo che ha la testa in chissà quale bottega oscura della terra; chissà quali Cagliostri macchinano queste ingiustizie planetarie di cui a noi giungono gli ultimi tentacoli.
Il credente o l’uomo di buona volontà che oggi vuole impegnarsi a condividere la sofferenza degli altri, non deve limitarsi a mettere il borotalco sulle ferite, a sanare le pustole superficiali, epidermiche, ma deve andare a fare l’analisi della situazione perversa da cui derivano quelle manifestazioni esantematiche.
Qui noi siamo carenti anche come comunità cristiana perché abbiamo tantissima esuberanza, veniamo incontro con i pacchi dono, con la S. Vincenzo, ecc. … tanta esuberanza, tanta buona volontà, però chiaramente dobbiamo impegnarci come credenti, questa è la piazzola nuova o il ring nuovo dove dobbiamo combattere la battaglia: l’analisi della situazione. Così si condivide veramente, così ci si batte per la giustizia che è il prologo della pace: fare l’analisi della situazione.
Quindi il samaritano dell’ora giusta, il samaritano dell’ora dopo, ma c’è anche il samaritano dell’ora prima!!, questo lo invento io, non c’è sul Vangelo. Se il samaritano fosse partito un’ora prima, fosse giunto sul luogo del delitto un’ora prima, al momento dell’aggressione, il crimine non sarebbe stato compiuto sulla strada, cioè bisogna giocare d’anticipo.
Una comunità cristiana, ma anche un’istituzione pubblica, oggi deve prevedere a lunga gittata come andranno le cose. Dove va a finire la gioventù di oggi: i ragazzi quando escono dalla scuola quali sbocchi occupazionali troveranno? Questo scrutare l’aurora è proprio delle sentinelle, degli episcopi; coloro che sorvegliano stanno solo per vegliare, vegliare nella notte.
Nel Vangelo di Natale abbiamo letto: “C’erano dei pastori che vegliavano nella notte facendo la guardia al gregge”. Questo è compito dei sindaci, dei vescovi, dei sacerdoti, di tutti li uomini di buona volontà: “C’erano dei pastori che vegliavano nella notte facendo la guardia al gregge”. Questo giocare d’anticipo deve far parte del nostro stile di credenti, perché altrimenti siamo solo dei romantici che fanno dei discorsi, delle belle manifestazioni, delle lotterie, però la condivisione non si scatena mai in termini credibili e forti.
Così per tutte le altre cose: per i problemi della tossicodipendenza, degli sfrattati; a volte bisogna avere il coraggio della denuncia pubblica. Quante situazioni ci sono … non so se sto dando più spazio alla speranza o alla lamentela!! Ma non importa; quando la lamentela è intrisa di accenni di risurrezione è sempre uno stimolo.
In chiesa c’è un canone bellissimo, un preghiera che dice: “Donaci Signore occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei poveri”. Se lo chiediamo come preghiera è perché veramente non ce ne accorgiamo, abbiamo gli occhi chiusi, non riusciamo a vedere le situazioni di povertà. Ci sono delle cose incredibili.
(relazione che Mons. Tonino Bello ha tenuto a Castelplanio il 4 febbraio 1988.)
 La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi
Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto.
La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza.
In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza.
Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro.
( Papa Francesco – Dall’omelia della Messa nella visita a Lampedusa – 09 Luglio 2013 )
 

XIV Domenica del T.O. – Lo stile di colui che annuncia il Vangelo è costitutivo dell’annuncio stesso!

Pro XIV Nel vangelo secondo Luca non ci viene descritto solo l’invio dei dodici Bicnhiapostoli a  Israele. 
Durante la salita verso Gerusalemme Gesù designa altri settandue disepoli e li invia a due a due avanti a sè in ogni città dove sta per recarsi». ( E. Bianchi )
Perché Settantadue? Perché, mentre Dodici è il numero che riguarda le tribù d’Israele, quindi un messaggio è per Israele, Settantadue, secondo il computo che si trova nel libro della Genesi al cap. X, sono le nazioni pagane.  Quindi è una missione universale
Alberto Maggi1Li inviò a due a due”, perché siano una comunità, ma soprattutto perché il numero due era quello indispensabile per essere testimoni …
«Pregate il Signore della messe perché mandi operai nella sua messe»”, non riguarda soltanto le categorie – come a volte si pensa – dei preti, frati e suore, ma è un invito rivolto a tutti quanti, affinché ognuno prenda coscienza dell’urgenza di questa missione. ( A. Maggi )
padreAldoBergamaschiAndate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi…” (sottinteso) voi che prima della mia predicazione eravate dei lupi come tutti, vi rendete conto di cosa significa dire lupi agli ebrei i quali erano il culmine della religiosità, sarebbe come se io oggi dicessi siamo tutti lupi noi cattolici, voi fratelli protestanti, voi ortodossi, e non parliamo degli altri.
Gesù dice: “Io vi mando come agnelli…”, perché dopo tre anni, due anni, un anno di predicazione ha trasformato questi lupi in agnelli e non si tratta di fare la guerra contro i cattivi, il problema è quello di convertirli, quindi preoccupazione pedagogica e non impresa bellica o coloniale, il mandato qualifica direttamente anche il concetto di Chiesa. Ma guai a chi dovesse interpretare questa parola agnelli come un dato di fatto originario, perché agnelli in senso originario non ne esistono, come non esistono lupi. Allora: “Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi”, vi mando come agnelli non contro i lupi, ma in mezzo ai lupi, ecco la funzione del cristiano nel mondo (A. Bergamaschi, Andate e mostrate, 167-168).
charles_de_foucauldComportiamoci sempre come agnelli, secondo l’esempio, a imitazione, in rassomiglianza di Gesù; come lui, lasciamoci non soltanto tosare, ma anche sgozzare, senza lamentarci. Non solamente senza resistenza, ma anche senza lamento: non resistiamo al male, a chi ci percuote porgiamo l’altra guancia, a chi ci toglie il mantello non impediamo che ci prenda anche la tunica…
Non stiamo a difendere né i nostri  beni né la nostra vita, seguendo l’esempio di Nostro Signore Gesù che si lasciò prendere sia i primi che la seconda senza difenderli né con parole né con atti, muto dinanzi ai suoi giudici e non implorando affatto l’aiuto del Padre contro i suoi aggressori, ma null’altro chiedendogli che il loro perdono e la loro salvezza. (..)
E dunque, quale pretesto abbiamo ancora per impedire che ci prendano tutto e che ci mettano a morte senza far resistenza e senza lamento, come Gesù, per non essere sempre e in tutto agnelli innocui, indifesi e muti come Gesù? (C. de Foucauld, Opere Spirituali p. 198-9).
 
Bicnhi    L’aspetto dell’inviato deve essere segno che quanto egli annuncia lo vive in prima persona: tutto deve mostrare la povertà e il senso di urgenza che pervadono la missione, perché lo stile di colui che annuncia il Vangelo è costitutivo dell’annuncio stesso!
Povertà e precarietà non sono di ostacolo all’efficacia della missione, ma sono le condizioni da vivere in profondità affinché la missione sia reale: non basta avere pochi mezzi, occorre essere poveri; non basta annunciare la pace, occorre essere operatori di pace.
E se Cristo è venuto a portare la pace a tutti gli uomini (cf. Ef 2,17), anche a chi non lo ha accolto, altrettanto dovranno fare i suoi discepoli, senza invocare una vendetta dal cielo su chi li respinge (cf. Lc 9,54)…          
E’ a questi inviati, poveri e pacifici, che Gesù dice : «Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me».
Ecco la grande responsabilità dei cristiani: come Gesù con la sua vita ha narrato il Padre (cf. Gv 1,18), ora tocca a noi narrare lui, essere i suoi testimoni nel mondo (cf. Lc 24,48).  ( E. Bianchi )
 
Mazzolari pCristo non garantisce niente a chi lavora per lui, e le condizioni da lui poste restano immutate dopo venti secoli: «Vendi quanto possiedi e dallo ai poveri… Prendi la tua croce e seguimi». 
Senza croce non si può tenergli dietro.  Il variare di essa è cosa di poco conto, quando uno ha accettato la croce.
E anche l’equipaggiamento non è mutato: «Senza borsa, senza denari, senza bastone, senza calzari…».  …. Neanche il campo: «Vi mando come pecore in mezzo ai lupi».
Come vedi, caro don Aurelio, non è fatta menzione né di chiesa, né di canonica, né di oratorio, né di beneficio, né di benevolenza dei grandi…
I tempi sono difficili, ma non fuori dei piani evangelici. Seguendoli, vi puoi fare un’entrata trionfale. Cruci confixu, noli timere (non temere quando sei crocifisso). (DON PRIMO MAZZOLARI, Della Fede, della Tolleranza, della Speranza, 1945, 204s)
 
U NeriIn qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa.
L’offerta della pace non è mai sciupata perché, se anche non è recepita, ritorna a chi l’ha data e ha come frutto l’aumento della pace di chi la offre.    Uno dice: “Dare la pace a quello è come gettare il seme sui sassi perché non viene su niente”. No, ci corregge il vangelo, la pace ritorna a te di rimbalzo.
Tutto l’insegnamento di Gesù richiede una vita spesa nell’attesa della giustizia di Dio e del suo giudizio escatologico, nella fede che è Lui che fa. Il non farsi giustizia e cedere al maligno non significa rassegnarsi all’ingiustizia e all’iniquità come ineluttabili, ma significa, al contrario, consegnarsi al giudizio di Dio. La parabola della zizzania lo dice chiaramente.
(…) L’uomo deve aspettare perché ci pensa Dio a ristabilire l’ordine. La nostra presunzione di mettere ordine nelle cose, base delle false teorizzazioni della resistenza violenta e della guerra in nome dell’opposizione all’ingiustizia va rovesciata. Noi dobbiamo cedere al nemico, non per lasciare che l’ingiustizia trionfi ma per consentire a colui che solo è capace di far trionfare il bene, di agire a suo modo, nelle sue dimensioni e a suo tempo (U. Neri, Guerra, stermini e pace nella Bibbia, 149-150).
 
«Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore» Alberto Maggi1
Nella concezione dell’epoca Satana stava nei cieli, era un funzionario della corte divina, era un ministro di Dio. Basta leggere il libro di Giobbe, dove Dio riceve i suoi figlioli e fra questi c’è anche il Satana. Era l’ispettore generale di Dio, quello che curava i suoi interessi e il suo compito era sorvegliare gli uomini, e poi accusarli presso Dio per poi infliggere loro la pena per i loro peccati.
Ebbene, con l’annunzio dei Settantadue, la Buona Notizia ha avuto successo.  E qual è la Buona Notizia?
La Buona Notizia è che Dio non è buono, ma è esclusivamente buono; il Dio di Gesù non è il Dio della religione che premia i buoni e castiga i malvagi, ma a tutti comunica amore.
Allora il ruolo del Satana è finito; è inutile che accusi presso Dio perché egli a tutti quanti, indipendentemente dal loro comportamento, comunica il suo amore.  Già Gesù in questo vangelo aveva detto: “Perché il Padre è buono verso gli ingrati e i malvagi”.
Allora Satana viene cacciato dal cielo, il suo ruolo è terminato.   E nell’Apocalisse è importante la definizione che viene data di questo episodio, “E’ stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte”.
Poi l’assicurazione finale, “Nulla potrà danneggiarvi”, quindi le forze ostili non potranno farvi male perché la luce è più forte delle tenebre e la vita è più forte della morte. E per ultima cosa Gesù dice “Rallegratevi, non tanto per i vostri successi”, «Rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli»”, cioè l’esperienza di sentirsi amati da Dio ( A. Maggi )
 
 
 
 

XIII Domenica del T.O. – Sequela: consegnare la propria vita a un altro.

sequela“Il brano della vocazione di Eliseo va visto nel suo contesto: Elia ha fatto una semplice preghiera al Signore; ha detto: «Tutto è distrutto, sono rimasto solo»,-ma il Signore gli dice va e gli dà la forza di conferire la regalità e la potenza profetica (ad Eliseo); e pronuncia una parola che è giudizio: la condanna dei reprobi (che si manifesta nella strage) e la salvezza degli eletti
Questo spiega la forza di Elia, nonostante la povertà dei gesti e le adesioni della gente: così un sol gesto basta per strappare Eliseo dalla sua vita abituale: non rimane più spazio per nessun altro interesse e rapporto.
Certo quello che Eliseo fa non è “simpatico”: lascia la sue cose e se stesso: ubbidisce come aveva obbedito Elia; è un gesto difficile la obbedienza dell’uno e dell’altro, l’obbedienza di Elia è la rinuncia al suo potere profetico, è il dono della maturità piena nello Spirito; Eliseo è solo agli inizi e lascia le sue cose; obbedisce con una certa libertà ancora, fa festa, brucia l’aratro e via! 
Poi il Signore ne chiamerà altri: la storia è fatta così: di chiamate di Dio. Basta che teniamo le orecchie aperte e sentiamo bene le prime parole.  «Fora il mio orecchio, Signore, perché io ti ascolti».” (d. G. Dossetti, appunti di omelia, 1971).
Eliseo abbandona subito il campo e i buoi, ma chiede al profeta il permesso di congedarsi dai suoi restando con loro un po’ di tempo e quindi lo seguirà. Qui sta la differenza con le chiamate evangeliche.
     L’essere chiamati ci fa essere quello che non eravamo: eravamo schiavi, ci ha fatti liberi.
Questa libertà non è solo libertà da un tiranno esterno, ma da quanto interiormente ci tiranneggia e che fuori di Cristo è chiamato libertà.
Nell’atto in cui Dio ci ha chiamati, ci ha posto nella libertà, quella che Lui stesso possiede, ci ha fatti partecipi della sua natura divina.
Essere nella libertà equivale essere nello Spirito, cioè esser mossi non più dal principio della carne con le sue passioni corruttrici, ma dal principio dello Spirito, che ci fa essere in Cristo Gesù.
 «Dal testo ai Galati, mi sembra importante cogliere nei versetti precedenti (v. 11-12) la parola che non si può tornare indietro – se si torna indietro si distrugge lo scandalo della Croce !
La croce non può non essere scandalosa: la croce è il perdere la faccia, è scandalo.
È per questo che Gesù «indurì la sua faccia»: è un atteggiamento interiore che si traduce anche all’esterno perchè la croce gli appare per quello che è: di fronte a questo scandalo Gesù indurisce la sua faccia.
È solo a patto di perdere la faccia che si diviene liberi: la libertà del cristiano non può essere vagliata se non attraverso la vergogna che la croce comporta»  (d. G. Dossetti, appunti di omelia, 1971).
    Seguire significa innanzi tutto consegnare la propria vita ad un altro.
… Seguire Gesù è rinunciare ad aprire il cammino, a decidere strategie e rotte, a prendere iniziative: è fidarsi e seguire le orme, fissare le sue spalle, il segno dell’amore che ci ha chiamati caricando la Croce.
Seguire Gesù è affidargli la vita sul concreto legno della Croce che ci accompagna ogni giorno, rinunciare a se stessi per vivere la sua vita.
Ma questo è possibile solo se si ama.
Non si è discepoli in virtù di una propria scelta, neanche di un desiderio, sublime che sia. … E’ un’elezione gratuita
La sequela di Gesù è un esodo d’amore alla ricerca della libertà, come fu per il Popolo d’Israele.
Nessun merito, nessun requisito se non quello di essere il più insignificante e testardo della terra, e, per questo, amato gratuitamente.
    Il discepolo è l’uomo della Pasqua, non può che nutrirsi del pane della fretta, non ha luogo dove riposare; è attratto in un esodo che lo strappa alla schiavitù con un popolo che mostrerà al mondo il destino di libertà preparato per ogni uomo.
Per questo si lascia alle spalle gli Egiziani, non ha tempo per guardarsi indietro e salutare e seppellire il passato di catene e schiavitù, i legami di carne destinati a corrompersi.
Non perde tempo cercando di ricomporre le relazioni morbose, idolatriche, carnali: le seppellirà Dio affogandole nel mare per non rivederle mai più…
Gesù infatti lo ha raggiunto e, come Elia con Eliseo, ha steso il lembo del suo mantello di misericordia che dissolve le opere morte e lo riveste di se stesso. Come pecore ogni giorno smarrite e ogni giorno ritrovate, i discepoli, forse senza neanche rendersene conto, seguono Gesù solo perché caricati e stretti sulle sue spalle.
 
La tana è il luogo dove uno si rannicchia e trova la sua sicurezza, perché ci si ta bene e si sente difeso. Il nido è il calore che nutre e protegge.
Oggi il linguaggio psicoanalitico usa simboli diversi: tana e nido diventano il voler restare nel seno materno e in tutto ciò che esso rappresenta, quindi l’essere coccolati, l’essere al riparo, nel guscio della propria sensibilità, nel caldo degli affetti, al sicuro dell’aggressività.
L’uomo infatti fa fatica ad accettare l’espulsione dall’utero, si traumatizza e rimane perciò sempre tentato di riformarsi un altro nido. Un altro ambiente protetto.
Gesù afferma però che il Regno è una nascita violenta, esige di uscire “ come un gigante dalla tenda, per correre la propria strada ( salmo 19) . Chi vuol restare nella propria tenda non potrà mai capire  appieno il Regno” ( Card. C.M. Martini )
 

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IV° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



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CONCILIO DI VIENNA



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