Vangelo Domeniche e Festività
V Domenica di Pasqua: Gesù comanda quello che non è possbile comandare: l'AMORE.
Nel vangelo di Giovanni l’unica volta che Gesù comanda qualcosa ai suoi, comanda quello che non è possibile comandare: l’amore.
Non è possibile comandare l’amore.
Si può comandare all’uomo di obbedire, di servire, ma non l’amore.
Il contesto ( in cui Gesù fa questa affermazione) è quello dell’ultima cena che Giovanni ha presentato con la lavanda dei piedi fatta da Gesù ai suoi discepoli.
Gesù non dice “Vi do un nuovo comandamento”, cioè un comandamento che va ad aggiungersi a quelli della legge di Mosè. …. ma dice: “Vi do un comandamento nuovo” ( il termine greco “nuovo” indica una qualità migliore, che supera e toglie tutto il resto,) quindi potremmo tradurre “Vi do un comandamento migliore”. “Che vi amiate gli uni gli altri come ..” ( questo “come” non indica il modo, ma è la motivazione, il perché. ) “Come io ho amato voi”.
Gesù non dice “come io vi amerò”, non sta parlando dell’amore del dono totale che poi manifesterà con la croce, morendo in croce, ma è al passato “come io ho amato voi”.
E Gesù ha amato i suoi attraverso la lavanda dei piedi, quindi un amore che diventa servizio per gli altri, un segno che significa dare dignità e libertà alle persone, un amore che non si scoraggia, rispetta la libertà dell’altro e risponde all’odio con l’amore, come Gesù ha fatto con Giuda.
Quindi questo “amato” ha due significati: il servizio, che rende le persone libere, piene della loro dignità, e un amore che viene dato in risposta all’odio …
Alla base dell’unico comandamento della comunità di Gesù non c’è una dottrina, ma un gesto d’amore che si fa servizio.
Mentre la dottrina divide, l’amore è quello che unisce.
E poi le parole di Gesù: “Da questo”, cioè da un amore che si fa servizio e non si scoraggia di fronte alle risposte negative, “tutti sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri”.
L’unico segno distintivo della comunità cristiana è un amore che diventa visibile attraverso il servizio e attraverso la proposta, l’offerta d’amore anche a chi non lo merita.
……
L’unica caratteristica della sua comunità è un amore simile al suo.
(A. Maggi)
IV Domenica di Pasqua: Dio-Pastore: un dramma, " un'esistenza" a lottare per il suo gregge, a rischiare per lui.
Quanto è drammatico questo tema del pastore anche nellʼAntico Testamento!
Vita dura quella del pastore, vita dura quella delle pecore: il caldo, la sete, la minaccia di non trovare lʼacqua al momento giusto, le notti terribili, lʼurlo delle belve, la possibilità estrema che il pastore debba giocare lʼesistenza per salvarsi e per salvare il suo gregge. La lotta corpo a corpo con i nemici, con i lupi, con le belve: questʼombra percorre tutta la rivelazione e i salmi la indicano con un appellativo che non è per nulla attenuante: il leoncello in agguato (cfr. Sal 17,12; 104,21).
Ecco lʼaltro aspetto di Dio pastore: un dramma, unʼesistenza impegnata a lottare per il suo gregge e a rischiare per lui.
Dio sa che il suo gregge è consegnato alla morte non per scelta sua a causa del peccato, e perciò è deciso a lottare per ristabilire le cose come avrebbero dovuto essere, si impegna, rischia, lotta in una contraddizione continua anche lui, anche Dio, il pastore di Israele. E questa contraddizione poi esplode e si manifesta in Cristo: la sua vita, la sua morte.
E se queste righe del Vangelo di oggi, una per una, ci commentano il dramma, in realtà tutto il racconto evangelico presenta questo dramma, che Cristo percepisce fin dal principio.
Comincia già nella prima parte delle narrazioni evangeliche a porsi come il pastore che sente le sue viscere appassionatamente commosse per questo gregge senza pastore (cfr. Mt 9,36; Me 6,34), anzi, per questo gregge che ha per pastore la morte (cfr. Sai 49,15), che è tutto circondato dalle belve che tentano di aggredirlo e di disperderlo.
Cristo sente drammaticamente il suo essere in mezzo a loro come lʼunico e sa che nella passione si verificherà che, colpito il pastore, le pecore si disperderanno (cfr. Mt 26,31).
Dovrà risorgere per potere nuovamente riunire il gregge; se non risorgerà, nonostante tutti gli insegnamenti già dati nella sua vita, il gregge non si riunirà più. (G. Dossetti, Omelie del tempo di Pasqua, 191-192, Ed. Paoline)
L’ esercizio pastorale avviene nella relazione del Pastore con l’intero gregge e con ciascuna delle pecore.
Dovrebbero ricordarlo i pastori della chiesa: se infatti il loro ministero non è vissuto come la relazione quotidiana di chi sta «in mezzo» (Lc 22,27) alla comunità, essi finiscono per diventare dei funzionari…
Purtroppo ciò accade sempre di più nella chiesa, e così i credenti, le pecore, si sentono sempre di più organizzati in gregge, impegnati in svariati servizi, trattati come «militanti», ma soffrono in realtà di mancanza di rapporto e di comunicazione con il pastore.
Ogni relazione autentica, invece, si nutre innanzitutto di presenza, poi di ascolto, comunicazione, amore, cura e dedizione, fino al dono della vita.
Sono questi gli atteggiamenti con cui va vissuta la pastorale, se non si vuole che essa scada a mera burocrazia, a un impegno da funzionari.
Se il pastore ha con le pecore la relazione vissuta e insegnata dal «Pastore grande delle pecore» (Eb 13,20), allora egli sarà anche capace di aprire loro il rapporto con Dio, colui che lo ha voluto come pastore a immagine di Gesù….
Ecco in fondo a cosa servono i pastori nella chiesa, i vescovi, i presbiteri: ad aiutarci ad essere consapevoli che noi siamo custoditi nella mano di Gesù Cristo, il quale ci vuole collocare nella mano di Dio, da cui niente e nessuno ci può strappare. ( Dal commento al vangelo di Enzo Bianchi )
III Domenica di Pasqua: Siate Pastori del gregge affidatovi!
“Pasci i miei agnelli, le mie pecorelle”.
Blaise Pascal, …, fa lʼosservazione: “Gesù dice, pasci i miei agnelli, i miei, non i tuoi”, terribile!
Noi siamo agnelli di Cristo, non del papa, …. Chi pascola – “Pasci i miei agnelli” – è lui pure un garzone, non è il padrone, il padrone del gregge è Gesù, il pastore è lui, gli agnelli e le pecorelle non sono di Pietro: Pietro è in servizio, non in comando. Tra noi niente piramide, ma fratellanza, perché apparteniamo direttamente a Cristo pastore, non a lui per il tramite di scansioni gerarchiche, che non siano un puro servizio (A. Bergamaschi, Andate e mostrate, 128).
Pascete il gregge che vi è stato affidato …. Siate pastori !
La Chiesa perciò è di Dio, il gregge è di Cristo. Risulta chiaro che lui è il vero pastore, il pastore supremo (v. 4: archipoìmen). Il gregge è suo e di nessun altro, è lui che lo possiede e lo conduce; noi siamo vicari, collaboratori, aiutanti, delegati.
È fondamentale, per conservare la pace del cuore e liberarci dall’ ansietà, sapere che, pur sacrificandoci per il gregge, non ne siamo i responsabili ultimi. Siamo certamente responsabili davanti a Dio, ma ricordando che non potremo mai aver cura della nostra gente più di quanto ne abbia il Signore.
È lui il padrone unico.
Noi abbiamo il compito di pascere «sorvegliando» (epi-skopountes), come chi vede dall’alto e non si lascia condizionare dalle situazioni, perché vede e giudica l’insieme, senza affannarsi o preoccuparsi per i particolari, ma valutando tutto in un ambito generale più vasto.
Le caratteristiche del pascere:
– «Non per forza», non dando l’impressione di portare un peso.
Conosco presbiteri e anche Vescovi che vivono molto il loro ministero come fatica e quasi fanno sentire alla gente il rimprovero per il peso che devono portare.
Sovente raccomandavo ai parroci: guardate che il buon umore della gente dipende dal vostro buon umore. Se voi siete tristi, affaticati e di cattivo umore, i fedeli si accorgono immediatamente e non sanno in che modo aiutarvi. Se invece sorridete, siete contenti, vi seguono volentieri. E lo stesso vale per un Vescovo.
«Secondo Dio». …. Chi è responsabile deve essere sempre conscio di non compiere la propria volontà, ma quella del Signore e quindi la vive con pace, serenità, tranquillità. È il Signore che lo guida e si rende in qualche maniera responsabile delle sue azioni.
«Non per vile interesse». Dobbiamo essere liberi da ogni interesse, sia di beni e di denaro, come pure di prestigio. Cito a chiarimento due passi della Scrittura.
Il primo si trova nel Discorso di Paolo a Mileto: «Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani» (At 20, 33-34). …
È decisiva la testimonianza di disinteresse e la gente è molto sensibile nel cogliere qualunque segnale di avarizia nel prete o nel Vescovo. ……
Non si nega ovviamente che si possa ricevere il giusto compenso per il proprio sostentamento, e però la gratuità è la caratteristica evangelica di fondo.
Ed è appunto la proprietà del responsabile che si spende nel servizio alla gente, senza calcolare troppo gli orari e le prestazioni. È certamente giusto fissare un orario, avere una regolarità, e però c’è differenza tra il darsi un orario e il ritirarsi in casa, facendo capire alla gente che non vogliamo essere disturbati.
«non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge».
…. L’autorità nella Chiesa è anzitutto l’autorità dell’ esempio, come ci insegna Gesù:
«Chiamati a sé i Dodici, disse: “I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti“» (Mt 20, 24-28).
E in una circostanza simile Gesù ha detto ancora:
«Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22, 27).
È questo l’ideale per un presbitero, per un Vescovo, per un responsabile di comunità: dare l’esempio, fare per primi ciò che chiediamo agli altri; insegnare, comandare col nostro modo di vivere. Allora le nostre parole saranno credibili.
Ritengo utile sottolineare che esiste un pericolo contrario allo spadroneggiare; è il caso del prete, del responsabile che non comanda affatto, facendosi anzi guidare dalla gente.
Eppure l’esperienza dimostra che la gente ha bisogno di una guida, non autoritaria, non imperiosa, non autocratica. Ha molto bisogno di riferirsi e anche di obbedire a persone che fanno crescere e danno fiducia di volere il vero bene, in modo da essere accompagnata soprattutto nelle scelte decisive della vita. E allora si fa disponibile ad ascoltare più di quanto non si pensi, pur se dobbiamo riconoscere che l’obbedienza è oggi qualcosa di estremamente difficile. …( C..M. Martini ).
Domenica delle Palme: È questa la fede cristiana: la morte si capovolge in vita…
La fede cristiana non ha come suo oggetto una dottrina, né un mondo immaginario collocato oltre lo spazio e il tempo, ma ha come suo contenuto l’evento di cui abbiamo ascoltato la narrazione, nel quale essa ripone il significato di tutta la storia dell’umanità.
È questa dunque la particolarità della nostra fede: essa si innesta in un fatto che, per quanto abbia dato luogo a spiegazioni e dottrine, rimane in se stesso impenetrabile e misterioso.
Esso è un fatto in cui, anche guardandolo senza la particolare illuminazione della fede, vengono ad intrecciarsi mirabilmente gli aspetti più essenziali della nostra esperienza umana, privata e pubblica.
Intanto, esso è un fatto politico; quella morte non è una morte qualsiasi, è una morte preparata secondo le leggi, preparata dai poteri terreni – sia quelli sacri che quelli profani – e voluta anche dalla folla che ad un certo punto, integrata nella ideologia dei potenti, si associa alla trama dei nemici di Gesù e dice: «Crocifiggilo».
È una morte voluta dalla società intera in cui Gesù era passato annunciando il regno.
Da qui il carattere di catastrofe che ha questo fatto.
L’uomo che spira sul monte del Cranio aveva sollevato entusiasmo nei poveri, aveva promesso il possesso della terra ai miti, aveva dato adempimento alle speranze inestinguibili che si erano trascinate lungo i secoli nascoste e represse.
Quest’uomo, in cui i discepoli avevano creduto appassionatamente, viene eliminato.
Il terremoto è come la traduzione cosmica dell’evento: è veramente la catastrofe delle speranze umane.
Gli spiriti più attenti, che non sono stati in grado di cogliere in questo evento nessun annuncio di salvezza, hanno sempre addotto la croce come il segno che per gli uomini giusti in questo mondo non c’è posto, che la giustizia di un uomo lo rende escluso o condannato.
È una verità che con il passare dei secoli non si è per niente appannata.
Noi sappiamo che è così.
Solo attraverso compromessi, più o meno dignitosi, ci è possibile immaginare un giusto che sopravvive e se ci mattiamo nella categoria dobbiamo riconoscere che sicuramente se non siamo esclusi è perché qualche peccato c’è, o in noi o nel mondo a cui apparteniamo.
Siamo sorretti dalle complicità che ci precedono, che ci sovrastano ed il cui peso ricade sulle vittime dell’ingiustizia, della persecuzione, della repressione politica, della fame, che sono sempre presenti in questo mondo.
La passione che abbiamo ascoltato continua in proiezione cosmica.
Quando rileggo e medito questo evento sono preso da un’impressione forte, che potrei tradurre con le stesse parole che Gesù disse prima di essere condotto via dall’orto del Getsemani: «Questa è la vostra ora, è l’impero delle tenebre».
L’imperio delle tenebre ha il suo acme nel momento in cui Egli spira, in cui il crimine è stato compiuto.
Dal punto di vista dei valori, dal punto di vista di una prospettiva positiva della storia umana quello è il punto zero, perché ciò che è avvenuto avviene per tutti i secoli dei secoli.
La croce è, innanzitutto, la memoria – semmai ci scappasse di mente –della inevitabilità della catastrofe della morte.
La fede cristiana non scavalca la morte, non la circonda con favole, ma vi si precipita, l’assume come misura di tutte le cose. L’ora delle tenebre continua, la portiamo in noi, respira nelle nostre cellule, prepara le sue trame.
Mettersi nel buio di quest’ora è per noi stare nella verità.
Ma questo evento non riguarda soltanto il nostro destino individuale chiuso dentro la parabola inevitabile degli anni, riguarda l’intera storia dell’umanità che ha al sua ora delle tenebre in cui tutto è azzerato: tutto ciò che fu gloria e grandezza è nulla.
Un aspetto singolarissimo di questo racconto – che non vi sarà fuggito – è come, veduto dalla parte del condannato, la storia degli uomini – quella di Pilato, con l’impero che ha dietro, di Caifa con l’epopea di salvezza del popolo giudaico, di Erode il furbo potente che giudica Gesù Cristo come un pazzo e come tale lo rimanda a Pilato – è segnata da una terribile ironia sulle espressioni istituzionali.
Mi vengono in mente le parole di un imperatore romano: «Fabula acta est» (la commedia è finita).
Le trame di Caifa, Pilato, Erode e di ciò che è dietro di loro sono una commedia.
Il potere che Gesù descrive ai suoi discepoli in maniera così precisa quando li esorta a non comportarsi come i potenti di questo mondo appare veramente come una smisurata commedia.
C’è, nel potere, la menzogna, la falsità la presunzione degli uomini di poter decidere del destino degli altri, il gusto satanico del comando e finalmente il trionfo attraverso il rispetto delle regole della legge che danno la presunzione di compiere un crimine con innocenza.
Tutto questo appare come una tragica commedia.
L’occhio della croce rimane in noi quando osserviamo la storia di cui siamo partecipi.
Questi potenti che fanno follie (che non sembrano tali perché anche noi siamo omologati alla follia), che sperperano capitali per le loro grandezze, che preparano guerre impossibili, dissanguando per questo i popoli, a questo sguardo essenziale, che azzera la storia rivelano una loro intima comica tragicità.
Momento grande della sapienza della croce.
Di fronte a questo sguardo non resiste nulla: né il Vaticano, né la Casa Bianca, né il Cremino perché tutto è commedia. A meno che – e qui comincia il linguaggio della fede – questa vanità che finalmente si discopre senza appelli possibili – perché il nulla non ha confini – si capovolga del tutto .
È questa la fede cristiana: la morte si capovolge in vita…
Ernesto Balducci – da: “Gli ultimi tempi” – volume 3 – anno C