Vangelo Domeniche e Festività
V Domenica di Quaresima: "avere misericordia è impedire che l'ultima parola sia di condanna".
Alla donna adultera Gesù ha detto: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più” (Gv 8,10-11).
Gesù ha avuto misericordia.
Avere misericordia è impedire che l’ultima parola sia di condanna. Implica avere fiducia nel futuro dell’altro, nella sua capacità di recupero. È questo che Gesù ha fatto.
Per fare quello che ha fatto Gesù abbiamo bisogno di espellere il fariseo che può essersi istallato nel nostro cuore.
Il fariseo non è tanto una persona quanto uno spirito, un modo di comportarsi. Siamo farisei quando ci lasciamo orientare solo dalla legge senza considerare la persona concreta che sbaglia; quando siamo intolleranti di fronte a coloro che peccano. Il peggio dello spirito farisaico risiede nella durezza del cuore. Equivale alla mancanza di misericordia, alla negazione dell’amore per chi è debole e distrutto. È ciò che Gesù condanna di più nei farisei.
Che comportamento dobbiamo tenere di fronte ai peccatori?
L’atteggiamento di Gesù di fronte alla donna adultera e ai suoi accusatori ci fornisce un orientamento sicuro.
Gesù si mostra profeta e pastore.
Il profeta denuncia e annuncia con parole e gesti taglienti. Per i presuntuosi e i moralisti Gesù si rivela un profeta implacabile. Difende sempre gli accusati e i deboli contro i lor accusatori: la donna adultera, il pubblicano, l’eretico samaritano, la straniera siro-fenicia, gli stessi apostoli che non digiunano il sabato.
Nel racconto di oggi, il profeta Gesù scrive sulla polvere di fronte agli occhi attoniti degli accusatori della donna in flagrante adulterio.
Cosa scrive?
Il nome degli accusatori? Probabilmente.
La sentenza di misericordia verso l’adultera? Forse.
L’imperturbabilità di Gesù e il suo gesto di scrivere sulla polvere, che il vento può subito disperdere, vogliono indicare che egli non partecipa al gioco degli accusatori. Al contrario, li denuncia. In fondo vuol dire: “perdonate, dimenticate”.
Gesù non è solo profeta, ma anche buon pastore.
Secondo Ezechiele, il buon pastore va in cerca della pecora perduta e riconduce all’ovile quella smarrita, fascia quella ferita e cura quella malata, ha cura della grassa e della forte (34,16). Così ha fatto Gesù nella sua vita pubblica e lo ripete con l’adultera. In una parola, mostra un cuore sensibile e pieno di misericordia.
Quest’atteggiamento concretizza il comportamento del Padre con i suoi figli prodighi che siamo tutti noi (Lc 6,35). La misericordia è la caratteristica principale del Padre di Gesù. Chi sente su di sé la misericordia di questo Padre è portato ad essere anch’egli misericordioso e a non peccare più. Perdonare è non permettere che il peccato abbia l’ultima parola, che il fallimento si trasformi in una situazione definitiva. Perdonare implica aprire un nuovo futuro di speranza e accogliere la parola rivelatrice del Padre: “Ecco, faccio una cosa nuova” (Is 43,19).
Dobbiamo imparare da Gesù quando dobbiamo essere profeti e quando pastori. Dobbiamo esercitare la profezia nella denuncia degli oppressori degli umili e contro l’arroganza dei prepotenti e duri di cuore. Dobbiamo essere pastori misericordiosi con tutti coloro che sono stanchi e umiliati dai loro peccati. Solamente con la tenerezza e il senso di fraternità possiamo recuperare la loro umanità e far sperimentare loro la misericordia e la grazia del Padre di bontà.
(Leonard Boff)
IV Domenica di Quaresima: alzarsi, andare vuol dire ricominciare a vivere di speranze, nella speranza.
Vi sono molti modi di rifiutare il Padre e il cammino verso di lui. Il più comune (e il più nascosto nell’inconscio) è di rifiutare la morte. Eppure tutti, senza distinzione, siamo incamminati in un viaggio, breve o lungo, che inesorabilmente ci porta verso di essa.
Vivere è anche convivere con l’idea che tutto prima o poi finirà.
V’è chi si consola pensando che quando ci sarà la morte noi non ci saremo più e che finché ci siamo essa non c’è. Ma si tratta di una consolazione fragile. In realtà la morte incombe su ogni istante della nostra vita, incombe nella forma della domanda: che sarà di me dopo la morte? che senso ha per me la vita? dove vado con tutto il bagaglio dei miei sforzi, delle mie pene, delle mie magre consolazioni?
In tali domande la morte appare come una sfida radicale al pensare umano, una sfida da cui nasce una riflessione seria. E’ come una sentinella che fa la guardia al mistero. ….
Sento che alcuni leggendo queste parole saranno tentati di rifiutarle: perché cominciare con un argomento così serio e troppo poco pervaso dalla speranza delle Scritture? Eppure non ho fatto altro che richiamare la vicenda narrata da Gesù nella parabola dei due figli. E’ quando il minore, che ha voluto andarsene da casa e ha sperperato i suoi beni, si trova a toccare il fondo ….. che, quasi per contraccolpo, si ricorda che c’è una casa del padre, dove anche i servi hanno vita, dignità …
L’esperienza della miseria gli consente di guardare in faccia la via della morte che sta percorrendo e di ribellarsi. Quando ci sentiamo soli, quando nessuno sembra volerci più e noi stessi abbiamo ragioni per disprezzarci o essere scontenti di noi, quando la prospettiva della morte o di una perdita grave ci spaventa e ci getta nella depressione, ecco che dal profondo del cuore riemerge il presentimento e la nostalgia di un Altro che possa accoglierci e farci sentire amati, al di là di tutto e nonostante tutto.
Il Padre è in questo senso …l’immagine di qualcuno a cui affidarci senza riserve. …. La sua figura ha al tempo stesso tratti paterni e materni: se ne può parlare come del Padre nelle cui braccia si è sicuri e come della Madre a cui ancorare la vita che da essa riconosciamo. E’ pertanto evocazione dell’origine, del grembo, della patria, della casa, del focolare, del cuore a cui rimettere tutto ciò che siamo, del volto a cui guardare senza timore. Il bisogno del Padre è quindi equiparabile al bisogno di un riferimento e di un rifugio paterno e materno e può essere espresso indifferentemente con metafore maschili e femminili.
In questa luce la parola del figlio prodigo “Mi alzerò e andrò da mio padre” esprime l’esigenza di un’origine in cui riconoscersi, di una compagnia da cui sentirsi amati e perdonati, di una meta verso cui tendere. ….
Se le cose stanno così, perché allora in tanti è presente un rifiuto perfino viscerale della figura paterna? Perché il Padre-Madre delle nostre origini è al tempo stesso per molti l’avversario da combattere, la controparte da cui emanciparsi e fuggire? Perché il figlio più giovane della parabola vuole “andarsene lontano” dalla casa paterna e dal padre?
Le ragioni del prodigo per andare via di casa sono le stesse per le quali è stata coniata l’espressione “uccisione del padre”. Essa denota l’impulso che c’è in noi di chiedere conto e ragione, a chi pensiamo che in qualche modo stia sopra di noi, di ciò che ci spetta, per essere finalmente padroni di noi stessi e del nostro destino, per fare di noi “ciò che ci piace”. Ma per questo occorre cancellare in qualche modo la figura del padre, fare come se non ci fosse mai stato, in qualche modo sopprimerlo. ….
Il rifiuto del padre di non pochi nostri contemporanei ci deve rendere guardinghi riguardo a un uso troppo facile dell’immagine paterna (e in certa misura anche di quella materna) per parlare di Dio. Quando parliamo di un “ritorno al Padre” non vogliamo intendere una sorta di regressione alla dipendenza infantile, né tanto meno rievocare conflittualità profonde che hanno segnato alcune personalità. Il Padre-Madre di cui parliamo qui è metafora dell’Altro misterioso e ultimo, a cui affidarci senza paura, nella certezza di essere accolti, purificati e perdonati. Questo riflesso del volto di un Padre-Madre capace di amarci senza riserve è stato vissuto da molti di noi in esperienze felici di relazioni paterne e materne. E pure chi ha avuto solo in parte queste esperienze, chi ha avuto addirittura esperienze negative, ha nel cuore, forse ancora più forte, la nostalgia del totalmente Altro a cui abbandonarsi.
Questo Altro che si offre a tutti come Padre-Madre nell’amore, come “Tu” di misericordia e di fedeltà, è quello che ci è stato rivelato in Gesù Cristo. Non è una pura aspirazione, un auspicio, un vano sospiro interiore: è una realtà che ci è stata manifestata, a cui possiamo appoggiarci come a roccia che non crolla, come a braccia che tengono stretti, come a cuore che palpita per noi.
…. Lì dove l’uomo si chiude in se stesso o pretende di abbracciare l’intero universo nel corto orizzonte dei suoi progetti, trionfano l’angoscia, il non senso, la solitudine.
Lì dove la persona accetta di mettersi in ricerca e di aprirsi a un orizzonte più grande, la figura di un Padre ci viene incontro e ci chiama. …..
Se la conoscenza di Dio come Padre non è una proiezione dell’esperienza che abbiamo di chiamare qualcuno sulla terra “padre” e “madre”, bensì una rivelazione dall’alto … nondimeno ogni cattiva prova fatta in questo campo nel seno della famiglia rischia di oscurare l’immagine paterna di Dio caricandola delle amarezze ed esperienze mancate che segnano l’infanzia e l’adolescenza di molti.
Lo stesso si potrebbe dire per ogni altra forma di rapporto che risponda in qualche modo al nome di “paternità”: quella pastorale, ad esempio, nella relazione pastore-fedeli, o quella spirituale nell’accompagnamento dei cammini di fede e di discernimento.
Sarebbe quindi possibile, a partire da quanto detto, delineare una tipologia di paternità e maternità distorte, come pure rilevare, nel mistero della paternità di Dio, le linee guida per il loro superamento.
Si tratta insomma di ripensare il rapporto genitoriale nella famiglia (e tutti i rapporti analoghi) alla luce del misterioso rapporto di paternità e di figliolanza tra Dio e l’uomo. Si pensi ad esempio a quanto nella società di oggi il “padre misericordioso” venga confuso con il padre dalle concessioni facili, che non sa insegnare ai figli a portare i pesi della vita. O al contrario come il richiamo all’autorità paterna venga bistrattato nella formula del padre-padrone. ….
“Mi alzerò e andrò da mio padre”: è su tale decisione di farci pellegrini e di andare incontro all’abbraccio dell’Altro accogliente che si gioca il cammino di liberazione della nostra vita e il superamento della crisi del secolarismo.
Alzarsi, andare vuol dire non lasciarsi prendere dalla nostalgia di un passato esistente solo nella nostra mente, né dalla seduzione di un presente in cui restar fermi nelle nostre piccole sicurezze o nel lamento sui nostri fallimenti.
Alzarsi, andare vuol dire accettare di essere sempre in ricerca, in ascolto dell’Altro, protesi verso l’incontro che ci sorprende e ci cambia, desiderosi finalmente di “obbedire” in maniera adulta (cfr. Mt 21,28-31 – la parabola dei due figli).
Alzarsi, andare vuol dire ricominciare a vivere di speranze, nella speranza. “Siamo dei poveri mendicanti, questa è la verità”: la frase – attribuita a Lutero morente – è non solo la confessione onesta del limite sperimentato, ma anche la dichiarazione di un progetto di vita che cerca fuori di sé, nell’Altro, nel Padre-Madre nell’amore il senso della vita e della storia. Andiamo insieme allora verso il Padre ad ascoltare la Parola in cui Lui stesso si è raccontato a noi.
( Tratto da: C.M. Martini: Ritorno al Padre di Tutti )
III Domenica di Quaresima: la parabola del fico sterile: meraviglioso simbolo terreno della “ discussione” intradivina tra giustizia e misericordia.
Il brano odierno del vangelo secondo Luca si colloca al cuore della salita intrapresa con decisione da Gesù verso Gerusalemme (cf. Lc 9,51), dove si compirà la sua passione, morte e resurrezione. Gesù ha appena chiesto a quanti lo ascoltano di esercitarsi a discernere i segni dei tempi, a valutare da se stessi ciò che è giusto (cf. Lc 12,54-57), ed ecco che alcuni sottopongono alla sua attenzione un tragico fatto di attualità, così come ne accadono ancora ai nostri giorni: gli riferiscono «circa quei galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici». La mentalità religiosa del tempo vedeva in avvenimenti come questo un segno del castigo di Dio per il peccato, facendone un’occasione di giudizio sulle vittime…
Gesù, al contrario, sa assumere questo evento nella fede, cogliendovi un invito alla conversione. E lo fa con parole nette: «Credete che quegli uomini fossero più peccatori degli altri? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». E di seguito cita un altro grave incidente, il crollo della torre di Siloe che aveva causato la morte di diciotto persone, commentandolo ancora con le parole: «Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
In questa vita terrena non esiste un castigo di Dio che cade sugli ingiusti mentre risparmia i giusti, ma la verità è un’altra: tutti siamo peccatori, sia chi è morto sia chi rimane in vita, e «chi crede di stare in piedi, dovrebbe fare attenzione a non cadere» (cf. 1Cor 10,12) …
Gesù non intende spaventare nessuno, ma vuole insegnarci che ogni evento richiede una comprensione profonda, ricca di sapienza: occorre cioè leggerlo nel proprio cuore non come un semplice fatto di cronaca, ma collocarlo nella storia, anzi nella storia di salvezza, quella che Dio porta avanti invisibilmente ogni giorno. Solo così ciascuno potrà comprendere, innanzitutto per sé, che «Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva» (cf. Ez 18,23; 33,11)
Affinché questo sia ben chiaro, Gesù narra la parabola del fico sterile, ( E. Bianchi ) «un meraviglioso simbolo terreno della “ discussione” intradivina tra giustizia e misericordia: come l’unica cosa appare qui divisa in due figure, il padrone e il giardiniere, e questo è però ,alla fine, di nuovo d’accordo col padrone: “ se non da frutto, puoi fargli scavare attorno “ Così il Figlio può essere d’accordo, o non, con il Padre ( da Hans Urs von Balthasar “ Chicco di grano – Aforismi” )
Se Gesù non ha mai condannato nessuno, ma ha sempre offerto a tutti la possibilità e la speranza della conversione, tanto meno spetta a noi ergerci a giudici della fecondità o sterilità degli altri! Ecco perché, come spesso accade nelle parabole, anche questa resta aperta, quale appello a ciascuno di noi a portare frutti di conversione.
Gesù sapeva bene che «la misericordia ha sempre la meglio nel giudizio» (Gc 2,13). Ed è proprio la conoscenza di questa misericordia di Dio, più forte dell’evidenza del nostro peccato, che ci può spingere alla conversione. Sì, ogni giorno il cristiano dovrebbe dire con convinzione: «Oggi ricomincio, oggi posso ricominciare», senza mai porre limiti alla misericordia di Dio.( E. Bianchi )
…Noi viviamo come chi ha già sentito pronunciare il giudizio di condanna e gode di una sospensione dell’esecuzione, come l’albero su cui ha posto l’occhio il padrone che deve essere tolto via ed invece, per un di più di misericordia e di tolleranza, deve dare l’ultima prova di sé.
Noi siamo all’ultima prova.
Questo tipo di analisi, che non mette in questione ciò che c’è nei cieli ma mette in questione ciò che c’è sulla terra, ci permette di riprendere le misure. Anche le misure della nostra fede in Dio.
Avremmo bisogno, come diceva Bonhoeffer, di assumerci un impegno (lui diceva di venticinque anni , ma noi potremmo dire anche di più) di non nominare Dio, di fare silenzio, perché ormai anche il suo nome imbroglia.
Dalla Scrittura di oggi però ci viene fatta una proposta: il Dio di cui parliamo è il Dio che ha avuto pietà degli oppressi. (Ernesto Balducci – da: “Gli ultimi tempi” – vol. 3 – anno C)
II Domenica di Quaresima: Viviamo dentro una nube la nostra esperienza di fede. Nessun contatto in questa nube con la gloria di Dio se non la parola " Questo è mio Figlio, ascoltatelo".
… Dopo aver contemplato la gloria di Gesù, gli apostoli, entrati nell’oscuramento della nube dove furono presi da timore, vennero impegnati dal Signore – è detto in un altro sinottico – a tacere su quello che avevano veduto.
Le certezze che nascono da un contatto con la Gloria di Dio, non possono essere dette nel contesto del nostro discorso feriale, né propagate come se fossero verità di tipo filosofico o scientifico. Esse eccedono a tal punto la credibilità, sono così al di fuori della nostra possibilità di rappresentarle che il vero modo di rispettarle è il silenzio.
C’è un silenzio che nasce dal vuoto – uno non dice niente perché non ha niente da dire – ma c’è un silenzio che nasce dal pieno – uno non dice niente perché sa che quello che dice non è credibile – . C’è un ritegno che è l’opposto della mancanza di fede, è un segno della fede. […]
È dentro una nube che viviamo, dunque, la nostra esperienza di fede.
Vivere così significa innanzitutto vivere sotto il segno della croce.
Paolo, con parola forte, parla dei «nemici della croce».
I nemici della croce di Cristo sono tutti coloro che dimenticano che l’esistenza è sotto il segno della morte, siamo in questa vita terrena con tutti i segni della fragilità.
Il punto terminale della nostra vita umana è un cimitero. Questo è il mondo della nostra esperienza. Chi di voi ha avuto qualche altra esperienza che ci porti al di là di questo limite?
La nube ci circonda totalmente.
… Viviamo dentro una nube dove, come gli Apostoli, abbiamo un gran terrore.
Questo terrore lo provate ogni giorno se tenete gli occhi aperti, e nell’orizzonte domestico e nel grande orizzonte – anch’esso ormai domestico – della vita sociale, dove ci raggiungono notizie terrificanti, dove la fragilità dell’uomo, gli squilibri dell’uomo aggressivo, il sangue che si sparge, ci danno terrore.
Non possiamo costruirci una cronaca a nostro uso e consumo, tutta azzurra o tutta rosa, perché il mondo è squallido.
Questa verità, offertaci da questo mondo terribile, non è l’ultima verità.
L’altro terrore, che è sacro, è quello della potenza di Dio ed è lo specifico della fede.
Come la fiaccola che passa, secondo un rito antico, attraverso gli animali squartati mentre anche Abramo è nel terrore – è l’iniziativa di Dio che si fa vivo, che porta la promessa e libera Abramo dal terrore – così noi abbiamo questa luce – è la luce della resurrezione – che ci dà come il terrore della potenza di Dio.
Dio non è plausibile, non è ragionevole, la sua potenza sorpassa le nostre argomentazioni. Se così stanno le cose. noi viviamo sotto il segno della croce.
Non ci illudiamo: la signoria del mondo è una signoria micidiale.
I poteri di questo mondo, nella complessità in cui si svolgono e si intrecciano – siano quelli bruti della forza fisica, siano quelli che hanno in mano il diritto e la ricchezza o la parola o la cultura – sono poteri che schiacciano i miseri ed hanno efficacia fino a quella soglia oltre la quale c’è il nulla: qui ogni potere tace.
Di fronte ad un uomo moribondo ogni potere tace, non ha più niente da dire perché il mondo del potere è il mondo dell’effimero, dove la follia si svolge, dove la cultura trionfa, dove il denaro circola.
Questa anticipazione della radicalità della croce è un aspetto della fede – un aspetto terreno, laico – che ci affratella a tutti gli uomini, anzi in qualche modo ci pone accanto a loro, sia pure in modo critico, perché non accettiamo le signorie sostitutive a cui spesso gli uomini senza fede hanno aderito quasi come sostituto della fede.
Ma anche all’interno del mondo religioso siamo contro ogni fanatismo, contro ogni superstizione, contro ogni autoritarismo, perché tutto questo offende la radicalità della croce.
È un principio importante, mai del tutto vissuto, mai del tutto adempiuto, che ci deve trovare intransigenti sia pure con amore.
L’altra verità è che in questa nube non c’è nessun tramite per tener contatto con la gloria di cui vi ho detto se non la parola che dobbiamo ascoltare: «Questo è mio figlio, ascoltatelo».
Ciò che ci rimane come eredità è questa parola, scritta, sì, nei libri, ma in realtà trasmessa nella viva palingenesi del cuore – non si dà la parola consegnando un libro, la parola si riaccende, come se fosse nel momento aurorale, nel cuore che l’annuncia oppure è una parola morta – ed è una parola che fa la sua corsa nel tempo.
(Ernesto Balducci – da “Gli ultimi tempi” – vol. 3- anno C )