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Vangelo Domeniche e Festività

XII Domenica del T.O. – Prendere la croce: assumersi il peso di un'esclusione per amore dell'umanità liberata da tutte le divisioni.

prendere la croce mIl brano evangelico odierno è composto di due parti strettamente collegate tra loro, che possono essere sintetizzate da due domande: chi è Gesù? Chi è il suo discepolo?
Nella prima parte Pietro, in risposta a un interrogativo posto da Gesù, lo acclama quale «Cristo di Dio», quale Messia.
E Gesù, dopo aver imposto ai Dodici il silenzio su questa identità, precisa immediatamente quale sia la sua messianicità: quella del «Figlio dell’uomo che deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno».
Ma il brano odierno ci consente anche di sostare più approfonditamente sulle richieste fatte da Gesù a chi vuole seguirlo, ovvero sulle esigenze che dalla sua particolarissima messianicità discendono per i suoi discepoli.
 Gesù – annota Luca – non indirizza il suo sguardo solo alla sua piccola comunità, ma lo estende a «tutti»; rivolge delle precise richieste a tutti coloro che vogliono andare dietro a lui, mettendoli in guardia con chiarezza, anche a costo di scoraggiarli: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua».
Sono parole a prima vista dure, che richiedono a noi una comprensione intelligente: non vanno intese in senso fondamentalista, alla stregua di «un programma di morte»  o di una chiamata all’auto-annientamento, né d’altra parte vanno edulcorate, come se fossero una semplice metafora…    ( E. Bianchi )
Per Gesù prendere la croce non vuol dire fare le mortificazioni. La croce è un emblema di supplizio pubblico, non uno strumento di tortura privata. La croce era il destino dei condannati politici. Gesù prese la croce, cioè assunse su di sé l’obbrobrio della condanna pubblica e andò avanti fino alla sua morte.
Prendere la croce vuol dire accettare questo destino, farsene carico.
Non vuol dire far penitenza, non mangiar carne il venerdì, fare i fioretti; vuol dire assumersi, quando fosse necessario, il peso di un’esclusione per amore dell’umanità liberata da tutte le divisioni.
 “Chi non perde la propria, vita non la salva”.    Perdere la vita vuol dire abbandonare tutte le nostre sicurezze, le nostre garanzie a cui siamo così attaccati, anche quando non sembra, e quindi vuol dire morire, e non necessariamente nel senso fisico ma in senso quotidiano.   ( E. Balducci – Omelie sparse )
Se noi invece vogliamo salvare la nostra vita (la nostra identità) la perdiamo.
Rinnegare se stessi significa smettere di voler affermare se stessi, lottare contro l’egoismo che sempre ci minaccia, contro quella terribile malattia che la tradizione cristiana ha definito philautía, «amore di sé»: una brama perseguita a ogni costo, anche contro e senza gli altri; una preoccupazione esclusiva per sé che induce a considerare il proprio io come misura della realtà.
 Chi vince questo egoismo mortifero cessa di essere ripiegato sui propri interessi e diventa libero di vivere per gli altri, di generare pensieri, parole e azioni finalizzate alla comunione fraterna.      Allora può anche farsi carico della propria croce ogni giorno – precisazione solo lucana –, con faticosa perseveranza.   (E.Bianchi)
 La croce fa ostacolo per chi non ha il coraggio di distaccarsi da se stesso per mettersi nelle mani del Padre.
Essa rimane un puro simbolo muto di dolore, per chi non è disposto a vivere la solidarietà con Cristo e con i fratelli, per chi esige la soluzione automatica di tutti i problemi, per chi vede nel dolore degli altri un fastidio da lasciare sulle spalle degli altri e non una provocazione alla vicinanza e alla comunicazione fraterna.
Incontriamo, allora la croce nelle nostre chiese,  la mettiamo nelle nostre case, la portiamo su di noi senza avere il coraggio di prendere la nostra croce insieme a quella di Gesù.  (Card. Carlo Maria Martini)
 
 

XI Domenica del T.O. – " La donna del profumo": la donna che ama e rischia per l'Amato.

Gesù e la peccatriceIndividuata tradizionalmente come «pubblica peccatrice perdonata o pentita», la donna del profumo è una delle tante donne anonime che compaiono nel vangelo di Luca.
Alcuni la scambiano con Maria di Betania, la sorella di Marta e Lazzaro, o con Maria Maddalena, dalla quale Gesù scacciò sette demoni, o persino con la donna adultera che si trovò nell’imminente pericolo di essere lapidata dai suoi accusatori.
 Per noi, invece, è semplicemente la donna del profumo, è colei che versò il suo vaso di alabastro sopra i piedi del maestro.
 ….   La donna del profumo è la donna del molto amore, la donna della gratitudine infinita, la donna che non sa esprimere in parole quanto il suo cuore sente per Gesù. E giacché non sa parlare, il suo cuore la spinge ad un gesto audace.
 …. Di fatto nessuno l’aveva invitata. Compare al banchetto da intrusa. Essa non appartiene al gruppo. La donna del profumo non è «farisea», non è una «rabbina», non è colta. È solamente una peccatrice rinomata e per di più donna.
Alla nostra protagonista, tuttavia, non danno fastidio i titoli di emarginazione nei suoi confronti e si introduce al banchetto, in un ambito proprio dei maschi. Si informa dov’è Gesù e va direttamente da lui. Desidera incontrarlo. Infrange tutte le strette regole sociali. Affronta il rischio del rifiuto, l’incomprensione, il disprezzo, la condanna. Per lei l’amore e la gratitudine verso Gesù superano di molto i codici sociali. Entra in casa di Simone con un vaso di alabastro ripieno di profumo e si pone dietro a Gesù, piangendo ai suoi piedi .La peccatrice ma
 …  La posizione corporale della donna è molto eloquente. Gesù è reclinato verso la tavola. La donna è sul pavimento, dietro a lui, e tocca con il suo capo i piedi del Maestro. Gesù sta in alto e lei in basso, il più basso possibile. E dal basso la donna piange, lo guarda e gli parla. Parla in silenzio, senza parole. Parla con il suo corpo. Prostrata ai suoi piedi, la donna mostra un atteggiamento di servizio, di discepola, all’ascolto del Maestro, disposta a accoglierne la parola
…. La donna non dice …. compie quattro azioni  successive che hanno al centro i piedi di Gesù: li bacia, li bagna con le lacrime, li asciuga con i capelli e li unge con il profumo. Queste quattro azioni comportano un contatto fisico che Gesù accetta con tutta naturalezza…..
 Baciare: perché baciare i piedi di Gesù? Perché baciare è un gesto di tenerezza. I gesti di tenerezza nascono dall’amore e sono completamente gratuiti. La donna bacia i piedi del Maestro disinteressatamente, senza nulla attendere in contraccambio. ….
 Bagnare di lacrime: perché bagnare di lacrime i piedi di Gesù? Perché le lacrime lavano e purificano il cuore di colui che le lascia scorrere. E la donna aveva bisogno di purificazione interiore. Bagnando di lacrime i piedi di Gesù, la donna gli trasmette i suoi sentimenti più intimi. E contemporaneamente, essa che bagna i piedi di Gesù, lava se stessa di dentro.
…. Asciugare con i capelli: perché asciugare i piedi di Gesù con i capelli? … Il gesto contiene una tremenda forza evocatrice. L’immagine ci riporta al Cantico dei Cantici. Qui lo sposo, estasiato dalla capigliatura dell’amata, esclama: «I tuoi capelli sono un gregge di capre che scendono dalle pendici del Galaad» (Ct 4, 1; 6, 5).
 Ungere con profumo: perché ungere i piedi di Gesù con profumo? La donna desidera mostrare con un generoso dono quanto il suo cuore prova per Gesù. L’olio profumato è un liquido pregiato in serbo per occasioni straordinarie, eccezionali. Non si usa come si usa l’acqua. L’olio profumato è delicato e costoso. Ricordiamo il profumo di nardo puro che con la sua fragranza riempì la casa di Maria di Betania (Gv 12, 3).16 Il profumo non si dona a chiunque, né si usa inutilmente. È un dono destinato a dimostrare deferenza a persone molto amate.
….   La condotta indecorosa della donna non provoca l’indignazione di Simone. Ad irritare il fariseo è  l’atteggiamento di Gesù che accetta baci e carezze profumate di una pubblica peccatrice……. La donna ha cancellato completamente una norma essenziale della pietà dei farisei, cioè la separazione tra puro e impuro. La sentenza di Simone è ineccepibile: Gesù non è un profeta, giacché un profeta non avrebbe mai tollerato uno scandalo simile.
 …. Senza che nessuno glielo sveli, Gesù conosce il pensiero di Simone e già con questo gli mostra la sua qualità di vero profeta….
La strategia dialogica di Gesù è sottile in sommo grado, giacché gioca con la sensibilità e la capacità di  coinvolgimento del suo interlocutore. … Affrontando di petto la problematica del codice di purità, Gesù si sarebbe totalmente escluso dalla possibilità di dialogo con Simone.  ….
 Sceglie perciò un argomento [ parabola tratta dal condono dei debiti ] che li unisce, almeno di principio. … conservando in tal modo la possibilità di comunicazione in un momento di alta tensione.
 La parabola racconta la storia di «un creditore che aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari e l’altro cinquanta e, giacché non avevano la possibilità di restituire i soldi, egli condonò il debito ad ambedue» . I debitori vivono in un autentico conflitto: devono pagare il loro debito, ma non hanno denaro. Il creditore risolve il conflitto in chiave spirituale: condona tutto ad ambedue. Per il creditore, i due debitori sono eguali: hanno un debito e sono senza mezzi per pagarlo. Partendo da essi il conflitto non ha soluzione. E, di fatto, il creditore fa condono ai due senza far differenza.
 … «Chi di essi lo amerà maggiormente?»
 Simone …. risponde con prudenza, o meglio, diplomaticamente:  «Suppongo che sarà colui a cui è stato maggiormente condonato» (v. 43).
Gesù ode da Simone quanto esattamente desiderava udire. Ora può applicare la tattica da lui scelta. È quella stessa che usarono Natan e la donna saggia di Tekoa con il re Davide in distinte circostanze (cfr. 2Sam 12, 1-15 e 14, 1-24).
 Gesù abbandona il piano della finzione e passa subito alla situazione presente reale, interpellando direttamente Simone. La domanda di Gesù: «Vedi questa donna?» (v. 44) è il primo invito che Gesù fa a Simone: il fariseo deve vedere la donna. Ma la deve guardare in altra maniera: non come la trasgreditrice di alcuni riti intoccabili, ma come una donna nuova, liberata e perdonata.
 …  Gesù conclude il suo ragionamento con una frase che riassume tutto l’insegnamento che voleva impartire. Nel caso che Simone non lo avesse compreso in pieno, Gesù aggiunge: «Per questo ti dico che se le sono stati perdonati i suoi molti peccati, è perché ha dimostrato molto amore. A chi poco si perdona, dimostra poco amore» (v. 47).
 … Nella prima parte del versetto  Gesù fa riferimento al comportamento della donna: le sue espressioni di amore sono frutto del perdono ricevuto. Nella seconda, invece, Gesù non nomina nessuno in particolare, ma parla in generale. Qualsiasi persona può sentirsi interpellata.
  … Secondo la nostra opinione, l’ultima parte del versetto può essere compresa come invito personale che Gesù fa a Simone.
Gesù lo invita ad uscire dal suo mondo chiuso, fatto di separazioni e proibizioni, affinché possa godere della logica dell’amore, che in definitiva è la logica del perdono. Gesù non accusa direttamente Simone, però di fatto lo include nella medesima categoria di peccatori a cui appartiene la donna. Simone non lo sa, ma anch’egli è peccatore, anch’egli è debitore. Simone si ritiene puro, perfetto, santo; insomma, si considera una persona di condotta irreprensibile. In realtà anch’egli ha bisogno di un creditore generoso che gli condoni i debiti che ignora. ….
 [ Poi ] Simone scompare dalla scena, ma il racconto continua. E per la prima volta Gesù si rivolge alla donna: «I tuoi peccati sono stati perdonati». Queste parole Gesù le aveva pronunciate nella guarigione del paralitico (Lc 5, 20).
  La decisa affermazione di Gesù sorprende i commensali (in Lc 5, 21 ad essere sorpresi sono gli scribi e i farisei). Ma come prima Simone, neppure essi si azzardano a esprimere forte il loro scandalo. Lo tengono per sé.
È il narratore che ancora una volta ci informa dell’indignazione dei commensali: «Chi è costui che persino perdona i peccati?» . Gesù ne tralascia il commento e torna a rivolgersi alla donna: «La tua fede ti ha salvato, va’ in pace» ….
 
Ancora una volta Gesù ci sconcerta. Sconcertano le sue parole, i suoi gesti, i suoi silenzi. Parole, gesti e silenzi che usano un linguaggio inclusivo. Vogliono abbracciare gli emarginati della società, quelli che vivono alla periferia perché non hanno posto nella città, quelli che nessuno vede e ascolta, poiché non hanno né volto né voce, i mendicanti per necessità, poiché non hanno diritti, i piccoli, gli ammalati, le donne…
 La donna del profumo entra in scena in veste di emarginata, esclusa dal mondo sociale, dal sistema religioso, dal banchetto, dalla tavola, dal dialogo… Essa non ha nome, cultura, prestigio, influenza, autorità e, sicuramente, non dispone neppure di molti mezzi economici.
La donna del profumo ha soltanto la temerità, l’audacia di sfidare le strutture più potenti della società del suo tempo. Essa è sola. È peccatrice e lo sa.   Gode di cattiva reputazione e lo sa.
Non fa assegnamento su alcun gruppo di appoggio; neppure la legge la protegge. Ingaggia la sua rischiosa battaglia solamente con quello che ha: la sua umanità e la sua tenerezza.
  È una donna forte, capace di grande amore disinteressato. E chi ama rischia per l’amato. Ed è questo che essa fa.
Il poco che ha, lo rischia per Gesù. Infrange le norme e si addentra in recinti strettamente proibiti per lei. Tiene fronte agli sguardi d’accusa degli invitati; sopporta il giudizio intransigente di Simone, l’umiliazione del disprezzo di tutti.
…. La donna manifesta il suo amore e riconoscenza verso Gesù usando il linguaggio del corpo. Le viene più facile esprimersi così che con un discorso ben preparato. Essa non ha bisogno di parole. Le bastano i suoi gesti di tenerezza: baciare i piedi di Gesù, bagnarli con le sue lacrime, asciugarli con i suoi capelli e ungerli con il suo profumo. Gesti arbitrari, non necessari, insoliti, se si guardano con gli occhi della logica, della legge, degli strati sociali. Ma la tenerezza rifiuta di entrare nei parametri intellettuali, etici o sociali.
La tenerezza non si apprende dalla legge, ma dal cuore, non si valuta dalla legge, ma dal perdono; non si spiega partendo dal di fuori, ma dal di dentro. Per questo Simone manca di tenerezza. Come tanti  altri deve apprendere a guardare con occhi nuovi. Diversamente non potrà mai essere in sintonia con la dinamica inclusiva di Gesù.
E che fa Gesù? …. Gesù accoglie il suo amore e riconoscenza, ne accetta le carezze, ne aspira il profumo, la guarda faccia a faccia, parla con lei, ne loda il gesto, ne perdona i peccati e le ridona la pace del cuore.
 La donna entra senza dignità e senza sostegno nella casa del fariseo e ne esce con il riconoscimento della sua dignità, con il perdono.
  … La donna del profumo non è nel nostro vangelo l’unica esclusa che riceve l’abbraccio di Gesù. Altri esclusi ed escluse – penso, ad esempio,  all’emorroissa, al  lebbroso riconoscente o al cieco di Gerico – vivranno la medesima esperienza. Gesù li accomiata tutti con il medesimo elogio: «La tua fede ti ha salvato».
 (Nuria Calduch-Benages – “Il Profumo del Vangelo: Gesù incontra le donne)
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nuriaNuria Calduch-Benages è nata a Barcellona (Spagna) il 26 marzo 1957. Dal 1978 è membro della Congregazione Missionarie Figlie della Sacra Famiglia di Nazareth. Si è laureata in Filologia anglo-germanica all’Università Autonoma di Barcellona, Bellaterra (1978) e in Sacra Scrittura al Pontificio Biblico di Roma con una tesi sul libro di Ben Sira (1995). Attualmente è docente di Antico Testamento nella Facoltà di Teologia della Pontificia Università Gregoriana e di antropologia biblica nell’Istituto di Spiritualità della stessa Università. È anche Direttrice della Sezione Recensioni della rivista «Biblica» (PIB, Roma) e assidua collaboratrice della FBC (Federazione Biblica Cattolica). Membro dell’ABE (Asociación Bíblica Española), ABC (Associació de Biblistes de Catalunya), ABI (Associazione Biblica Italiana), ATE (Asociación de Teólogas Españolas), SBL (Society of Biblical Literature) e ISDCL (International Society for the Study of Deuterocanonical and Cognate Literature).

X Domenica del T.O. – La resurrezione del giovanetto di Naim: emblema stupendo della vittoria della vita sulla morte che si è manifestata in Gesù Cristo..

vedova naimI profeti avevano raffigurato la relazione tra Dio e il suo popolo attraverso l’immagine di un matrimonio. Dio era lo sposo e Israele la sposa. Ma, a causa delle tante infedeltà, dei tradimenti di questo popolo, questo matrimonio si considerava ormai cessato e il popolo di Israele si considerava come una vedova, una senza marito (il marito è quello che da protezione, sicurezza alla sua famiglia).
 ….L’evangelista Luca [ unico in cui si trova questa narrazione ] fa seguire questo episodio a un altro importante, quando Gesù è stato chiamato, invocato, in soccorso da parte di un centurione. ( raffigurava il mondo pagano che chiede l’intervento di Gesù. ) ….
 “In seguito”, quindi in relazione all’episodio del centurione, si recò in una città chiamata Nain. (Nai è un termine che probabilmente significa “grazioso, piacevole”, ed è nei pressi di Nazaret. ).  ….
Due cortei che si incontrano:  uno, quello di Gesù con i suoi discepoli, è portatore di vita, mentre dalla città esce un corteo portatore di morte “ che [ accompagnava ] al sepolcro un morto, figlio unico di madre vedova e molta gente della città era con lei.
Vedendola, il Signore ne ebbe compassione.
 Nel mondo ebraico si distingue tra avere compassione e usare misericordia. Usare misericordia è un atteggiamento degli uomini, ma avere compassione è un’azione solo divina. E’ un’azione con al quale si comunica, si restituisce vita a chi vita non ce l’ha.
Nel vangelo di Luca la troviamo tre volte, questa è la prima, poi nella parabola del Samaritano dove Gesù l’attribuisce addirittura ad un uomo, eretico per giunta, perché si comporta come Dio e quindi comunica vita, e infine nella parabola del figliol prodigo quando il padre, vedendo il figlio, che considerava morto, ebbe compassione.
 E le disse: “Non piangere!” E accostatosi, toccò la bara.
 Nell’episodio precedente col centurione era bastata la parola di Gesù.
… La legge proibiva di toccare la bara, laddove per “bara” si intende una semplice lettiga e il defunto era coperto da un lenzuolo.,  perché chi toccava un cadavere o una bara contraeva l’impurità.
 [ Toccandola ] Gesù “ trasgredisce” la legge per far comprendere che la causa della morte di questo popolo è l’osservanza di una legge fine a se stessa, una legge che non serviva al bene dell’uomo …. La legge era uno strumento per dominare, per opprimere il popolo e il risultato è che il popolo è morto. 
(fr. Alberto Maggi )

 ***

  …È molto audace introdurre in questa epopea di morte, dove la morte ha sempre la meglio, la parola della resurrezione.
E’ il momento sconcertante dell’ annuncio cristiano che non è un annuncio religioso perché le religioni spesso assecondano, con pietà più o meno alta, l’istinto della consolazione.
Le religioni mirano a consolare l’uomo dal morire.
L’annuncio cristiano invece non segue questa strada, se lo liberiamo dalle sue decadenze religiose, funebri che sono enormi.
L’istinto di morte è così forte nell’uomo che riesce a manipolare ed a omogeneizzare a sé anche gli annunci opposti per cui, come i più anziani sanno, le chiese erano luoghi funebri, le messe erano messe da morto e i drappi neri dominavano ovunque.
Questo istinto di morte ha la meglio su tutti perché è il più potente degli istinti che abbiamo in noi.
La parola della resurrezione è una parola che ci prende di petto perché è incredibile, non risponde alla nostra esperienza.
Non abbiamo visto nessun figlio di madre vedova alzarsi dal feretro. Non abbiamo sotto gli occhi nessuna prova che questo è vero. Questa parola fa appello alla nostra fede e al suo fondamento: è la potenza di Dio che vince ogni limite.
Noi crediamo, nonostante tutto, – è la nostra scommessa – che quel Dio che dà la vita al fiore, all’uccello dell’aria, alle stelle, all’universo fisico in tutta la sua espansione, ha la possibilità di darci la vita vincendo la morte.
La nostra speranza si basa su questo e Gesù Cristo è il nostro fratello in cui si è compiuto il mistero del morire e del vivere.
La resurrezione è il messaggio di Gesù Cristo. Però questo messaggio dobbiamo coglierlo nella sua pienezza.
Quando Egli dava la vista al cieco era la resurrezione, quando dava il pane agli affamati era la resurrezione, quando diceva: ‘beati voi afflitti perché sarete consolati’ dava la resurrezione, quando diceva: ‘guai a voi, o ricchi’ dava la resurrezione, quando diceva: ‘guai a voi o Farisei’ spezzava i sepolcri, quando di fronte a Pilato diceva: “Tu non hai nessun potere se non ti fosse dato” spezzava le catene dell’impero romano. Egli spezzava i sepolcri.
È questa esistenza per la liberazione, in tutto l’arco simmetrico alle schiavitù che sperimentiamo, il mistero di Gesù Cristo. Ecco perché Egli è credibile.
Egli prima di sperimentare, per dono del Padre, la liberazione dal sepolcro, ha spezzato tutti i sepolcri per amore, fino a dare la sua vita perché tutti gli uomini fossero liberi da morte.
Ricompongo così in unità un messaggio che altrimenti rischiamo di meditare nella sua settorialità, nella sua coincidenza con il nostro impulso biologico a rifiutare la morte, che è un impulso santo, non va sconsacrato.
Dobbiamo essere dalla parte di coloro che non rendono normale il morire.
Tutte le filosofie, le scienze che vogliono portarci ad accettare come normale il morire sono strumenti di persuasione occulta che portano in sé anche, forse, una spinta a rassegnarci a tutti i sepolcri.
Solo chi rifiuta la morte in tutte le sue espressioni conserva in sé le riserve di rivoluzione necessaria per non accettare nessun sepolcro, né sacro né profano.
Questo amore per la vita è il valore sommo che dobbiamo avere.
Certamente deve essere un amore che va mediato attraverso tutte le dimensioni dell’amore e non chiuso in una specie di impulso biologico al vivere ad ogni costo.
Chi dice: sono pronto a morire per vivere … ha detto una parola misteriosa perché contraddittoria. Ci sono giovani pronti a morire per amore della vita e questo al di là di ogni motivazione esplicita: ecco il segno che in noi c’è molto mistero che fa riscontro al mistero di Dio di cui parliamo e al mistero di Gesù Cristo che è vissuto come coloro che per spezzare le catene dello morte hanno saputo dare la vita.
Questo è il messaggio che ci viene dato.
Dopo avere attraversato queste riflessioni che ci contestano, che ci coinvolgono, possiamo guardare con occhi insospettabili la scena di Gesù che prende per la mano l’adolescente morto e lo fa alzare. E’ un emblema stupendo di questa vittoria della vita sulla morte che si è manifestata in Gesù Cristo.
(Ernesto Balducci- da: Omelie inedite 1989)
 

SS. Corpo e Sangue di Gesù: L’Eucaristia è il Sacramento della comunione, che ci fa uscire dall’individualismo per vivere insieme la sequela, la fede in Lui.

Molt pan pesCari fratelli e sorelle, nel Vangelo che abbiamo ascoltato, c’è un’espressione di Gesù che mi colpisce sempre: «Voi stessi date loro da mangiare» (Lc 9,13).
Partendo da questa frase, mi lascio guidare da tre parole: sequela, comunione, condivisione.
1. Anzitutto: chi sono coloro a cui dare da mangiare?
La risposta la troviamo all’inizio del brano evangelico: è la folla, la moltitudine. Gesù sta in mezzo alla gente, l’accoglie, le parla, la cura, le mostra la misericordia di Dio; in mezzo ad essa sceglie i Dodici Apostoli per stare con Lui e immergersi come Lui nelle situazioni concrete del mondo.
E la gente lo segue, lo ascolta, perché Gesù parla e agisce in un modo nuovo, con l’autorità di chi è autentico e coerente, di chi parla e agisce con verità, di chi dona la speranza che viene da Dio, di chi è rivelazione del Volto di un Dio che è amore. E la gente, con gioia, benedice Dio.
Questa sera noi siamo la folla del Vangelo, anche noi cerchiamo di seguire Gesù per ascoltarlo, per entrare in comunione con Lui nell’Eucaristia, per accompagnarlo e perché ci accompagni.
Chiediamoci: come seguo io Gesù?
Gesù parla in silenzio nel Mistero dell’Eucaristia e ogni volta ci ricorda che seguirlo vuol dire uscire da noi stessi e fare della nostra vita non un nostro possesso, ma un dono a Lui e agli altri.
2. Facciamo un passo avanti:
da dove nasce l’invito che Gesù fa ai discepoli di sfamare essi stessi la moltitudine?
Nasce da due elementi: anzitutto dalla folla che, seguendo Gesù, si trova all’aperto, lontano dai luoghi abitati, mentre si fa sera, e poi dalla preoccupazione dei discepoli che chiedono a Gesù di congedare la folla perché vada nei paesi vicini a trovare cibo e alloggio (cfr Lc 9,12).
Di fronte alla necessità della folla, ecco la soluzione dei discepoli: ognuno pensi a se stesso; congedare la folla!
Ognuno pensi a se stesso; congedare la folla!
Quante volte noi cristiani abbiamo questa tentazione!
Non ci facciamo carico delle necessità degli altri, congedandoli con un pietoso: “Che Dio ti aiuti”, o con un non tanto pietoso: “Felice sorte”, e se non ti vedo più…
Ma la soluzione di Gesù va in un’altra direzione, una direzione che sorprende i discepoli: «Voi stessi date loro da mangiare».
Ma come è possibile che siamo noi a dare da mangiare ad una moltitudine? «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente» (Lc 9,13). Ma Gesù non si scoraggia: chiede ai discepoli di far sedere la gente in comunità di cinquanta persone, alza gli occhi al cielo, recita la benedizione, spezza i pani e li dà ai discepoli perché li distribuiscano (cfr Lc 9,16).
E’ un momento di profonda comunione: la folla dissetata dalla parola del Signore, è ora nutrita dal suo pane di vita.
E tutti ne furono saziati, annota l’Evangelista (cfr Lc 9,17).
Questa sera, anche noi siamo attorno alla mensa del Signore, alla mensa del Sacrificio eucaristico, in cui Egli ci dona ancora una volta il suo Corpo, rende presente l’unico sacrificio della Croce.
E’ nell’ascoltare la sua Parola, nel nutrirci del suo Corpo e del suo Sangue, che Egli ci fa passare dall’essere moltitudine all’essere comunità, dall’anonimato alla comunione.
L’Eucaristia è il Sacramento della comunione, che ci fa uscire dall’individualismo per vivere insieme la sequela, la fede in Lui.
Allora dovremmo chiederci tutti davanti al Signore: come vivo io l’Eucaristia?
La vivo in modo anonimo o come momento di vera comunione con il Signore, ma anche con tutti i fratelli e le sorelle che condividono questa stessa mensa?
Come sono le nostre celebrazioni eucaristiche?
 
3. Un ultimo elemento: da dove nasce la moltiplicazione dei pani?
La risposta sta nell’invito di Gesù ai discepoli «Voi stessi date…», “dare”, condividere.
Che cosa condividono i discepoli? Quel poco che hanno: cinque pani e due pesci. Ma sono proprio quei pani e quei pesci che nelle mani del Signore sfamano tutta la folla. E sono proprio i discepoli smarriti di fronte all’incapacità dei loro mezzi, alla povertà di quello che possono mettere a disposizione, a far accomodare la gente e a distribuire – fidandosi della parola di Gesù – i pani e pesci che sfamano la folla.
E questo ci dice che nella Chiesa, ma anche nella società, una parola chiave di cui non dobbiamo avere paura è “solidarietà”, saper mettere, cioè, a disposizione di Dio quello che abbiamo, le nostre umili capacità, perché solo nella condivisione, nel dono, la nostra vita sarà feconda, porterà frutto. Solidarietà: una parola malvista dallo spirito mondano!
 
Questa sera, ancora una volta, il Signore distribuisce per noi il pane che è il suo Corpo, Lui si fa dono. E anche noi sperimentiamo la “solidarietà di Dio” con l’uomo, una solidarietà che mai si esaurisce, una solidarietà che non finisce di stupirci: Dio si fa vicino a noi, nel sacrificio della Croce si abbassa entrando nel buio della morte per darci la sua vita, che vince il male, l’egoismo e la morte.
Gesù anche questa sera si dona a noi nell’Eucaristia, condivide il nostro stesso cammino, anzi si fa cibo, il vero cibo che sostiene la nostra vita anche nei momenti in cui la strada si fa dura, gli ostacoli rallentano i nostri passi.
E nell’Eucaristia il Signore ci fa percorrere la sua strada, quella del servizio, della condivisione, del dono, e quel poco che abbiamo, quel poco che siamo, se condiviso, diventa ricchezza, perché la potenza di Dio, che è quella dell’amore, scende nella nostra povertà per trasformarla.
Chiediamoci allora questa sera, adorando il Cristo presente realmente nell’Eucaristia: mi lascio trasformare da Lui? Lascio che il Signore che si dona a me, mi guidi a uscire sempre di più dal mio piccolo recinto, a uscire e non aver paura di donare, di condividere, di amare Lui e gli altri?
Fratelli e sorelle: sequela, comunione, condivisione.
Preghiamo perché la partecipazione all’Eucaristia ci provochi sempre: a seguire il Signore ogni giorno, ad essere strumenti di comunione, a condividere con Lui e con il nostro prossimo quello che siamo. Allora la nostra esistenza sarà veramente feconda. Amen.
( Papa Francesco )

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non questioni
migratorie

Riflessioni sui
Migranti:
ricordando
La storia
di Ruth

P. Sorge
La politica
di chiusura
Mostrerà
la propria
disumanità

Lettera al
Presidente
della Repubblca
delle clarisse
carmelitane

Il nuovo patto
delle Catacombe
Chiesa povera
per i poveri

Cardinale Zuppi
a "Che tempo che fa"